Marcature
LIBRO PRIMO
[1] Le parti della volgar grammatica, cosí bastevoli per cognitione
di lei come necessarie, sono quattro: nome, pronome, verbo, ad-
verbio. Di ciascuna delle quali regolatamente ragionar inten-
dendone, dal nome pigliando principio, dico:
La prima regola del nome essere che li nomi li quali in alcu-
na di queste vocali e overo o finiscono il loro minor numero, in
questa vocale i il maggior harran terminato. [2] Dell'uno non ha mestieri essempi, perché ad ognuno è noto dirsi un bello, piú bel-
li, un sasso, piú sassi, et cosí gli altri tali. Et in tale norma si com-
prendono ancho quelli nomi cui si preponga feminile articolo, come la mano, le mani: Petrarca nel sonetto XXI:
col cor levando al ciel ambo le mani,
et Dante nel canto VIII dell'Inferno:
Allhora stese al legno ambe le mani,
et cosí negli altri lochi. [3]
Solo ritrovo Dante haver posto, nella
sua canzone la quale incomincia « Tre donne intorno il cor mi
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son venute », la voce del numero del meno con lo significato del numero del piú, dicendo:
hai ragunato e stretto ad ambe mano
quel che sì tosto ti si fa luntano.
[4] Et in medesima maniera, nella sua Comedia parmi che la detta
voce una sol volta usasse, nel canto IV del Paradiso, quando disse:
Per questo la scrittura condescende
a vostra facultate, et piedi et mano
attribuisce a Dio, e altro intende.
[5] Questa voce mane veramente non la ritrovo se non con signi-
ficanza della mattina, come Petrarca:
Stamane era un fanciullo e hor son vecchio,
et Dante:
Fatto havea di qua mane e di là sera,
et cosí in tutti gli altri lochi di essi auttori che noi seguimo.
[6] Delli secondi nomi parimente in e terminanti, infiniti so-
no gli essempi, delli quali pochi (la tediosa lunghezza fuggendo) trascriverò: Petrarca, nel sonetto CLXXIII:
Dolci ire, dolci sdegni e dolci paci,
et nel quarto verso:
[AIv] Hor di dolce ora, hor pien di dolci faci.
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[7] Morte medesimamente ha morti nel numero maggiore: Petrar-
ca nel sonetto XXXVI:
Mi vedete stratiar a mille morti.
Cosí dicemo una parte, piú parti: Dante nel canto XX dell'Inferno:
per lo pantan c'havea da tutte parti;
et altrimenti non si trova. [8] Onde li testi, li quali nel canto XX-
VII del Paradiso cosí si trovan scritti:
Le parte sue vivissime et eccelse
sí uniforme son,
di dui errori sono machiati, perché, come noi diciamo nel primo numero biforme, deiforme, cosí è da dirsi uniforme, et nel secondo numero uniformi. [9] ,Questa istessa regola, adunque, segue que-
sta voce consorte, come dimostra Dante nel canto XIII dell'Inferno,
dicendo:
ove le due nature son consorti;
come che il medesimo poeta, intento all'altezza del soggetto
forse piú che al regolato ordine di rime et di grammatica, ne fos-
se alquanto licentioso trasgressore, dicendo nel canto XXI del Pa-
radiso:
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perché predestinata fosti sola
a questo officio tra le tue consorte.
[10] La qual licentia in questo et nelli sottonotati essempi gli par-
ve per auttorità poetica (forse) doverli essere senza biasimo con-
cessa; però disse nel canto XXVII del Paradiso:
Dinanzi agli occhi miei le quattro face,
et nel canto IV:
quelle sustantie pie,
ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?
[11] Et che tal voce nel minor numero cosí finisca, dimostralo nel
canto XXVI del Paradiso:
et per auttoritade a lui concorde.
Nè altrimenti è posta questa voce pingue nel canto XI dell'Inferno:
Ma dimmi: quei della palude pingue,
e nel canto XXIII del Paradiso:
Se mo sonasser tutte quelle lingue
che Polinnia con le sue sore fero
del latte lor dolcissimo piú pingue.
[12] Questo altro nome ape altresí con tal finimento è posto nel numero plurale nel canto XVIII del Purgatorio:
sono in voi sí come studio in ape
in far lor mele;
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ma nel canto XXXI del Paradiso regolatamente scritto si trova:
sí come schiera de api che se infiora.
[13] Dape ancho et prece pose nel maggior numero: il primo nel
canto XXIII del Paradiso:
cosí la mente mia, tra quelle dape,
il secondo nel canto XX del Purgatorio:
tanto è disposto a tutte nostre prece.
[14] Ma qui è da notare che molte voci le quali nel primo nu-
mero in o finiscono, non solo in i come è sopradetto sono fi-
nienti nel secondo, ma alcuni ancho in a, et [A2r] in e si trovano terminare, come per li sotto notati essempi apparerà: Petrarca
nel sonetto CXXIII:
et ricercarmi le midolle e gli ossi,
et altrove:
spirito ignudo od huom di carne e ossa,
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et nel Triumpho secondo dell'Amore:
Vidi il pianto di Egeria; in vece d'osse.
[15] Da questo singular numero membro nascono medesimamen-
te li plurali nelle dette tre vocali finienti: Petrarca nella canzone ultima:
nei dolci membri del tuo caro figlio;
et Dante nel canto XVI dell'Inferno:
Haimè, che piaghe vidi nei lor membri,
et nel canto VI del Purgatorio:
hai tu mutato, e rinovato membre!
et canto XXIX dell'Inferno:
che suol uscir delle marcite membre;
Petrarca nella canzone XXVI:
ove le belle membra
pose colei che sola mi par donna.
Et questo finimento è sempre usato da messer Giovanni Boc-
caccio et frequentato dalli dui poeti nostri.
[16] Questo istesso si
trova in questo nome muro: Petrarca nella canzone XLIII:
Muri eran d'alabastro, e ’l tetto d’oro,
e nel sonetto XXX:
nè di mure o di poggio o di ram’ ombra;
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et Dante nel canto IV:
sette volte cerchiato d'alte mura.
[17] Da vestigio parimente nasce nel maggior numero vestigi: Pe-
trarca nel sonetto CCLXVI:
Lei non trovo io: ma suoi santi vestigi;
et Dante nel canto XXXI del Purgatorio:
lassar le tue vestige;
et Petrarca nel sonetto CCLXIII:
di vaga fera le vestigia sparse.
[18] Corno: come che nel numero maggiore corna regolarmente faccia, corni ancho si legge: Dante nel canto XVIII del Paradiso:
Però mira nei corni della croce;
et il Boccaccio, nel suo libro intitolato d’Ameto (non essendo
error di stampa), corne lasciò scritto, ché scritti con penna non ho veduto.
[19] Cotali finimenti ha il numero del piú di questo no-
me calcagno: Dante nel canto XIX dell'Inferno:
tal era qui da’ calcagni alle punte,
et nel canto XIX del Purgatorio:
Bastiti, e batti a terra le calcagne;
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il Boccaccio, nel Decamerone, alla giornata ottava, nella novella
del giudice marchigiano, intorno al mezzo dice:
le brache ne venero incontanente insino alle calcagna.
[20] Un ciglio et piú cigli et ciglia dir si puote, se l'auttorità di Dante appo noi vale, nel canto III del Purgatorio dicendo:
ma l'un dei cigli un colpo havea diviso,
et nel canto XXX:
che tutti ardesser disopra dai cigli,
et nel canto XIX del Paradiso:
cotal si fece, e sí levai li cigli,
et nel canto XV dell'Inferno:
et sí ver’ noi aguzzavan le ci[A2v]glia,
et nel VII del Purgatorio:
chinò le ciglia;
Petrarca nel sonetto CLXVI:
Gli occhi sereni e le stellanti ciglia,
et altrove:
Dal bel seren delle tranquille ciglia.
[21] Questi medesimi finimenti ritrovo in queste voci castello, stri-
do, dito: Petrarca nella canzone XXXIII:
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per oro, per cittadi o per castella;
Dante nel canto penultimo dell'Inferno:
d'haver tradito te con le castella,
et nel canto XV:
per difender lor ville e lor castelli,
et nel canto XVIII:
piú e piú fossi cingon li castelli.
[22] Petrarca nella canzone XXX:
se no ’l temprasser dolorosi stridi,
et nel sonetto CCXXII, et nella canzone ultima:
et ho già da vicin l'ultime strida.
Dante nel canto primo dell'Inferno:
ove udirai le disperate strida;
Petrarca nel sonetto CLXVI:
deti schietti soavi, a tempo ignudi;
Dante nel canto XII del Purgatorio:
et con le deta della destra scempie.
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[23] Ginocchio have altresí nel plural numero ginocchi: Dante nel
canto IV del Purgatorio:
sedeva e abbracciava le ginocchia.
Ginocchie ancho diremo, se torre essempio del finimento de vo-
ci dal mezzo de’ versi non si disconvene, dal Petrarca, ove è
scritto:
et perché inchinar a Dio convene
le ginocchie e la mente.
[24] Questo vocabol quadrello che ‘strale’ dinota, nel numero del
meno una sol volta usato lo trovo da Dante, nel canto II del Pa-
radiso ove dice:
et forsi tanto quanto quadrel posa
e vola et dalla noce si dischiava.
Nel numero del piú ponelo Petrarca nella preallegata canzone
XXXIII:
S'io ’l dissi mai l'aurate sue quadrella,
et nella canzone VI:
quadrella, dal voler mio non si svoglia.
[25] Onde, imponendo fine a piú simili essempi, io direi, che
tutti li nomi li quali nella latina lingua si dicono neutri, nella vol-
gare havessono il maggior numero in a finiente sí come in quel-
la, per questi nomi braccia, legna, labbra, fila, vestimenta, latora, corpo-
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ra et simili, se io non trovassi molti delli detti nomi neutri haver
il finimento loro in esso numero in i solamente, come sasso, scan-
no, regno, tormento, monile et altri tali, et molti, li quali sono in
quella lingua di genere maschile, che il lor maggior numero in
questa terminano come li neutri in essa.
[26] Et oltre li sopra no-
tati essempi, ancho appare in questi numeri: anella, ché anelli
non si legge; sacca: Dante nel canto XXII del Paradiso:
le cocolle
fatte son sacca di farina ria;
da riso risa: Petrarca:
So fra lunghi so[A3r]spiri e brevi risa,
et cosí sempre il ritrovemo.
[27] Coltella, frutta, letta, ramora, et altri tali si apparano in molti lochi avanti a chi legge la prosa del vol-
gar Cicerone certaldese; però non trascrivo essempi. Il perché io
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mi aviso doversi seguire quello che piú frequentemente usano
gli auttori nostri; pur peccati diremo, come Petrarca, non peccata, come Dante.
[28] La seconda regola sarà, che li nomi nel numero primo in a terminanti, nel secondo regolarmente in e fanno il finimento lo-
ro, come stella, stelle; bella, belle; vesta, veste; greggia, gregge, come che questo ultimo nome nel latino sia de genere maschile et cosí
usato (se dir non vogliamo usurpato) da dicitori moderni non di oscuro nome nella volgar lingua. [29] Ma io, lettori miei (come
vi preposi prima) il Petrarca massimamente parmi in ogni voce doversi seguitare, et egli dice nella canzon della Italia:
fere selvagge e mansuete gregge;
Dante nel canto XV dell'Inferno:
« O figliuol mio, qual di questa greggia »
et altrove:
D'anime ignude vidi molte gregge.
[30] Dissi questo proceder regolarmente: perché sono alcuni no-
mi delli quali, tutto che il minor numero finisca in a, il maggio-
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re in i è terminante, come poeta, poeti; propheta, propheti; geometra, geometri; pianeta, pianeti, et altri simili. [31] Ma come poco è avanti detto l'uso delli nostri auttori sarà nostra insegna. Nè in questa
seconda regola piú mi estenderò, dalla terza chiamato, la quale
non meno di utile che la seconda vi promette.
[32] La terza, adunque, regola, dalle due preposte nascente, fia
tale: che li nomi li quali si ritrovano haver per finimento nel nu-
mero minore a et e, ponno in e et in i terminar il maggiore, co-
me nelli sottonotati essempi apparirà. [33] Fronda et fronde si leg-
ge nel singular numero; però fronde et frondi nel plural si ritrova: Petrarca, nelli sonetti:
che da’ bei rami mai non mosse fronda,
et nel sonetto XXVII:
defendi l'honorata e sacra fronde,
et nel sonetto CLXIV:
L'aura serena che fra verdi fronde,
et nella canzone XXXI:
Alla dolce ombra delle belle frondi.
[34] Il medesimo si ritrova in questo nome loda et lode: Dante nel
canto III del Paradiso:
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fosse conchiuso tutto in una loda;
et Petrarca, nella canzone XXVIII:
in [A3v] qualche bella lode,
et altrove:
le degne lode, il gran pregio e il valore,
et in altra parte:
che per lodi anzi Dio preghi mi rende.
[35] Et perché laude nel solo si trova, come nel canto XIX del Para-
diso:
vid'io farsi quel segno, che di laude,
nel moltiplicato laudi e non laude ritrovemo: Petrarca, nella can-
zone VI:
So ben io ch’a voler chiuder in versi
suo laudi fora stanco.
[36] Et come che nel primo numero froda et frode si legga, pur nel maggiore non mi sovene haverlo ritrovato: Dante nel canto
XVII:
E quella sozza imagine di froda,
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et nel canto XI:
Et perché frode è de l'huom proprio male,
et poco poi:
La frode, onde ogni conscienza è morsa.
Ma chi, seguendo la regola delli già detti, ponesse il maggior nu-
mero, non credo che errasse. Questo istesso dico di canzona
e canzone. [37] Ale et ali, arme et armi, parimente si trovano nel mol-
tiplicato numero, perché nel solo si trovano haver ancho dupli-
cato finimento in a et in e, come gli altri sopratoccati in questa
regola. [38] Che ala singular numero sia, niuno è che dubiti; et
che ancho si dica una ale dimostraloci pur Dante nel canto XXIX del Purgatorio, ove dice, del griphon parlando:
Et esso tendea in sú l'una e l'altra ale;
et in tal modo si usa hoggi dí questa voce dagli habitanti a piè
dell'alpi verso il monte de l'Averno. Et da lei nasce il maggior numero ali, come
sopra gli homeri havea due grandi ali
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disse Petrarca, nel primo Triumpho dell'Amore, et cosí in molti al-
tri lochi nei versi suoi. [39] Et ale non meno spesso si legge, da
questo singular numero ala descendente, come nel sonetto
CCLXVII:
Io pensava assai destro esser su l'ale,
non per la forza, ma di chi le spiega.
[40] Arme in singular voce pose Dante, nella canzon sua notabile c
he incomincia « Cosí nel mio parlar voglio esser aspro », ove di-
ce:
ma come havesin ali,
giungono altrui e spezza ciascuna arme:
sí che da lei non so nè posso aitarme;
et nel suo Convito, sopra la canzone la quale incomincia « Voi ch'entendendo il terzo ciel movete », dice:
discocca l'arco di colui al quale ogni arme è leggiere.
[41] Et questo Giovanni Boccaccio nella giornata terza confir-
mando, nella novella d'un palafrenere disse:
pur vedendo il re senza alcuna arme,
diliberò di far vista di dormire.
Et da questa singular voce deri[A4r]va la plural armi: Dante nel
canto XVII dell'Inferno:
che passa monti e spezza mura et armi.
[42] Et di questo minor numero arma, posto dal Boccaccio nella
settima giornata, nella canzone da Elisa cantata, dicendo:
et ciascuna mia arma puosi in terra,
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nasce il maggior numero arme, usato sempre dal Petrarca, et da
Dante in molti lochi nelli quali tal voce occorra.
[43] La quarta regola sarà che li nomi adiettivi, il cui minor
numero nella volgar lingua da questa vocale e sia terminato, ri-
maranno comuni all'uno et altro sesso, come debile, grave, aman-
te.
[44] Et alcuni nomi sostantivi sono, di incerto genere, che am-
bi li articoli, di maschio cioè, et di femina, ricevono; perché nel-
la volgar lingua lo articolo dimostrante neutro genere non vene
in consideratione, benché si legga « lo ampio aria » et « lo tondo
ethera »: Dante, canto XXII del Paradiso:
che lieta ven per questo ethera tondo;
ma tal modo di dire alla latina si appropinqua (seguendo la
inflession greca) piú che alla volgar lingua. [45] Per essempio
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delli quali nomi porrò questi dui, fonte et fine: Petrarca nel so-
netto XX:
Cercate dunque fonte piú tranquillo,
et nella canzone IV:
In una fonte ignuda,
et nella canzone XXX:
due fonti ha: chi de l'una
bee, muor ridendo; chi de l'altra, scampa;
et nella canzone XVI:
finir anzi ’l mio fine,
et altrove:
Signor de la mia fine.
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[46] La quinta et ultima regola del nome sia che molti nomi si
trovano in medesima significatione et in variata voce dell'uno et
l'altro sesso, come loda et lodo. Del primo è detto disopra; del se-
condo: Dante nel canto III dell'Inferno:
che visser senza fama e senza lodo.
Dimanda, dimando: Dante nel canto XVIII dell'Inferno:
Il buon maestro, senza mia dimanda,
et nel canto XXIV dell'Inferno:
ché la dimanda honesta
si die seguir con l'opera tacendo,
et nel canto II dell'Inferno:
Questa chiese Lucia in suo dimando,
et nel canto X:
Et io li sodisfeci al suo dimando.
[47] Scritto, scritta: Dante nel canto XIX dell'Inferno:
Di parecchi anni mi mentí lo scritto,
et nel canto XI:
di un grande avello, ov'io vidi una scritta,
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et nel canto IX:
Sovr'essa vedestù la scritta morta.
Lampo e lampa: Petrarca nelli sonetti:
le faville e il chiaro lampo,
et nella canzone ultima:
et con piú chiara lampa.
[48] Chiostro e chiostra: Petrarca nella canzone già detta:
al tuo virgi[a4v]nal chiostro,
et nelli sonetti:
per questa de' bei colli ombrosa chiostra.
Olivo, oliva: Dante:
Et come a messaggier che porta olivo;
Petrarca nel sonetto CXCV:
Non lauro o palma, ma tranquilla oliva.
[49] Costume e costuma: del primo non ha mistier essempio;
del secondo, Dante nel canto XXIX dell'Inferno:
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E Nicolò che la costuma ricca
del garofono prima discoperse.
Calle et calla: del primo, Petrarca nelli sonetti:
quanto è spinoso calle;
Dante:
quanto è duro calle
lo scender e salir per l'altrui scale,
et nel canto IX del Paradiso:
disse egli a me, « non s'apre questa calla »
[50] Bisogno, bisogna: Petrarca:
che io potesse al bisogno prender l'arme,
et altrove:
è bisogno ch'io dica;
Dante nel canto XXIII dell'Inferno:
Mal contava la bisogna,
et canto ultimo del Purgatorio:
Madonna, mia bisogna
voi conoscete.
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Et questa voce feminile sempre quasi usa il Boccaccio; ma della
varietà della significatione si dirà nel seguente libro.
[51] Buco, buca: del primo, Dante nel canto penultimo dell'In-
ferno:
S'io havesse le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco,
et in fine del medesimo canto:
ch'io vidi dui ghiacciati in una buca.
[52] Vela, velo; candela, candelo: delle voci feminili non si dubbia,
però solo porrò li essempi de l'altre due. Della prima, Dante nel
canto II del Purgatorio:
Sí che remo non vuol, nè altro velo;
nel canto XI del Paradiso:
firmossi, come a candelier candelo.
Cerchio, cerchia: Dante nel canto V dell'Inferno:
Cosí discesi del cerchio primaio
giù nel secondo,
et altrove:
da quelle cerchie eterne ci partimmo.
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[53] Aiuto, aita: Petrarca nella canzone che incomincia «Dhe,
porgi aiuto all'affannato ingegno», et nel Triumpho II dell'Amor:
et s’el non fosse la discreta aita,
et cosí altrove; et Dante in molti lochi, ha usato l'una e l'altra voce.
[54] Prego, preghera: del primo, Dante nel canto XXVI dell'Inferno:
e pregoti che'l prego vaglia mille,
et altrove:
chi il prego aspetta;
Petrarca nelle canzoni:
perché porger al ciel cotanti preghi?
et nel sonetto XXV:
se la preghera mia non è superba.
[55] Orecchio, orecchia: Dante,
spesse fiate m'intronan l'orecchi,
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et:
un c'havea ma' ch'un'orecchia sola.
Favilli, Faville: Dante nel canto XX del Paradiso:
come parea ardente in quei favilli.
Di faville è di soverchio addur essempi.
[56] Puzza e puzzo: del primo Boccaccio nella seconda Gior-
nata, nella novella di Andreuccio ove [BIr] dice:
Et a se medesimo dispiacendo per la puzza che a•llui di lui veniva,
et poco piú oltre:
Che vuol dir questo? io sento la maggior puzza che mai mi paresse sen-
tire.
[57] Del secondo nella medesima novella intorno al fine:
di fame e di puzzo, tra' vermini del morto corpo convenir morire.
Ma a me giova di creder che 'l Boccaccio lasciasse scritto in cia-
scun loco «puzzo», non «puzza». [58] Et cosí è l'uso della tosca
lingua, come dimostra Dante in piú lochi doversi dire; et prima
nel canto XI dell'Inferno:
et quivi, per l'horribile soperchio
del grande puzzo che l'abisso gitta,
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et nel XXIX canto dell'Inferno:
et tal puzzo ne usciva
qual suol uscir dalle marcite membre,
et nel canto XIX del Purgatorio:
quel mi svegliò col puzzo che ne usciva,
et altrove disse:
che haverle dentro e sostener lo puzzo;
onde Landino nel preallegato canto XI, sopra quel verso:
che fin là sú facea spiacer suo lezzo,
dice puzzo è «che getta una cosa marza e fragida».
[59] Pezzo et pezza dicesi: Boccaccio nella Giornata VII, nella
novella di Arriguccio geloso:
havendo Roberto un gran pezzo fuggito,
et nella Giornata ottava, nella novella del prete da Varlungo:
Se Dio mi salvi, che son venuto a star teco un pezzo,
et nella Giornata settima, nella novella di Lidia:
è buona pezza ch'io mi deliberai;
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[60] et nella Giornata VIII, nella novella delli due compagni:
Una grandissima pezza sentí tal dolore che parea che morisse,
et nella Giornata II nella novella de' tre gioveni fiorentini:
Simile a buona pezza non mi tornerà.
[61] Detto quanto a me par bastevole delli nomi, seguente-
mente parmi doversi dir delli pronomi che gli rappresentano.
La prima, dunque, loro regola serà, che questi pronomi: egli, ei, questi, quei, quelli, altri regolarmente si pongono nel caso retto, cosí del maggior numero come del minore.
Delli dui primi, nel minor numero non bisogna trascriver essempi, perché ripiena
ne è la Comedia di Dante; ma perché di rado nel maggior nume-
ro si ritrovano, non posporrò di ritrarne alcuno: Dante nel can-
to X:
«Egli han quell'arte», disse, «male appresa»,
et nel canto IV dell'Inferno:
ei non peccaro,
et poco poi:
ch'ei sí mi fecer della loro schiera,
et nel canto XII:
Ei son tiranni.
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[62] Dissi che regolarmente nel caso retto si ritro[BIv]vano, perché
si trovano ancho negli oblichi. Dante nel canto X sopranotato:
fat'ei saper che fu perch'io pensava,
et nel canto V:
et per lo amor ch'ei mena.
Degli altri, li quali pur hanno voce di maggior numero, che nel
minore ancho si ritrovino, apparirà nelli sotto notati essempi:
Dante nel canto I dell'Inferno:
Et come quei che con lena affanata,
et nel canto II:
E qual è quei che disvuol ciò che volle,
et nel canto VIII:
et disser: «Va' tu solo, e quei sen vada»,
et cosí in altri lochi. [63] Nel maggior numero trovasi nel canto preallegato:
per quel amor ch'ei mena, e quei verranno,
et in oblico caso nel canto III:
che honora te e quei ch'oduto l'hanno.
Essempio dell'altre voci, in uno e altro numero: Dante nel can-
to primo del Purgatorio:
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Questi non vide mai l'ultima sera;
Petrarca nella canzone ultima:
Questi m'ha fatto,
et poi:
Questi in sua prima età;
et Dante nel canto IV:
questi chi son c'hanno cotanta horranza?
[64] Questo in retto e oblico si dice ancho, come si legge appres-
so Dante nel canto XV dell'Inferno:
Questo l'orme di cui pestar mi vedi,
et nel canto XXVIII dell'Inferno:
Tu di' ver di questo.
Et poi nel canto XX (per essempio di questa voce quelli):
io son Beltram dal Bornio, quelli
che dette al Re Giovanni i mai conforti.
[65] Che altri medesimamente in uno et altro numero si ritrovi in retto caso et in oblico, infiniti sono gli essempi; come Dante nel
canto V dell'Inferno:
venite a noi parlar, s'altri no ’l nega,
et nel canto XVIII dell'Inferno:
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altri fa remi e altri volge sarte;
et Petrarca nelli sonetti:
che altri che me non ho di cui mi lagne;
Boccaccio nel capitolo II della prima Giornata:
Altri, in contraria oppenion tirati,
et molti simili.
[66] Ma si deve ancho sapere, che quando si pon-
gono in solo numero non se li aggiunge mai sustantivo, ma nel multiplicato altrimenti; onde non si dirà questi homo nè quei libro
nè altri modo, ma ben questi homeni, quei libri et altri modi, et per al-
tri porti: Dante nel canto III dell'Inferno:
Per altre vie, per altri porti.
[67] La seconda regola esser diremo che questi pronomi lui, lei,
loro, cui, altrui come persone agenti non si propongono a verbi operatione significanti; onde non si dirà lei mi vide, lui mi disse, ma
ella mi vide, egli mi disse. Et Antonio Bontempo, nella interpetra-
tione del sonetto XXIV del Petrarca ⟨che⟩ incomin[B2r]cia «Poco
era ad appressarsi agli occhi miei», nel terzo verso, che dice:
che, come vide lei cangiar Tesaglia,
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non bene ivi dichiara quel pronome in caso retto, dicendo lei,
cioè «quella luce», «vide cangiar», cioè arder, Thesaglia, inten-
dendo della luce del sole. [68] Il perché il Philelpho lo chiama
sciocco, interpretando egli poi piú scioccamente lei, cioè la luna, sognandosi non so che di un sdegno di madonna Laura, torbi-
dando ognhor piú il chiarissimo et elegante sonetto del poeta; il
quale apertamente dice, se poco piú a•llui si appressava la luce
degli occhi di Laura, si serebbe trasformato in lauro, cosí come Thesaglia vide cangiar lei, cioè il lauro, alludendo alla trasfor-
matione di Daphne. [69] Et perché nella canzone IV dice essersi trasfigurato in lauro, al fin della seconda stanza, ove disse:
facendomi d'huom vivo un lauro verde,
che per fredda stagion foglia non perde,
acciò che dir non si potesse, che per le seguenti transfigurationi
quella del lauro fosse mutata, dice nel fin della canzone:
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nè per nuova figura il primo alloro
seppi lassar;
però soggionge che, se non si potesse trasformar in lauro piú
ch'egli si sia, sarebbesi tramutato in alcuna delle pietre che no-
mina. [70] Et cosí lo intendimento è piano; e quel pronome lei è
oblico caso, come è ancho nel sonetto CLIII che incomincia
«Questa fenice da l'aurata piuma», ove dice in fine:
Fama ne l'odorato e ricco grembo
d'arabi monti lei ripone e cela,
che per lo nostro mar sì altera vola;
ove il Philelpho, sognandosi all'usato in queste interpetrationi, pensa lei esser caso retto, dicendo che 'l poeta dir voglia, lei esser volata al cielo, riservata la sua pudicitia nel suo grembo; non es-
sendo il vero senso che, come persona agente, Laura celi, ma che
la fama celi lei, cioè nasconda questa fenice nel grembo de li ara-
bi monti. [71] Et sarà il sentimento tale: che come che per fama,
cioè per voce di ognuno, si dica la fenice esser in Arabia, nel vero
non dimeno è volata alle parti nostre, comparando alla fenice ma-
donna Laura. [72] Medesimamente questo pronome non è posto
da Dante in caso retto nel canto XXI del Purgatorio, ove si legge:
Ma perché lei che dí e notte fila
non havea tratta a fine,
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ove la vera lettura è:
Ma per colei che dí e notte [B2v] fila
non gli era tratta a fine la conocchia.
[73] Et cosí ho veduto scritto con penna in uno antico libro di
Dante mostratomi dallo eccellentissimo iureconsulto et non
meno elegantissimo e giuditioso orator et poeta messer Corne-
lio Castalio. Et cosí parmi quadrar bene il senso, senza violenza
della grammatica.
[74] Dissi di sopra tali pronomi non si preporre come persona operante a verbo, in però che io gli trovo posposti in caso retto
al verbo in parlar (massimamente) reciproco; come si pone dal Petrarca nel sonetto XCIV ove dice:
e ciò che non è lei
già per antica usanza odia e disprezza;
et da Dante nelli suoi Conviti, nella canzon che incomincia «Le
dolci rime d'amor ch'io solia», ove nella terza stanza dice:
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poi chi pinge figura,
chi non pò esser lei, non la pò porre.
[75] Il Boccaccio nella Giornata quinta, nella novella di
Pietro Boccamazza, appresso il principio disse:
non essendosi tosto come lei de' fanti che venivano aveduto,
et nella prima Giornata, nella novella d'un monaco, alla fine:
per che della sua colpa se stesso rimorso, si vergognò di fare al monaco quello che egli, sì come lui, havea meritato
et nella seconda Giornata, nella novella di Andreuccio, intorno
alla fine:
Costoro, che da l'altra parte erano sì come lui, maliciosi,
et nella Giornata terza, nella novella di Tebaldo:
Maravigliossi forte Tebaldo che alcuno in tanto il somigliasse che fosse
creduto lui.
[76] Ma essendo questi essempi molto rari, piú volte io ho avisa-
to che veramente la regola sia generale, et che solamente siano
sempre oblichi; et quando altrimenti si trovan posti nelli nostri
auttori, quello procedere per colpa de' scrittori o de' stampatori.
[77] Et lo essempio allegato del Petrarca forse ne pò far fede, ché
non parrà sconvenevole, a chi con occhio giuditioso mira, che
legger cosí si debbia:
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et quel che non è in lei
già per antica usanza odia e disprezza,
seguendo quel leggiadro dantesco sentimento nella canzone che incomincia «Amor che nella mente mi ragiona», ove dice:
gentil è in donna quanto in lei si trova
et tanto è bello quanto lei somiglia.
[[78] Et dove nella predetta canzone dice «Chi non pò esser lei»,
dir si potrà che, dopo quello infinito essere, mise lo accusativo et
non nominativo [B3r] caso; come nella novella di Tebaldo detta
di sopra, nella quale, benché si legga in alcuni testi sí come io ho addutto lo essempio, io non dimeno ho cosí letto in uno testo
antico: «che fusse creduto esser lui» e non «che fusse creduto
lui». [79] Et cosí è posto il pronome nel quarto caso, come nella medesima novella poco piú oltre, ove si legge: «conoscendolo
esser lui». Agli essempi del monaco, di Pietro Boccamazza et di Andriuccio a me parrebbe poter dire (rispondendo senza bia-
smo) gli testi esser corrotti. [80] Et giovami di credere che, sì co-
me nella novella già detta di Andriuccio si legge piú presso al fi-
ne:
chi allhora veduti gli havesse, male agevolmente haverebbe conosciuto
chi piú si fusse morto, o l'Arcivescovo o egli,
cosí disopra il Boccaccio lassasse inscritto «erano sì come egli malitiosi», et non «lui». [81] Et questa è la diritta grammaticale
lettura, come ancho nella novella di Tophano, nella Giornata
settima, si vede in ciò la osservantia dello auttore, ove dice:
[82] Se io fosse nella via come è egli, et egli fosse in casa come son io, in
fé di Dio ch'io dubito che voi non credesse che egli dicesse il vero: ben
potete a questo conoscere il senno suo! Egli dice appunto che io ho fat-
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to ciò che io credo che habbia fatto egli. Esso mi credette spaventare col
gettare non so che nel pozzo, ma hor volesse Iddio che egli vi si fusse
gittato da dovero et affogatosi, che il vino, il quale egli di soverchio ha
bevuto, si fusse molto ben inaquato.
[83] Dove mi aviso che, se in alcuno di questi lochi lui si havesse
potuto dire senza errore, il Boccaccio, per schifare la multiplice
et conculcata replicatione di medesime voci, che alla oratione l'ornamento diminuisce, detto l'haverebbe. [84] Et tali modi nel-
le opere sue infiniti si leggono; ma della trascrittione di quello essempio solo voglio esser stato contento, non posponendo
però di dire che, dove nella novella di Pietro di Venziuolo, nella Giornata quinta si legge:
che egli erano dell'altre savie com'ella fusse,
se lei vi havesse senza error di grammatica potuto haver loco,
penso che detto haverebbe «cosí savie come lei». [85] Onde la
corretta lettura nello essempio della novella del Boccamazza
sarà «sì tosto come ella de' fanti non s'havea aveduto», et non
«come [B3v] lei»; et del monaco si leggerà «che egli sì come es-
so havea meritato», e non «come lui». [[86] Et nella novella di
Masetto da Lampolecchio, nella Giornata terza, ove si legge:
elle non sanno delle sette volte le sei che elle si vogliano loro stesse,
in uno antico libro non gli ho veduta iscritta quella parola «lo-
ro». Il che assai piú a me piace, perché, oltre che gli serebbe po-
sta contra la grammaticale norma, non ritrovandosi in alcuna
parte degli auttori nostri se non in caso oblico, vi sarebbe di so-
verchio, perché un solo pronome vi basta, come Dante nel can-
to IX dell'Inferno:
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Cosí disse il maestro; et egli stessi
mi volse,
et nel canto XII:
dove egli esso stesso bene non vi starebbe, et peggio egli lui stesso,
tutto che alcun verbo vi fosse interposto, che tanto è dire «che
elle si vogliono loro stesse». [87] Onde secondo la oppenione di
colui che scrisse quel libro (chi che si fusse) et il giuditio mio
(qual che si sia), leggeremo «quello che elle si vogliano istesse».
Et cosí la grammatica non sarà violata, et il sentimento pur ri-
marrà intiero et è il chiaro costrutto «non sano quel che si vo-
gliano elle stesse»; riportandomi però sempre all'originale lib-
bro, di mano dello auttore, o vero ad essempio alcuno che d'in-
di rittratto fusse. [88] Perché tanta varietà ritrovo in quelli che mi
sono venuti letti che, tutto che di antiquissimi ve ne siano stati maleagevolmente si pò discernere come lasciasse il suo facitor
iscritto, se falce di giuditio non vi s'interpone. Il che se non ha-
vesse fatto il dottissimo Hermolao Barbaro nelli pliniani volumi, Plinio a mani nostre (come esser deve corretto) non sarebbe an-
chora forse pervenuto.
[89] Ma ritornando all'instituto nostro grammaticale, dico che
contra la regola data per me si potrebbe forse adducere in que-
sto pronome altrui uno essempio del Petrarca nel sonetto LXIV,
ne l'ultimo verso, ove dice:
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che d'altrui colpa, altrui biasmo s'acquista,
facendo il secondo «altrui» nominativo et «biasmo» accusati-
vo, et «acquista» verbo attivo. [90] Ma forse, con risservamento
della grammatica, della quale esso Petrarca ne è stato diligentis-
simo osservatore, et con chiara inteligentia del sentimento suo,
si potrà dire che ambo quelle voci «altrui» siano nel caso geni-
tivo, «biasmo» no[B4r]minativo et «acquista» verbo imperso-
nale. Et il senso latino sarebbe «ex alterius culpa alterius acqui-
ritur calumnia», «per la colpa di altrui acquistasi ancho il bia-
smo di altrui», cioè di quel colpevole. [91] Ma posto che con-
fessar bisognasse che questo et gli altri pochi pronomi negli es-
sempi per me sopratoccati fussero posti nel caso primo, ancho-
ra sarei oso di dire la general mia regola non meritar ripren-
sione; perché, come ensegna Quintiliano et gli altri maestri della romana grammatica et eloquentia, lo uso et non lo abuso degli
auttori dovemo seguitare, cioè che non quello che una volta o
poche piú, ma a quello che frequentemente usino nel dire,
si deve haver riguardo. [92] Ma di ciò, et di quanto ho detto, et son
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per dire, al giuditio vostro mi soppono, sinceri et candidissimi
lettori.
[93] Questo ultimo pronome cui a me non sovene haverlo mai
letto in parte che caso retto giudicare da alcuno si potesse. Et
non si pò porre in loco di lui questa consimile voce chi, perché
hanno tra sé nottabile differentia, che è cotale. Cui, oltre che in
casi oblichi si ponga sempre et referisca l'uno e altro numero et
sesso, un caso solo sempre rappresenta; come Dante nel canto II dell'Inferno:
O donna di virtù, sola per cui;
et Petrarca nella canzone della Italia:
Voi cui Fortuna ha posto in mano il freno,
et nel Triumpho del Tempo:
et doler mi vorrei, nè so di cui;
et altrove disse:
che altri che me non ho di cui mi lagne;
Dante nel canto primo dell'Inferno:
o felice colui cui ivi elegge!
ove è caso non retto nè persona agente, ma si sopra entende lo imperator che ivi regge. [94] Quest'altra voce chi o vero che si po-
ne per modo interrogativo in loco di quis latino, et ponesi sem-
pre nel caso retto, come Petrarca:
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chi el crederà perché giurando il dica?,
et Dante:
chi è colui che 'l nostro monte cerchia?,
questi chi sono?,
et cosí negli altri lochi; [95] o vero si pone relativamente et, quantunque si ponga in caso oblico, sempre have dentro il caso
retto inchiuso, et dui casi rappresenta sempre, come nelli sotto-
notati essempi apparirà: Petrarca, nel sonetto VII:
che per cosa mirabile si addita
chi vol far d'Helicona nascer fiume,
ove chi si rissolve in quello il quale, et nelle canzoni:
piú si disdice a chi piú pregio brama,
cioè [B4v] colui il quale, et nel sonetto CCLXVII:
Non per la forza, ma di chi le spiega,
cioè di colui il quale. [96] Et che referisca ancho il feminil sesso, Petrarca nella canzone IV in persona di Laura:
I' non son forsi chi tu credi,
lo dimostra. Et cosí in infiniti altri lochi in niuno delli quali po-
trebbe esser posto cui dirittamente, come ancho chi non havreb-
be loco in alcuno di quelli o simili essempi prima posti di cui. [97] Onde ritrovandosi altrimenti scritto, io giudico che sia error di stampa o vero abuso, come nella canzone XVIII del Petrarca:
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dieder a chi piú fur nel mondo amici,
e nelli sonetti:
meco pensando: a chi fu questo intorno,
in l'uno e altro loco de' quali cui lassò il Petrarca di sua mano
(forse) scritto; et cosí altrove, dove tal maniera di dire si trovasse
nel suo volume. Ma come io ho predetto, de l'uso frequentato si
fan norme.
[98] Quindi si compone chiunque, di medesima significatio-
ne che è questa voce latina quicumque; et dinota ‘ciascuno che’,
et giungese con lo indicativo, come il suo semplice ancho fa.
Et da Petrarca sempre è posto in caso retto, come nella can-
zone V:
chiunque alberga tra Garona e il monte,
et nel sonetto XXIII:
et cosí vada
chiunque amor legitimo scompagna;
Dante nel canto III del Purgatorio:
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Chiunque
tu se'.
[99] Et quando si aggiunge a verbo di modo soggiontivo, signi-
fica semplicemente ‘ciascuno’, et ivi si aggiunge altro relativo espresso, come Petrarca nel sonetto CCLXVIII, ove dice:
et proval ben chiunque
infin a qui che d'amor parli o scriva,
cioè il quale. Nelle prose del Boccaccio si trova in caso oblico in
molti lochi, perché il derivato segue la natura, ond'ei deriva;
li essempi non trascrivo.
[100] Et devesi notare che questa dittione qualunque, significa
quel medesimo, ma con diferentia si pongono da non esser ne-
gletta: perché chiunque non si aggiunge mai con nome sostanti-
vo, et dir non potrassi chiunque animale, ma sí bene qualunque, co-
me Petrarca nella sestina prima:
A qualunque animale alberga in terra,
et Dante:
qualunque cibo per qualunque luna;
[101] tutto che in molti lochi si legga senza sostantivo, sì come
chiunque: Dante nel canto III:
Batte col remo qualunque si adaggia,
et nel canto XIV del Purgatorio: «
Anciderammi qualunque mi apprende;
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et Dante nel canto XI dell'Inferno:
qualunque priva sé del vostro mondo; [CIr]
et Petrarca nel sonetto CCLVI, ponendo tal voce in caso oblico
senza retto incluso:
togliendo anzi per lei sempre trar guai
che cantar per qualunque;
Dante nel canto ultimo del Purgatorio:
Qualunque quella ruba o quella schianta;
Sappia qualunque il mio nome domanda,
et altrove.
[102] Questa particola che talhor si pone in loco di pronome
relativo, et rappresenta ambi li numeri et sessi, et ponesi ancho
in oblico caso: Petrarca nel sonetto «Quel ch'in Thesalia hebbe
le man sì pronte», et nel sonetto «La donna che 'l mio cor nel
viso porta», et nel sonetto primo «Voi ch'ascoltate», et altrove:
Le piaghe che fino al cor mi vanno;
Dante nel canto V dell'Inferno:
per tor il biasmo in che era condotta.
Et quindi si compone cheunque, che quello dinota che quicquid la-
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tino, et nella volgar lingua dicesi che che: Petrarca nel Triumpho
del Tempo:
ma, cheunque si parli il volgo o scriva.
[103] E non solo questo relativo che nel retto si aggiunge all'indi-
cativo, ma anchora a soggiontivo modo, come fa quando è ad-
verbio: Petrarca nel sonetto XXX:
nè nebbia che 'l ciel copra o 'l mondo bagni,
et nel sonetto CXXVII:
ch'altro lume non è ch'infiammi o guide,
et nel sonetto CXXXVIII:
l'altro è d'un marmo che si mova o spiri.
[104] Nè quivi tacerò, che questa particola quale non si trova in
loco di relativo il quale, come molti pongono, ma ben have tal
hora quello inchiuso come nella canzone della Italia:
Qual piú gente possede,
colui è piú da' suoi nimici avolto,
cioè ‘quello il quale ha piú gente’. [105] Talhora vi si pospone il
relativo espresso, come Dante nel canto XII dell'Inferno:
qual che per violentia in altrui noccia.
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Et alcune volte qualità et alcune sostantia significa: Petrarca nel-
la canzone IV:
Qual mi fec'io, quando primer m'accorsi!,
e nella canzone III:
qual torna a casa e qual si annida in selva.
[106] Et con interogatione si usa, come il Petrarca:
Qual mio destin, qual forza, qual inganno
mi riconduce disarmato in campo?
Et qual sei tu? per quello che si dice domandando, chi sei tu? usa fre-
quentemente il Boccaccio. [107] Et per comparatione si pone, e
vol per rispondente tale o ver cotale: Dante nel canto II dell'Inferno:
Quale è colui che disvuol ciò che vuolle,
tal mi feci io,
et nel canto V:
Quali columbe dal disio portate,
et poi soggionge:
cotali [CIr] uscir della schiera ove è Dido.
[108] Talhora si pone con la significatione di qualunque: Petrarca:
Qual donna attende a gloriosa fama,
colei miri,
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et nella canzone XXX:
Qual piú diversa e nova
cosa si trova in qualche stranio clima,
et cosí in piú altri luoghi.
[109] La terza regola sarà che questi pronomi colui, costei, costoro,
coloro, esto, esso, ello, con le lor feminili voci, si pongono in tutti li
casi. Degli retti non vi è dubbio, et massimamente nelli tre ulti-
mi li quali generalmente nel primo caso si trovano, come in
molti simili alli pochi seguenti essempi si legge: Petrarca nel so-
netto che incomincia «Quest'anima gentil che si diparte», nel
quarto verso:
Se ella riman fra 'l terzo lume e Marte,
et nel verso XI:
et essa sola havrà la fama e il grido,
et nel seguente verso:
nel quinto giro non habitrebbe ella;
et nel Triumpho della Divinità:
Quando ciò fia no’l so; sassel propri’ essa.
[110] Dante nel canto XVIII dell'Inferno:
ello passò per l'isola di Lenno,
et nel canto primo dell'Inferno:
esta selva selvaggia,
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et nel canto VI:
esti tormenti
cresceranno ei?
Et nel primo caso sempre li usa il Boccaccio, et però non pongo
suoi essempi. [111] Ma non mi par di posporre li essempi nelli
quali siano in casi oblichi: Petrarca nella canzone XXXIII:
di girmene con ella in sul carro di Helia,
et nel sonetto CCLII:
Ove son le bellezze accolte in ella?,
et nel sonetto CCXCV:
l'human legnaggio, che senza ella è quasi,
et nel primo Triumpho dell'Amore:
et sarai d'elli
(nè in altri lochi trovo il Petrarca haverlo usato, il che mi aviso procedesse per lo accomodarsi di rime); et nella canzone penul-
tima:
et le mie d'esto ingrato.
[112] Ma nella Comedia di Dante, piú alquanto licentioso, in piú
lochi si ritrova, et, ancho in mezzo verso, come nel canto IX del-
l'Inferno:
ch'io stessi fermo e inchinassi ad esso,
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dove il Landino nel suo commento molto sconvenevolmente interpreta adesso per adverbio di tempo, dicendo: «adesso
cioè al presente e senza indugio», essendo senza alcun dubbio prono-
me; oltre che la elegante volgar lingua in loco di testé o ver hora
o ver mo non usa adesso, nè mi sovene haverlo letto in loco alcu-
no degli auttori nostri. [113] Ma sono due dittioni, prepositione et pronome, et scriver si deveno distinte, come nel canto VIII del
Purgatorio:
tra le grand'ombre, e parleremo ad esse,
et nel canto XXI dell'Inferno:
I' vedea lei, [C2r] ma non vedea in essa,
et nel canto V:
qual loco è da essa,
et nel canto XIV del Purgatorio:
giamai rimanga d'essi testimonio,
et nel canto primo dell'Inferno:
se vòi campar d'esto loco selvaggio,
et nel canto II dell'Inferno:
nè fiamma d'esto incendio non mi assale,
Pagina 60
et nel canto III dell'Inferno:
Che alcuna gloria i rei havrebber d'elli,
et nel canto XXVII del Purgatorio:
seder ti poi e poi andar tra elli,
et nel canto III dell'Inferno:
voci alte e fioche, e suon di man con elle,
et cosí in molti altri lochi che non trascrivo.
[114] La quarta regola serà che questi pronomi oblichi me, te, sé, convertono e in i quando si congiongon al verbo immediata-
mente, come dissemi, fecemi, consúmati, overo quando l overo r
precede i, che ad uno et altro modo si dice (come ferirmi e ferir-
me; farmi farme; calmi calme; valmi valme), et quando separata-
mente si pronuntia dal verbo: Dante nel canto primo del Purga-
torio:
et purgan sé sotto la tua bailia,
et inanzi:
dove l'humano spirito si purga,
et quando è gionta con gerondio. [115] Ma quando tra alcuno di
questi pronomi et il verbo se interpone dittione alcuna, la ter-
minatione in e sempre si usa, come Dante:
consuma dentro te con la tua rabbia,
Pagina 61
et nel canto II:
me degno a ciò nè io nè altri crede.
[116] Medesimamente, quando prepositione precede o segue, co-
me di me, di te, di sé (non de mi, de ti, de si, come è il comune abu-
so delli Italici) et meco, teco, seco; et li soggiontivi che in e e in i fi-
nir possono come tu m'infiammi o tu m'infiamme.
[117] Nè parmi di tacere che, in loco di questo plural pronome
noi si pone, senza diferentia questa particola ci overo ne, come dimostra Dante nel canto IX dell'Inferno, dicendo:
non ci pò tor alcun: da tal ne è dato,
et nel canto III:
Andiam, ché la via lunga ne sospinge,
et nel canto V:
Cotai parole da lor ci fur sporte,
e nel canto VI:
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo
(ove per error di stampa «si scorse» si legge nelle stampe di let-
tera corsiva, come poco piú di sotto «abbiando» per «abbaia-
ndo»), e nel canto XI:
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ci raccostammo dietro ad un coperchio,
et nel canto XV:
degli altri fia laudabile tacerci,
et cosí in infiniti altri lochi. [118] Pongonsi non dimeno per par-
ticole repletive, senza che rappresentino altra voce; come Dante
nel canto XXX dell'Inferno:
et piú d'un [C2v] mezzo di traverso non ci ha,
et nel canto primo del Purgatorio:
come tu di', non ci ha mistier lusinga,
et cosí molti altri simili. Et nelle prose del Boccaccio tal modo è frequente:
che ci faciamo noi qui? parmi che noi se ne andiamo,
et questo, secondo l'uso della tosca lingua.
[119] In loco veramente di voi si pone vi, come dissevi, fecivi, vi
dissi, vi feci; nè bisognano a ciò essempi.
Et in terza persona singular dissiti o ti dissi, dissili o li dissi, par-
lando di voce maschile; perché, parlando di feminile, dirassi le
dissi et non li dissi, come Petrarca nella canzone IV, parlando del-
la memoria disse:
et un pensier che solo angoscia dàlle,
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et nel sonetto CLXXVII:
Basciale il piede, o la man bella e bianca;
dille, il basciar sie in vece di parole,
et cosí in piú lochi; et Dante, parlando di Beatrice:
Dille, dille!
che ti diseti con le dolci stille.
[120] Et questo sempre osserva il Boccaccio. Et se altrimenti si
legge, come in alcun loco, in ogni stampa si trova, devesi impu-
tar allo errore del stampatore; come nel canto XXX dell'Inferno
parlando di Ecuba, si legge in alcuni testi:
tanto dolor gli fé la mente torta,
et tal lettura segue il Landino di questa come dell'altre regole
della volgar lingua trascurato osservatore. [121] Et nelle stampe
corsive si legge meno corrottamente, ma non senza errore:
tanto dolor la fé la mente torta,
ove «le fé» legger si deve. Et dove nel canto XIX del Purgatorio,
parlandosi de' geomanti, si legge:
surge per via che poco le sta bruna,
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è manifesto error medesimamente, attribuendosi lo pronome di femina a maschio, contrario a quel di sopra; onde leggerassi
«che poco li sta bruna» o «poco lor sta bruna». [122] Et forse non sconvenevolmente poria dirsi in questo loco li non esser come pronome, ma come adverbio locale; et serà il senso che lí, cioè
in quel loco in oriente, la via onde surge la lor Maggior Fortuna
sta poco bruna per lo appropinquarsi dell'alba. [123] Nè veggio io come le si potesse riferire all'alba o vero alla Maggior Fortuna;
pur in questo io non fermo il piede, non essendo professor di geomantia. Medesimo error di stampa non corretto è nella setti-
ma G,iornata, nella novella di Lodovico ove cosí si legge:
Anichino, che di piacergli disiderava,
di donna parlando. [124] Et se si dicesse che Petrarca nel sonetto
CLIV, parlando di [C3r] Laura, disse:
o pur non molesto
gli sia il mio stil,
risponderei che, appellandola «novo fior d'honestate e leggia-
dria», hebbe rispetto di concordar il pronome con la voce ma-
schile del fiore a•llei imposta, non con il natural sesso di lei.
[125] La quinta regola, chiudente li pronomi, sarà degli artico-
li, li quali, per hora Prisciano in ciò seguendo, tra essi mi ha par-
so connumerare. Et dico che nella volgar lingua sono solamente
dui; perché come ho già sopradetto, lo articolo del neutro no-
me non vi si considera, perché vi è solo il suono di voce maschi-
Pagina 65
le et feminile. [126] Gli articoli della prima nel minor numero è il
o vero lo, et del maggiore gli, li, i, e; della seconda, la nel numero
del meno, le nel numero del piú. [127] Ma gli dui articoli ultimi
si giongono regolarmente con adiettivi nomi, piú che con sostanti-
vi, et gli altri dui si giongono con gli uni e gli altri; onde dirassi
e rei, come Dante nel canto III:
alcuna gloria e rei havrebber d'elli;
et tale articolo è molto usato dal Boccaccio. Et dirassi gli huomini,
le donne, e buoni, i cattivi, la tua virtude, le tue virtudi.
[128] Ma degli articoli del minor numero maschile è da sapere,
che non si pongono senza diferentia, perché dove la voce se-
guente comincia da vocale, lo si dice, non il come Petrarca:
Lo ardente nodo ov'io fui d'ora in hora,
L'oro e le perle e i fior’ vermigli e bianchi,
et cosí altrove. [129] Et dove la voce che segue ha principio da consonante, il si dice, come «Il mio adversario, Il successor di Carlo, Il mal mi preme, Il cantar nuoce»; et rarissime vol-
te altrimenti disse il Petrarca. [130] Ma Dante senza diferentia
molto spesso l'uno e l'altro giunse a consonanti, come nel can-
to II:
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Lo giorno se n'andava,
et nel canto VII:
Mal dar e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro,
et nel medesimo canto:
Lo buon maestro disse,
et nel canto VIII:
E il buon maestro disse: «Homai, figliuolo»,
havendo poco innanzi detto:
Lo duca mio discese nella barca,
Lo collo poi con le braccia m'avinse,
et cosí in infiniti lochi delli seguenti canti, che troppo a me sa-
rebbe il trascriver tedioso, e altrui il legger. [131] Nè mi pare in
questo loco tacere che, dove nel caso retto del primo numero si
dice il, non si potrebbe el regolatamente dirsi. Parimente, ove
negli oblichi si pone del, non vi si porrebbe dil [C3v] essere posto.
[132] Nè parmi essere indegno di notitia questo: che quando al-
cuno degli articoli già detti si aggiungono al verbo, tutto che
habbiano la voce loro, la significatione è di pronome. Onde
quando si dice digli o gli disse, il sentimento è di' a lui; cosí
le di' ch'io sarò là tosto ch'io possa,
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cioè di' a•llei. Questo istesso, in questa altra particola li si osserva, come li dirai, cioè a•llui dirai.
[133] Segue il trattato degli verbi, dei quali, come delle due
parti già dette regolarmente ragionando, cosí dicemo che:
La prima regola sia che nella volgar lingua solo due congiu-
gationi delli verbi si possono (per mio giuditio) considerare. [134]
La prima è quando la terza persona del primo numero del mo-
do indicativo, et presente tempo finisce in questa vocale a, come,
per cagion di essempio, quello ama, quello insegna, et altri simili.
La seconda congiugatione èe quando delli verbi, la terza persona predetta questa altra vocale e have per finimento, come quelli le-
ge, questo scrive. [135] Et cosí tutti gli altri verbi (se dirittamente si declinano) a queste due sole terminationi si trovano ridutti; di ciascuna delle quali parmi bisognevole declinar un verbo per li
tempi et modi che siano necessarii alla cognition della volgar
lingua, poi declinare li dui verbi nelli quali si risolvono molti lo-
ro tempi, cioè sono et haggio, et, quelli declinati, di ogni notabile desinentia soggionger li essempi.
[136] io amo
tu ami
quello ama
noi amiamo, o vero amemo,
Pagina 68
voi amate
quelli amano
io amava
tu amavi
quello amava
noi amavamo
voi amavate
quelli amavano
io amai
tu amasti
quello amoe
noi amassimo
voi amaste
quelli amarono
io amerò
tu amerai
quello amerà
noi ameremo
voi amerete
quelli ameranno
[137] Le voci dello modo imperativo non porrò, perché tutte so-
no nello indicativo. La diferentia è nella pronuntiatione: quelle
con dimostrativo et humile, queste con imperioso e altero mo-
Pagina 69
do si dicono. [138] Medesimamente perché le voci del modo de-
siderativo si trovano nel soggiontivo, quelle lassando, a queste
che sono necessarie valicarò:
che io, che tu, che quello ame overo ami
che noi amiamo
che voi amiate
che quelli ameno
io amerei, o ver s'io [C4r] amassi
tu ameressi o ameresti, over se tu amassi
quello amerebbe, o vero ameria, o ver se egli amasse.
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Amare dicesi ne l'infinito modo. [139] Di questo verbo e altri tali pospono li altri tempi et modi, perché, risolvendosi in altro ver-
bo et participio, non vengono nella volgar inflessione in consi-
deratione alcuna; perché sono per rilevar solo il latino, il che
non è per hora mia impresa, ma solo trattar delle volgari voci le
quali hanno in sé il finimento di quel verbo. [140] Pur, come ho predetto, non mi rimarrò di declinare li dui verbi nelli quali
gran parte degli altri tutti si risolvono, declinato prima però, il
verbo della seconda congiugatione, come che li dui seguenti an-
cho ne siano:
Io scrivo
tu scrivi
quello scrive
noi scrivemo, overo scriviamo
voi scrivete
quelli scrivono
io scriveva
tu scrivevi
quello scriveva
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noi scrivevamo
voi scrivavate
quelli scrivevano
io scrissi
tu scrivesti
colui scrisse
noi scrivessimo
voi scriveste
coloro scrissero, overo scrissono
io scriverò
tu scriverai
questi scriverà
noi scriveremo
voi scriverete
que' scriveranno
che io scriva
che tu scrive, scrivi, et scriva
che quello scriva
che noi scriviamo
che voi scriviate
che quelli scrivano
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io scriverei, o ver s'io scrivessi
tu scriveressi, over scriveresti; et se tu scrivessi
quello scriveria o scriverebbe; e se ei scrivesse, o ver scrivessi
noi scrivessimo o scriveressimo
voi scrivereste
quegli scriveriano.
[142] Nel modo infinito scrivere si dice. Degl'infiniti parleremo
dopo la declinatione delli dui seguenti verbi, delli quali, sí per la resolutione in loro degli altri verbi, sí etiandio perché sono al-
quanto anomali, sarà la inflessione loro agli imparanti non inuti-
le. Della trasmutatione delle vocali nelli verbi, si dirà altrove.
[143] io haggio, o vero io ho, e ancho io habbo
tu hai
quello have, overo ha
noi havemo, overo habbiamo
voi havete
quegli hanno
io haveva, et per sincopa havea
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tu havevi
quello haveva
noi havevamo
voi havevate
quegli haveano
io hebbi, overo hei
(Dante nel canto primo dell'Inferno:
Poi c'hei possato un poco il corpo lasso)
tu havesti
quello hebbe
noi havessimo, o ver per sincopa havemmo
voi haveste
quelli hebbero, overo hebbono
io havrò
tu havrai
quello [C4v] haverà
noi haveremo
voi harrete, per sincopa, o vero haverete
quelli haveranno
[144] Nel modo soggiontivo:
che io haggia, o vero habbia
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che tu haggi, habbi, habbie et habbia
che quello habbia, overo haggia et per sincopa haia
che noi habbiamo, overo haggiamo
voi habbiate, overo haggiate
quelli habbino, overo haggiano
io haverei, o s'io havessi
tu havessi
quello haveria, overo haverebbe, over se havesse
noi haveressimo, et per sincopa harremmo, over se havessi
voi havreste, over se haveste
quelli havriano, havrebber, over se havessono
[145] Gli altri tempi si risolvono in questo stesso verbo, però mi
pare di soverchio porli. Che ne l'infinito si dica havere niuno è
che non sappia; ma haver si scrive e dice, rimovendo quella vo-
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cale. [146] Havere si dice ancho quando è nome et significa l'altrui ricchezza, qual che si sia: Dante nel canto XI dell'Inferno:
et nel suo havere
ruine, incendi nè tollette dannose,
et cosí in molti lochi del Boccaccio.
[147] io sono
tu sei
quello èe, overo è
noi semo, over siamo
voi siete
quelli sono, overo enno
io era
tu eri
quello era
noi eravamo
voi eravate
quelli erano
io fui
tu fosti
quel fue
noi fossimo
voi foste
quelli forono, overo foro
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io sarò
tu sarai
quello sarà, overo fia
noi saremo
voi sarete
quelli saranno
ch'io sia
tu sii, sie, et sia
che quello sia
noi siamo
voi siate
quelli siano
ch'io fossi, e fosse, et sarei
tu fossi, e saressi
colui fosse et saria, o fora, o sarebbe
noi fossimo, et saressimo
voi foste, et sareste
quelli fossono, et sariano, o sarebbono.
[148] Altri tempi non fa mistier di porre, perché, sí come il pre-
cedente prossimo verbo, questo si risolve in alcuna delle già det-
te voci. Che l'infinito di questo verbo sia essere è manifesto.
[149] Hor cominciando dalli notandi del verbo della prima congiugatione, amiamo, voce del soggiontivo, nello indicativo si
trova et in piú frequente uso, come Dante:
Andiam, ché la via lunga ne sospinge.
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Et vene da questo singular ando andi anda: Dante nel medesimo canto:
Hor vo' che sapi, avanti che piú andi.
[150] Et regolatamente le prime persone del maggior numero del-
lo indicativo si formano dalle terze singular persone, mutando a in
e et giungendovi mo, come cantemo, parlemo, amemo. Ma la voce pre-
detta in [DIr] ambe le congiugationi piú sovente in vece dell'altra
si pone; et mostralo Dante nel canto XXV del Purgatorio, dicendo:
Quindi parliamo, quindi ridiam noi,
quindi facciam le lagrime e i sospiri,
et nel canto X dell'Inferno:
Noi veggiam, come quei c'ha mala luce;
Petrarca:
Noi habbiam sempre,
et cosí in moltissimi lochi. [151] Questo ultimo verbo per me de-
clinato et alcun altro in l'una e l'altra voce si trova, come Dante
nel canto VI dell'Inferno:
Noi siamo al terzo cerchio, della piova,
et cosí in infiniti lochi, ma nel quarto canto:
semo perduti, e sol di tanto offesi
che senza speme vivemo in disio,
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et nel canto XVII:
E poi che nui a lei venuti semo,
et nel canto XVII del Purgatorio:
qual offensione
si purga qui nel giro dove semo?,
et cosí in piú lochi.
[152] Sono alcuni che in sua favella la prima persona de l'im-
perfetto tempo dello indicativo di tutti li verbi finiscono in o, co-
me andavo, cantavo, amavo, parlavo, vedevo, dicevo, leggevo, scrivevo, havevo, i'ero. Ma questo non trovo io osservato da alcuno de'
buoni scrittori, dalle cui orme a me partir non lece.
[153] La terza persona plural del preterito perfetto tempo del-
lo indicativo delli verbi della prima congiugatione si forma dalla persona terza singular di quel medesimo modo, giungendoli
queste due sillabe rono; come è quello ama, quelli amarono; quello incomincia, quelli incominciarono; et cosí gli altri simili tutti: Dante
nel canto XIII dell'Inferno:
quei citadin che poi la rifondarno,
et nel canto XI del Paradiso:
dui anni portarno.
[154] Ma appresso li poeti si trova rimossa sempre quasi l'ultima sillaba, come il medesimo Dante nel canto XXVIII del Purgatorio:
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Quelli che anticamente poetaro
forsi in Parnaso esto loco sognaro,
et nel canto XXXI del Purgatorio: «formaro» «mostraro», et nel
canto XII del Paradiso:
ad una militaro;
[155] et Petrarca nel sonetto III:
Era il giorno che al sol si scoloraro,
ponendo per rime concordanti «legaro» et «incominciaro»; et
cosí in tutti gli altri lochi delli dui poeti. [156] Et medesimamen-
te nelle prose del Boccaccio recarono, cenarono, et altri infiniti si-
mili sono. Onde nella novella di Ciappelletto, ove si legge:
cominciorono le genti andare accender lumi,
crederei esser error di stampa, mosso dallo petrarchesco essem-
pio di sopra allegato nel medesi[DIv]mo verbo et dal Boccaccio
istesso che poche righe da poi disse:
et chiamaronlo santo Ciappelletto,
et non disse «chiamoronlo». [157] Onde medesima corruttion di
testo penso esser di sopra nella novella medesima, ove è scritto:
niente del rimanente si curorono.
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Quello istesso dico ove si legge andorono, ritrovorono, salutorono, et altri simili. [158] Et a ciò creder mi move che in alcun loco delli
dui poeti nostri non si trova (per quanto mi sovenga) tal desi-
nentia, et io ho veduto in uno antico libbro delle Cento novelle
sempre osservata la regola per me data, et per quelli ch'io ho ve-
duto credo che niuno cosí corrotto testo di esse novelle si ritro-
vi il quale nel piú delli lochi al modo ch'io dico non si veggia
scritto. [159] Altrimenti converebbesi dire per regola che senza diferentia l'uno et l'altro modo si potesse usare; il che per me
non sarei oso di dire, nè ancho saprei ritrovar ragione alcuna di eccettione di quelli che diversamente degli altri sono iscritti in
tal maniera. Et perché le regole si traggono da' grammatici da
quello che moltissime volte negli auttori ad un modo trovano
posto, non da quello che in alcuno di loro ad un altro rarissime
volte leggono, mi movo a far la seguente cotale regola.
[160] La seconda, adunque, regola sarà, delli verbi, che la pri-
ma singular persona del preterito imperfetto tempo del modo soggiontivo, sí della prima come della seconda congiugatione,
finisce in ei, come amerei, leggerei; la seconda persona ha il fini-
mento in si, come ameressi, leggeressi; la terza in ia overo in ebbe è terminata sempre come quello ameria o amerebbe, leggeria o leggerebbe.
[161] Et di infiniti essempi che si potrebbono addure, degli
infrascritti voglio contentarmi: Dante nel canto XVI dell'Inferno:
i' dicerei
che meglio stess'a te;
poi dice:
Gitato mi sarei a•llor disotto,
et poi:
ma perché mi sarei brusato,
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et nel canto XXII:
i' non temerei ungia nè uncino.
Petrarca nel sonetto XCVIII:
Vedrò mai il dì che pur quanto vorrei,
et nella canzone XXXIII: «et senza il qual morrei», et «di quel ch'io men vorrei», «forse il farei», «nè piú perder devrei»,
«beato direi», «a quella che torrei», «nè con altra saprei/viver,
e sosterrei», et cosí in infiniti lochi, come nel sonetto che inco-
mincia «I' canterei d'amor sì novamente», ove molti simili si
leg[D2r]gono. [163] Nè perché il Petrarca nel sonetto CXXXVII di-
cesse:
lei pur cercando che fuggir dovria,
et nella preallegata canzone:
Io no’l dissi già mai, nè dir poria,
dir si deve la regola mia essere meno che generale, perché que-
sti stessi si trovano terminar nella prima persona in ei, et piú so-
vente assai: Petrarca nel sonetto CLXXI:
S'el non fosse mia stella, io pur dovrei
et nel sonetto CXIX:
la notte allhor quando posar dovrei,
e nel sonetto XCIV:
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nel dì che volontier chiusi gli havrei;
Dante nel canto XIII dell'Inferno:
ch'io non potrei, tanto dolor m'accora,
et cosí pose questa voce per rima nelle sue canzoni. [164]
Nel modo medesimo si legge posto dal Boccaccio, come nella Gior-
nata ottava, nella novella di mastro Simone:
I' non vi potrei mai divisare,
et poco da poi:
nè vi potrei dire.
Onde seguiremo in ciò il frequente uso overo, con l'auttorità del
poeta, quello che egli usa in questi dui o tre verbi; noi altresì
usando, agli altri verbi tal modo di dire non estenderemo.
[165] Della seconda persona hormai adducendo ancho alcun essempio: Dante nel canto XXXI del Purgatorio: «
Se tu tacessi o tu negassi,
e nel canto primo:
se l'havessi scosso;
Petrarca in fin d'una canzone:
Se tu havessi ornamenti quanti hai voglia,
et cosí in altri moltissimi lochi. Nè si direbbe havesti, tacesti, nega-
sti, se non nel preterito perfetto tempo dello indicativo.
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[166] A dimostrare che come io dico la terza persona finisca,
pochi essempi trascriverò, perché ripiene ne sono le carte: Dan-
te nel canto ultimo del Purgatorio, al fine:
lo dolce ber che mai non m'havria satio,
et nel canto XXVIII dell'Inferno:
Chi poria mai pur con parole sciolte;
et Petrarca nel sonetto cominciante «Vergognando talhor ch'anchor si taccia»:
ma qual suon poria mai salir tanto alto?,
et nella canzone XVII:
nullo stato aguagliarsi al mio potrebbe,
et:
forse altrui farebbe,
et cosí in molti altri lochi si legge.
[167] La terza regola dalli verbi declinati per me tale si pò trar-
re: che di tutti della prima congiugatione le tre persone di sin-
gular numero del soggiontivo modo finiscono in i e in e; et di
quelli della seconda, la prima e terza hanno a solo per finimen-
to, la seconda in a, in e et in i si trova terminare. [168] Et da esse declinationi si puote ancho elicere: che tutte le seconde persone,
di qualunque verbo et modo et tempo [D2v] (in fuori che la pre-
detta seconda persona del soggiontivo), il numero primo in i, il secondo in e hanno finiente, come tu amasti, voi amaste, tu leggi, voi leggete, et cosí in tutti gli altri tempi, perché in contrario non si
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trova se non corrottamente scritto; et di soverchio mi parrebbe
di ciò ciascuno essempio.
[169] E se alcuno mi dicesse che error di penna nè di stampa
esser non puote nella rima di Dante nel principio del secondo
canto del Paradiso ove dice:
O voi che sete in piccioletta barca,
desiderosi d'ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pellago che forse,
perdendo me, rimaresti smariti,
ove appare che le concordanti rime in e non potrebbono termi-
nare, io gli risponderei che egli fosse nel medesimo errore che
fu il Landino, ,ultimo di Dante interprete il quale giudicò (inga-
nnandosi evidentemente di molto) che quella voce «seguiti» fus-
se verbo, essendo nome. [170] Lassiamo perché il verbo altrimen-
ti nella seconda sillaba si scriva, come Petrarca, ove dice:
seguete i pochi, e non la volgar gente,
ma seriano dui immediati contrarii in un soggetto, confortando
li auditori Dante a ritornarsi a dietro et a seguitarlo insieme. [171]
Et che tal giuditio fosse di esso interprete come ho predetto,
chiaro lo dimostrano le sue cotali parole:
O voi che sete in piccioletta barca, cioè con poca dottrina e ingegno, desidero-
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si d'ascoltar il mio poema, seguite dreto al mio legno, venite dreto al mio sti-
le e alla mia dottrina
con dichiaratione, per mia oppenione (quale essa si sia) del tutto
al chiaro testo contraria, il cui sentimento è tale quale è nella
Scrittura sacra: «Vos qui secuti estis me». [172] Et sarà il costrutto:
O voi che in piccioletta barca sete seguiti 'l mio picciol legno, il
qual oltre varca poetando, tornate a' vostri liti. Et è lo allegorico
senso: Voi che havete appresa la poesia et philosophia, solamente
fino qui mi havete potuto seguitare, cioè la cantica dello Inferno et del Purgatorio; non vi mettete meco a descrivere poeticamente le
cose theologice, perché alcuno mai no’ l fece; però dice:
L’aqua ch'io prendo già mai si non corse.
[173] Nè per questo è da dirsi che 'l poeta li chiami di poco inge-
gno nè di poca dottrina, perché me[D3r]desimamente, per il dif-
fetto della theologia che era in loro, si fenge che Virgilio e Statio abbandonassero esso Dante alla entrata del Paradiso dalle deli-
cie, d'onde poi Beatrice, cioè la theologia, lo condusse alla cogni-
tion delle celesti cose. Conchiudendo, adunque, dico il testo co-
sí bene esser iscritto, ma non esser verbo.
[174] Male iscritti dirò ben esser io, over male stampati, quelli
testi di Dante nelli quali nel canto XV dell'Inferno si legga:
voi non saresti anchora,
ove «sareste» è da esser riposto,
et nel canto III del Purgatorio:
State contenti, humana gente, al quia;
ché, se possuto havesti veder tutto,
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non bisognava partorir Maria,
e disiar vedesti senza frutto,
ove overo dir si deve «haveste», come altrove disse Dante:
Amate da cui male haveste,
e «vedeste», overo (e forse non men bene) diremo esser la
vera lettura: «Stati contenta, humana gente», cioè rimanti con-
tenta, et altro non convirà mutarsi. [175] Medesimo errore è nel
canto XXVII dell'Inferno, intorno al fine: ove Ulisse alli compa-
gni dice:
fatti non fosti a viver come bruti,
«foste» è la vera scritura. Questo medesimo errore di stampa è
nelle Cento novelle del Boccaccio, piú volte allegate nella settima Giornata, nella novella del geloso dal spago: ove la donna, par-
lando a' fratelli, dice:
Questo valenthuomo, a cui voi nella mia malhora mi desti per moglie
«deste» si deve riporre. Et cosí scritto si trova in essempi antichi
di esse novelle, perché il Boccaccio, come dell'altre regole, cosí
di questa ne fu osservatore diligentissimo. [176] Et dir possiamo
per conchiussione di questa parte di regola, con l'auttorità delle scritture degli auttori nostri, che chiunque in contrario modo
parla o scrive non lo fa senza commetter errore.
[177] Hor ritornando a dimostrar con essempi che la seconda
persona singular del soggiuntivo habbia li finimenti per me det-
ti: Petrarca nella canzone della Italia:
Canzon, i' t'amonisco
che tua ragion cortesemente dica;
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Dante nel canto XXV dell'Inferno:
Quasi dicesse: «I' non vo' che piú diche»;
et Petrarca nel sonetto CLXXIV:
e pria che rendi
suo diritto al mar,
ove questo verbo «rendi» non puote esser indicativo, essendoli giunto lo adverbio, il quale sempre il soggiontivo richiede, come nella seguente ultima grammatical parte si mostrerà. [178] Dante
nel canto [D3v] primo dell'Inferno:
penso e discerno
che tu mi segui,
et nel canto VII:
i' vo' che tu per certo credi,
et nel XV:
da' lor costumi fa che tu ti forbi,
et nel canto XVII:
Fa che tu mi abbracce,
et nel canto XXI:
Acciò che non paia
che tu ci sii;
et nel Triumphi del Tempo, Petrarca:
convien che piú cura haggi,
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et nel sonetto CCLXVIII:
acciò che l'ame e apprezze,
et altrove:
acciò che 'l mondo la conosca e ami,
et il medesimo si legge in moltissimi lochi, li quali trascriver
non mi par bisognevole.
[179] Onde travalicando al verbo ho, haggio dice il Petrarca nel-
la canzone ⟨VIII⟩:
assai spatio non haggio
pur a pensar com'io corro alla morte,
et altrove:
et poi ch'i' haggio
di scovrirle il mio mal preso consiglio.
[180] Da questo finimento Guido Cavalcante prese il futuro
tempo nella sua canzone VII, che incomincia «Tanta paura m'è giunta d'amor», dicendo:
I' non ho posa mai e non haraggio,
pauroso son sempre e piú saraggio.
Habbo solo Dante dice, et solamente due volte, l'una nel canto
XV dell'Inferno:
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et quanto l'habbo grato, in fin ch'io vivo,
et nel canto XXXII:
Piú pienamente; ma perché non l'habbo.
[181] Quindi pò germogliare un'altra regola de' verbi, onde:
La quarta loro regola esser diremo che molti ne sono li quali variano le prime persone dello indicativo, onde nasce ancho il
variar de' preteriti et de' loro participii passivi, tutto che molti ne siano che con la sola desinentia del presente tempo gli uni e gli altri variano. [182] Et non pochi verbi anchora si ritrovano li qua-
li del tutto quasi alli lor preteriti latini si accostano, come di
tutte le predette cose apparirà nelli sottonotati essempi, per fir-
mar la fede del lettore non poco necessarii; pur dove poco biso-
gnevoli mi parranno, posporogli per fuggir lunghezza, come
nelle prossime persone prime de' verbi.
[183] Nutrico e nudrisco; spargo spando; riedo ritorno volgo e volvo;
volto verbo non si trova, ma nome, come:
Quando son tutto volto in quella parte.
Cheggio, veggio, seggio, si dice, e non chiedo, vedo, siedo, come che
si dica poi tu chiedi, quel chiede, tu vedi, quel vede; nè altrimenti si
trova tra’ scritti de' buoni auttori.
[184] Voglio nel suo preterito tempo volli e volsi a' dicitori con-
ciede. Del primo fa fede il Petrarca, dicendo:
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Misero me, che volli,
et Dante nel canto XXX dell'[D4r]Inferno:
io hebbi al mondo assai di quel che volli,
et nel canto primo:
Et come quei che disvol ciò che volle,
e cosí altrove; del secondo, Dante nel canto II:
Er venni a te cosí com'ella volse,
benché sia piú convenevole preterito di questo verbo volgo.
[185] Di questo verbo toglio over tolgo è il preterito tolsi e tolse:
Dante nel medesimo II canto:
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Tolle non preterito ma presente ritrovo, come nello istesso canto:
sí che dal cominciar tutto si tolle;
Petrarca nel sonetto CLVI:
mentr'io parlo, agli occhi tolle
la dolce vista del beato loco,
et nel sonetto CCVI:
et fa qui de' celesti spirti fede,
quella ch'a tutto il mondo fama tolle,
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et nel Triumpho IV dell'Amore:
ch'ogni maschio pensier de l'alme tolle,
salvo che alcun dir non volesse Petrarca haverlo posto nel prete-
rito tempo, dicendo
Veder questi occhi anchor non ti si tolle,
et Dante nel canto VI del Paradiso: «
Cesare per voler di Roma il tolle.
[186] Doglio: dolse et dolve: Dante nel piú volte allegato di sopra
canto II:
la prima volta che di te mi dolve;
Petrarca nella canzone ⟨XXI⟩:
ov'io mi dolsi, altri si dole.
Taccio: tacette et tacque: Dante nel primo canto sopra notato:
Tacette allhora, e poi comincia' io,
Petrarca nel sonetto ⟨XXVIII⟩:
ond'ei si tacque,
vedendo in voi finir vostro disio....
[187] Converrà, convenette: Dante nel canto XXV:
che nominar l'un l'altro convenette.
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Credette e crese.
Faccio # che nella seconda persona ha facci e fai, come dell'uno
che poria esser dubbioso è testimonio Dante nel canto XIV del-
l'Inferno, dicendo:
dovea ben solver l'una che tu faci,
et face in terza persona dell'indicativo, come è nel canto primo dell'Inferno:
et Petrarca:
e mi face obliar me stesso a forza #
nel preterito produce fece e feo. [188] del primo non si dubbia;
del secondo: Petrarca nelli Triumphi:
la gran vendetta e memorabil feo;
Dante:
Averois che 'l gran commento feo,
et Dante nel canto XVI del Purgatorio:
Soleva Roma, che 'l buon mondo feo.
[189] E molti preteriti sono li quali, nella terza persona del sin-
gulare regolarmente finiscono in i et che gli poeti nel fine delle
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rime vi aggiungono o, come morío, fallio, gio et simili; et per non passar senza essempi, Petrarca nella canzone XXI:
Phetonte odo che in Po cadde, e morío,
[190] Ma nel mezzo delli versi tal finimento non si usa.
Ma vol-
garissimamente si usa con [D4v] grande errore in questa voce
morse invece di quella, dicendosi colui morse, volendo dire che egli morío, non s'avisando che tal voce è la terza persona del preteri-
to di mordo, come dimostra Dante, dicendo:
Poscia che 'l dente longobardo morse.
Et nel canto VI del Purgatorio non è, come alcuni pensano, da ri-
ferirsi alla morte di Cristo, ma al morso della pena; et cosí, chiaramente lo dicono e versi infrascritti:
La pena dunque che•lla croce porse
s'a la natura assunta si misura,
nulla già mai sí giustamente morse,
et dichiara nel canto penultimo dell'Inferno tal preterito, dicen-
do:
Ambo le mani per dolor mi morsi.
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[191] Dante nel canto XX dell'Inferno:
Poscia che 'l padre suo di vita uscio
questa gran tempo pel mondo sen gio;
et molti ne sono de tali essempi. Ma tali finimenti piú tosto so-
no di lingua siciliana che di tosca, onde rinate forono prima le
rime, come dice il Petrarca nella sua prima epistola latina. Et tal finimento solo sarà della terza persona del preterito perfetto
tempo dello indicativo il quale in i finisca, perché vi si aggiunge
o, e non si deve nè si pò trarlo a plural numero.
[192] Variano molti participii, sí come disopra habbiamo detto
del variar delli preteriti. Et dicesi offeso, offenso: Dante nel canto V dell'Inferno:
Poi ch'io hebbi odite quelle anime offense;
inceso, incenso; acceso, accenso; inteso, intento; perduto, perso: Dante nel canto ⟨III⟩ del Paradiso:
non cosí alti ch'i fondi sian persi;
visto, veduto; possuto, potuto; ritegno, rattento: Dante nel canto IX del-
l'Inferno:
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et fier la selva senza alcun rattento;
[193] sparso e sparto: Dante nel canto XIV dell'Inferno:
raunai le frondi sparte;
Petrarca nel primo verso de' suoi sonetti:
Voi che ascoltate in rime sparse il suono,
il qual verso io già in uno antico libbro cosí vidi scritto:
Voi ch'ascoltate in rime, sparso il suono
di quei sospir.
Il qual sentimento a me non dispiacque, imperò che le rime di
tal volume forono raccolte dall'istesso Petrarca, come dimostra
nella sua preallegata epistola; onde non sono sparte nè tutte so-
no piene di sospiri, perché in molte non come sospiroso ma co-
me lieto parla, e in molte vi è altra materia che amorosa. Et per
questo si pò dire il suono dei sospiri esser sparso, hor in una ho-
ra in altra delle sue raunate rime. Ma se questo fosse di mente
dello auttore, io per me non lo [EIr] so, perché tal sonetto di sua
mano già mai scritto non vidi; ciascun s'appigli a quel che piú
gli piace.
[194] Credette, crese: Dante nel canto XIII dell'Inferno:
Io credo ch'el credette ch'io credesse,
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et nel canto XXXII del Purgatorio:
colpa di quella ch'al serpente crese.
[195] Ma per imponer hoggi mai fine al trattato delli verbi, ac-
ciò che la terza persona dello indicativo nel plural numero non
rimanga senza essempio: Dante nel canto V dell'Inferno:
enno dannati i peccator carnali,
et nel canto XVI del Purgatorio:
Ben v'èn tre vecchi anchor in cui rampogna
l'antica età la nova,
et nel canto XIII del Paradiso:
non per saper il numero in che enno
li motor di qua sú.
[196] Trovasi tal finimento di queste medesime persone terze
nelle terze persone di questi verbi do et faccio, che fo ancho si di-
ce: Dante nel principio del canto VIII dell'Inferno:
e chi son quei che 'l fenno?,
et nel canto XXI in fine:
Per l'argine sinistro volta dienno,
et nel canto IX:
ma non dimen paura il suo dir dienne.
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Ma tali voci per rime si pongono, che regolatamente cosí fini-
scano come diedero et feccero, e nelle prose del Boccaccio et di
Dante mai non altrimenti sono usate.
[197] Fora ha il medesimo significato che ha sarei over saria,
persona terza: Petrarca nel sonetto XXXVII:
avenga ch'io non fora
d'habitar degno ove voi sola siete;
Dante nel canto VI del Purgatorio:
Sanza esso fora la vergogna meno;
Petrarca:
So ben io che a voler chiuder in versi
suo laudi, fora stanco
chi piú degno alla penna la man porse.
[198] La quinta et ultima breve regola, degl'infiniti, sarà tale:
che si formano regolarmente dalla terza persona singulare dello
indicativo, giungendosegli questa sillaba re; et questo cosí nelli
verbi della seconda congiugatione come della prima, come ama,
amare; legge, leggere; scrive, scrivere, et cosí degli altri simili. [199] Ma
è da notare che li verbi li quali nel latino sono della quarta congiu
gatione, nella volgare lingua lo infinito modo segue la norma
latina, havendo il finimento in ire, come ode, odire et simili, con lo accento nella penultima sillaba, et cosí gli altri.
[200] Et non solo questi tali verbi, ma anchora delle altre congiugationi alcuni,
escono della general sopratoccata norma: come soffro, soffri, soffra
che è della congiugation prima, come mostra Petrarca, [EIv] di-
cendo:
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alma non ti lagnar, ma soffra e taci,
et cosí Dante nelli soi Convivii; soffrire pur si dice parlando con
modo infinito. [201] Medesimamente è in questo verbo fallo, il
quale è della congiugation prima, come mostra Dante nel canto X del Purgatorio, quando dice:
Sí come verme in cui formation falla,
et altrove:
Come colui a cui la robba falla
(della signification sua si dirà altrove): fallire fa lo infinito: Petrar-
ca:
Amor, io fallo, et veggio il mio fallire;
Dante nel canto XIII dell'Inferno:
a cui falir non lece;
benché alcuni dicano questo verbo esser ancho della congiuga-
tion seconda volgare, mossi da l'essempio petrarchesco nel so-
netto incominciante «Se 'l sasso, ond'è piú chiusa questa valle»,
ove dice:
che pur un non falle.
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[202] Questo verbo dico similmente è della congiugation volgar
seconda, come che nel latino sia della terza, et dire pur si dice,
avenga che regolatamente posto dicer si trova ancho: Dante:
non tengo riposto
a te mio dir se non per dicer poco,
havendo detto ancho altrove:
S'el non fosse la fiamma
i' dicerei.
Nelle parti del regno di Napoli questo ultimo è in uso.
[203] La quarta et ultima parte di questa volgar grammatica è
degli adverbii, delli quali alcuni si chiamano locali, perché loco significano, et di questi parlerò da sezzo; gli altri sono di diverse significationi, come di negar, di affirmar, di tempo, di quantità et qualità, et altre molte, le quali connumerar sarebbe invano. [204]
Io di quelli solo dirò c'huopo esser conoscerò alla volgar lin-
gua; et se ancho vi serà alcuna congiontione mischiata, sarà per la similitudine che haverà con li adverbii volgari, e perché nelli
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finimenti delli soggiontivi modi delli verbi disopra dicemmo.
[205] Questo adverbio che, in loco di ut overo di quod latino po-
sto, sempre alli predetti modi si aggiunge, come, oltre li sopra-
notati essempi, si vedrà nelli sottoscritti: Dante nel canto XXVII dell’Inferno:
et come et quare, voglio che m'intenda,
et nel canto XVII del Purgatorio:
hor vo' che tu dell'altro intende,
et nel canto XVIII dell'Inferno:
Fa che tu pinghe,
et cosí si trova negli altri lochi posto.
[206] Et quando si risolve lo adverbio latino in questa voce ac-
ciò che, si pone in medesima guisa, come Dante nel canto II del-
l'Inferno:
Da questa tema acciò che tu ti solve,
et nel fine [E2r] del medesimo canto:
acciò ch'io fugga questo mal e peggio,
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et nelli sopra già detti versi del Petrarca:
acciò che 'l mondo la conosca et ami,
acciò che l'ame e apprezze.
[207] Ma quando questa voce acciò che si mette in loco di quoniam
latino et di perché volgare, lo indicativo modo le si richiede, co-
me la pone Dante nel principio del primo capitolo delli suoi
Convivii, dicendo:
Onde, acciò che la scientia è ultima perfettione della nostra anima, nel-
la qual sta la nostra ultima felicità, tutti naturalmente al suo desiderio
siamo sobbietti.
[208] Et non molto d'indi luntano dice:
Et acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberamente co-
loro che sanno porgono della lor buona ricchezza alli veri poveri.
[209] La regola del suo semplice ancho ritene prima che: Pe-
trarca:
Prima ch'io torni a voi, lucenti stelle,
o torni giú,
et nel sonetto cominciante «Rapido fiume»:
pria che rendi
tuo dritto al mar.
Et quantunque nella latina lingua quamquam et quamvis allo indi-
cativo et soggiontivo modo si aggiongano, nondimeno nella vol-
gare le voci che quelle significano allo soggiontivo solo si gion-
gono, come sono benché, come che, tutto che, avenga che, quantunque,
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anchor che, però che, perché. [210] Hor divenendo alli essempi: Pe-
trarca nella canzone IV:
Benché 'l mio duro scempio
sia scritto altrove,
et nel sonetto XXXVIII:
Benché di sí bel fior sia indegna l'herba;
il Boccaccio nel principio del suo Decamerone:
E come che a ciascuna persona istia bene,
et cosí negli altri lochi ove tal voce li occorre usare, che infiniti
sono.
[211] Et al medesimo modo usa tutto che come Dante nel can-
to VI dell'Inferno:
Tutto che questa gente maladetta
in vera perfettion già mai non vada,
et nel canto III del Purgatorio:
Avenga che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
et nel canto XXVII dell'Inferno:
Sí che, con tutto che fusse di rame.
[212] Il medesimo Dante, nondimeno nel canto XXX, aggionse
questa voce allo indicativo, dicendo:
con tutto che la volge undici miglia,
et piú d'un mezzo di traverso non ci ha,
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et nel canto XV:
Tutto che nè sí alti nè sí grossi,
qual che si fusse, lo maestro félli.
[213] Il Boccaccio, nel libbro suo sopra nomato, al principi
dice:
quantunque appo coloro che discreti erano et alla cui notitia pervenise
io ne fussi lodato et da [E2v] molto piú reputato,
et poi:
Ma, quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita,
et poco piú oltre:
Etì quantunque il mio sostenimento possa esser assai poco,
et cosí in molti altri lochi. Dante nella Vita nova, altrimenti po-
nendola, disse:
Quantunque volte, lasso!, mi rimembra.
[214] Nè questa voce in altro significato mai ho ritrovato usata dal
Petrarca nè da Dante, ma per el suo primitivo overo per quella
latina voce quantuscumque per li numeri et generi; et talhor si po-
ne ancho adverbialmente, come si dimostrarà nelli sottonotati essempi di ambi li poeti: Petrarca nella canzone IV:
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da poi quantunque offese a mercé vene,
et nel sonetto CLXXXIII:
Tra quantunque leggiadre donne e belle
venga costei,
et nel sonetto CXX:
Chi vòl veder quantunque pò Natura;
[215] Dante nel canto V dell'Inferno:
Cingesi con la coda tante volte
quantunque gradi vòl che in giú sia messa,
et nel canto XXXII:
poi mi farai quantunque vorai, fretta,
et nel canto XXII del Purgatorio:
Ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è della gente che per Dio dimanda,
et nel canto XXXII:
Che quantunque i' havea visto davante
di tanta ammiration non mi sospese,
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[216] Et il Boccaccio nel principio, dopo lo essordio:
Quantunque volte, gratiose et nobili donne, meco pensando riguardo.
Per li quali sopranotati essempi appare, per il comune uso, nella signification prima tal voce al soggiontivo aggiongersi, et nella
seconda allo indicativo, come che col soggiontivo ancho talhora
si legga aggiunta. [217] Quandunque, voce molto simile, quello ci
dinota che a' Latini quandocumque: Dante nel canto IX del Purga-
torio:
Quandunque l'una d'este chiave falla,
et nel canto XXVIII del Purgatorio:
quandunque nel suo giro ben si adocchi.
[218] Anchora che per benché solo Dante ritrovo due volte haver
posto nella sua Comedia, nel canto VIII dell'Inferno, dicendo:
io ti conosco, anchor sie lordo tutto,
et nel canto VIII del Purgatorio:
Anchor che l'altra, sí andando, acquisti.
[219] Però che in medesima quasi significatione: Petrarca:
Nè però che con atti acerbi e rei
del mio ben pianga, et del mio pianger rida.
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Perché pose invece di benché, dicendo:
Ché perch'io viva di mill'un non scampa;
et dove nella canzon quarta giunse tal voce allo indicativo,
quando disse:
Ché perch'io non sapea come nè quando
me 'l ritrovasse,
ivi [E3r] è posta in loco di quoniam latino vocabolo, non di quam-
vis.
[220] Queste due voci seguenti allo indicativo et soggiontivo parimente si congiungono, fin che e mentre che: Petrarca nel so-
netto CLXIII:
In fin ch'io mi disosso, snervo e spolpo,
et altrove:
fin ch'io sia dato in preda,
a chi tutto diparte!;
Dante nel canto XVI dell'Inferno:
E quanto l'habbo grato, in fin ch'io vivo;
Petrarca:
Io non fui d'amar voi lassato unquanco,
Madonna, nè serò mentre ch'io viva,
et altrove:
Occhi mei lassi, mentre ch'io vi giro,
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et in altro loco:
Mentre io teneva i bei pensier’ celati,
et in un'altra canzone:
mentre il mio primo amor terra ricopre.
[221] Parrà forse ad alcuno ch'io sia stato piú del decevole lun-
go negli essempi; ma perché nelle voci predette ci ho veduto
dubitar et errar molti, piú tosto ho voluto peccar in lunghezza
che esservi manchevole.
[222] Hor degli altri adverbii con piú brevità. Dico che questa voce assai da Petrarca sempre è posta in loco di multum overo sa-
tis adverbialmente, fuor che nel Triumpho primo dell'Amor:
e dentro assai dolor con breve gioco.
[223] Et il medesimo si trova usato da Dante, se nonne nel canto
XII dell'Inferno:
et di costor assai riconobbi io,
et nel canto XXIII:
I' udì’ già dir a Bologna
del diavol vitii assai,
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et nel canto XXII del Purgatorio:
Costoro, Persio et io e altri assai.
Ma posto è poi per adverbio d'ambi li poeti in lochi moltissimi,
come Petrarca:
et dissi: Anima, assai ringratiar dei
che fosti a tanto honor degnata allhora,
et nella canzone «Mai non vo' piú cantar»:
et tra le fronde il vischio. Assai mi doglio,
et nel Triumpho II della Morte:
Ma assai fu bel paese ond'io ti piacque;
Dante nel canto XVIII dell'Inferno:
Assai leggieramente quel salimmo,
et nel XIII del Purgatorio:
Gratioso fia lor vederti assai.
[224] Il Boccaccio nelle opere sue senza diferentia lo pone ad uno
et altro modo, come nel principio della prima Giornata delle
sue diece, ove dice:
Dalle qual cose et da assai altre,
et poco piú oltre:
ad un fine tiravano assai crudele.
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[225] Voglio, d'infiniti essempi, delli sopratoccati rimanermi con-
tento. Solo dirò chiunque tra suoi scritti o sermoni interporrà
essa voce come adverbio, seguitarà il comune uso di tutti tre gli
auttori, et cosí a me par piú convenevole; et come nome adietti-
vo per piú [E3v] solinga et meno approvata via farà il suo camino.
[226] Unque dinota quello istesso che nel latino unquam et nel volgar mai: Dante nel canto III del Purgatorio:
Pon mente se di là mi vedest'unque.
Unqua si trova scritto tra ’ versi del Petrarca nella canzone
XXXVIII:
in aspettando un giorno, Che per nostra salute unqua non vene.
Per il qual essempio agevolmente si conosce quanto sia quel co-
mune errore di coloro che, in loco di nunquam, pongono mai
senza negatione et, quando vogliono dire che per nessun tempo ameranno, dicono mai ameremo; come Francesco Philelpho nella canzone tra le sue orationi latine per lui posta, la qual incomin-
cia «Signor, che pur di nulla fatt'ha il tutto», disse intorno alla
fine:
conte Vitalian ch'ogni suo nervo
metter per li soi amici mai li spiace.
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[227] Ma non è maraviglia, perché delle regole della volgar lingua hebbe over poca scienza o poca cura; però disse, poco disopra
delli trascritti versi:
ché degno
ha giudicato in cui lui sia cortese,
ponendo lui in caso retto et persona agente.
[228] Da questa voce unqua overo unque si compone unquanco,
che significa ‘unqua anco’, cioè ‘mai anchora’, benché si scriva
senza aspiratione, et non si aggiunge se non col tempo passato
del verbo, come Petrarca:
Verdi panni, sanguigni, o scuri o persi
non vestí donna unquanco,
et:
I' non fui d'amar voi lassato unquanco;
nè si potrebbe ben dire unquanco non amerò, o in altro simel mo-
do. [229] Unquanche dice Dante nel canto penultimo dell'Inferno:
ché Branca Doria non morí unquanche;
et questo perché usa in alcun loco il semplice anche, come nel
canto ultimo:
Sí che in inferno io credea tornar anche,
et nel canto VII:
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«Maestro», dissi lui, «hor mi dí anche»,
et nel canto XXI:
ch'io torno per anche.
[230] Disse nondimeno unquanco nel canto IV del Purgatorio:
«Certo, maestro mio», dissi io «unquanco
I’ non vid'io chiaro»,
et il semplice usò in rima dicendo:
non eran mossi i piè nostri ancho.
Ponesi talhora in loco di questa voce latina etiam, come nel can-
to XV dell'Inferno:
Priscian sen va con quella turba grama
et Francesco d'Accorso ancho,
et nel canto VII del Purgatorio:
Ancho al nasuto van le mie parole,
et cosí in piú lochi. [231] Il Boccaccio nelle sue novelle usa questa voce anche; ma io, et nella prosa et nelli versi occorrendomi, se-
guirò il Petrarca, dicendo ancho come [E4r] egli disse nel sopra al
legato sonetto «I' non fui d'amar voi lassato unquanco», ne l'ot-
tavo verso:
Sia la mia carne che pò star seco ancho,
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ponendo tal voce per concordante rima, quasi diversa dalla
composita con unqua. Ma di rime nel presente libbro non in-
tendo di ragionare. [232] La terminatione in o a me piú piace,
perché ancho è di significato di questa voce anchor, nè in altro
è diferente salvo che nel difetto dell'ultima lettera o dir vo-
gliamo sillaba, dicendosi anchora. Et perché trovo senza dife-
rentia poste tutt'a tre le dette voci, della cui aspiratione nel
libbro della orthographia parleremo, basti per hora tanto ha-
verne detto.
[233] Molti adverbii sono con voce di nome posti, come dal Petrarca nel sonetto CXXVII:
e ome dolce parla, e dolce ride,
et nel sonetto CXII:
I' vidi Amor che' begli occhi volgea
soave sì.
[234] Primier in vece di primamente pone il Petrarca nella canzone
IV, dicendo:
Qual mi feci io quando primier m'accorsi,
et ponelo cosí altrove. Et che sia nome dimostralo nel sonetto
XXXI, quando disse:
et gran tempo è che io presi il primier salto;
et cosí altrove legger si puote in esso auttore. [235] Fiso adverbial-
mente si pone, come Petrarca nella canzone XLI, ove dice:
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e mirandol io fiso
cangiossi il ciel,
et nella canzone XXIX:
Ma mentre tener fiso
posso al primo pensier l'anima vaga;
Et cosí ritrovasi in molti lochi nella Comedia di Dante. Et in non
minor numero posto per nome si trova nelli scritti dell'uno et
dell'altro poeta. Quindi affiso verbo, posto dal Petrarca:
che altrove non mi affiso.
[236] Questa voce meno sempre usa Petrarca, come ove disse:
provedete almeno
di non star sempre in odiosa parte,
et in uno altro sonetto:
prima potrà per tempo venir meno
una imagine salda di diamante.
Nè in loco di tal voce, come adverbio, mai usò Dante nè il Boc-
caccio questa altra voce manco, nè il Petrarca se non nel sonetto
XIV, ove dice:
vedendo il caro padre venir manco.
[237] Ma come nome si pone, del medesimo Petrarca nel sonetto XXXVIII:
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Però i mie' dì fien lagrimosi e manchi,
et nella canzone «Quel antico mio dolce»:
Madonna, il manco piede.
Quindi il verbo mancare: Petrarca:
a cui il cibo manca
Altresí per similmente pose Dante nel canto XIX dell'Inferno, ove
dice:
La giú cascherò io altresí quando,
et cosí lo pose nelle sue canzoni, et il [E4v] Boccaccio in molti lo-
chi; ma in niuno il Petrarca lo usò.
[238] Tosto adverbialmente si pone, et tostamente ancho disse
Dante; et come nome si usa, dicendosi:
il suo movere è sí tosto
et:
la via piú tosta
disse Dante. Et ratto in medesima significatione: Petrarca:
Ratto inchinai la fronte vergognosa,
et Petrarca:
se non fusse il suo fuggir sí ratto;
Dante nel Purgatorio:
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Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda,
et come nel canto II dell'Inferno:
Al mondo non fur mai ratte persone,
et nel seguente canto:
che girando correa tanto ratta.
[239] Et avaccio usa la tosca lingua: Dante nel canto X:
et io pregai il spirito piú avaccio
che mi dicesse chi con lui si stava,
et il verbo avacciare: Dante:
Che si avacciaser a divenir sante.
[240] In tal significatione adverbialmente questa voce presto non ritrovo usata, se nonne una volta da Dante nel canto VII del Pur-
gatorio ove dice:
alcun inditio
dà noi perché venir possiam piú presto.
Ma come nome si ritrova spesso, come Petrarca: «
Fortuna, che al mio mal sempre è sí presta;
Dante nel canto XIX del Purgatorio:
Quand'una donna apparve santa et presta
lungesso me,
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et nel canto XXI dell'Inferno:
col duca mio, si volse tutto presto,
et nel canto II:
per che mi fece del venir piú presto,
et nel canto XXX:
non l'havei tu cosí presto,
intendendo del braccio, e nel canto XXI del Paradiso:
nè piú amor mi fece esser piú presta.
[241] Et quindi il verbo apprestare, usato una volta da Dante nel
canto XII del Purgatorio, dicendo:
Vedi colà un angel che si appresta
per venir verso noi;
Dante:
Alla Fortuna, come vòl, son presto.
[242] Ma il Boccaccio in lochi innumerabili usa questo verbo ap-
prestare non per affrettarsi ma per apparechiare, et pone esser presto, cioè apparechiato. Il che massimamente dimostra nella Giornata
prima nella novella di Primasso, dicendo:
fece dir all'abbate, qualhora gli piacesse, il mangiare era presto,
et nella Giornata quinta, nella novella di Cimone:
Ad una nave, la quale io ho già secretamente fatta apprestare, ne mene-
remo.
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[243] Prestamente nondimeno nella medesima novella per ad-
verbio pose, dicendo:
de' quali prestamente alcuno corse ad una villa ivi vicina,
et cosí si trova nella Giornata prima, nella novella di Melchise-
dec et in altri lochi. Et li essempii danteschi per me addutti si
potranno da chi mira, tutti riducere a tal significatione. Nè do-
ve [E5r] si legge in alcuni lochi tosto non vi haverebbe loco presto, come nel canto XXX del Paradiso:
Sí tosto come in su la soglia fui
della mia verde etade,
havendo ancho detto altrove:
Sí tosto come l'ultima parola,
et nel canto XIX del Purgatorio:
e volete trovar la via piú tosto,
et cosí in piú lochi. [244] Incontanente quasi in medesimo signifi-
cato si legge: Dante nel canto III:
Incontanente intesi e certo fui,
et ancho immantenente, come nella canzone XVII del Petrarca:
Et perché mi spogliate immantenente?
[245] In loco di questa voce latina aliter, nella volgar lingua si dice altrimenti. Solo ritrovo il Petrarca nel sonetto CXLVII haver detto altramente:
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Se ciò non fosse andrei non altramente
a veder lei.
[246] Nulla per niente adverbialmente ad hor si pone, come
Dante nel canto ultimo dell'Inferno:
A quel dinanzi il morder era nulla
verso il griffiar,
et il Petrarca nel sonetto sopradetto:
il fuggir val niente.
Onde alcuni componono nientedimeno; ma nondimeno disse sem-
pre il Boccaccio nel suo Decamerone. [247] Nulla, nome, per nessu-
na: Petrarca nella canzone IV:
Nulla vita mi fia noiosa o trista,
et cosí in uno e altro modo in molti lochi. Questa voce niuno over niuna non hanno usata gli dui poeti toschi, ma il Boccaccio in molte parti delle novelle la ha lassata iscritta. [248] Non mica
medesimamente per niente: dal Petrarca una sol volta tal voce è
posta dicendo «nè mica», che quasi è neque mica, latino vocabo-
lo e trito.
[249] Testé, adverbio di presente tempo, non mi sovene haver-
lo letto nell'opre del Petrarca, ma ben di Dante et del Boccaccio.
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Et te steso in medesima significatione pose nel canto ⟨XIX> del Paradiso, dicendo:
Et quel che mi convien ritrar te steso.
[250] Et questa voce geminata via via il medesimo dinota che
hora hora: Dante nel canto VIII del Purgatorio:
per lo serpente che verrà via via.
Ma una sola di dette voci, preposta a quest'altra voce piú ‘molto’
significa, come Petrarca nella canzone XXIII:
che farà gli occhi toi via piú felici,
et nel Triumpho primo della Morte:
via piú dolce si trova l'acqua e il pane.
[251] Guari, antica voce tosca, medesimamente ‘molto’ dinota, come dimostra Dante nel canto VIII dell'Inferno dicendo:
ma ei non stette là con essi guari;
vocabolo molto frequentato dal Boccaccio nelle novelle, ma dal Petrarca mai scritto non si trova.
[E5v] [252] In loco di molto adverbio o grandemente, pone sovente
il Boccaccio stranamente, come nella settima Giornata, nella no-
vella di un geloso, nel principio:
Stranamente parve a tutti madonna Beatrice esser stata malitiosa.
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[253] Rado et di rado dicesi per raro adverbio: Petrarca nella can-
zone XXIII:
Rado fu al mondo fra cosí gran turba
chi udendo ragionar,
Dante nel canto IX dell'Inferno:
et quei: «Di rado
incontra»,
et nel canto IV:
Parlavan rado, con voci soavi.
[254] Et nome si trova ancho, come Petrarca:
Rade volte adivien;
et raro, nome, nella sopradetta prossima canzone pose Petrarca:
Et come già se' de' miei rari amici;
Dante nel canto VIII dell'Inferno:
et rivolsese a me con passi rari.
A passo a passo, per quello che si dice a poco a poco: Petrarca nel
sonetto L:
A passo a passo è poi fatto signore,
et altrove:
cosí passo passo
scorto m'havete a ragionar tant'alto.
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[255] Quando che sia, cioè ‘pur qualche volta’ over ‘finalmente’: Petrarca nella canzone IX:
I mie' sospiri a me perché non tolti
quando che sia?;
Dante nel canto primo dell'Inferno:
perché speran di venire
quando che sia alle beate genti.
[256] Tardi et tardo adverbialmente si dice: Petrarca nel sonetto CCXXXIII:
et è, ben sai,
qui ricercargli intempestivo et tardi;
Dante nel canto II dell'Inferno:
Che l'ubedir, se già fusse, m'è tardi,
et nelle canzoni:
Se tramontarsi al tardo.
Che nomi siano ancho adiettivi è cosa manifesta, come Petrarca:
E tarde non fur mai gratie divine.
[257] Affatto ‘del tutto’: Petrarca sonetto CLII:
Ch'io mora affatto, e in ciò segue suo stile.
Sovente, che quello medesimo dinoti che spesso, è assai noto.
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[258] Hora venendo agli adverbi locali: qui et quivi et quici:
Dante nel canto VII del Purgatorio:
Quivi sto io coi pargoli innocenti,
et poco da poi:
Quivi sto io con quei che le tre sante virtù vestir,
et nel medesimo canto:
A guisa ch’e valloni sceman quici.
[259] Lí e lici in loco si pongono, et [E6r] de loco: Dante:
Poco partiti si eravam di lici.
Là et qua, medesimamente in loco:
Hor qua hor là soccorrem con le mani;
a loco:
Di súdi giú di qua di là li mena;
et:
quello imperator che là sú regna,
et nel canto II:
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Dello scender qua giuso in questo centro,
et poco da poi:
perch'io non temo di venir qua entro.
[260] Colà dicesi, et costà et costí, ma non colí: Dante:
Et tu che sei costí anima viva,
cioè ‘in quel loco’; e costinci ‘de lí’: Dante nel canto XII dell'Infer-
no:
Ditel costinci; se non, l'arco tiro,
et poco da poi:
La risposta
farem noi a Chirón costà di presso,
et fati in costà per quello che dir si suole fatti in là: Dante nel can-
to XXII dell'Inferno:
Fatti in costà, malvagio ucello!,
et nel canto VIII:
Via costà con gli altri cani!;
et il Boccaccio nella Giornata terza, nella novella di Ricciardo Minutoli:
sozzo cane, che ha colei piú di me? Fatti in costà, non mi toccare.
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[261] Indi de loco, et quinci et quindi: Dante nel canto IX dell'In-
ferno:
Per indi ove quel fumo è piú acerbo,
et nel canto III:
Quinci non passò mai anima buona;
et poco innanzi havea detto:
Quinci fur chete le lanose gote,
cioè ‘per questo’. [262] Cosí quindi si pone, come nel canto ⟨XXV> del Purgatorio:
quindi ridiam noi;
quindi facciam le lagrime e i sospiri.
Pongonsi insieme da Petrarca e da Dante questi dui adverbii:
nel canto XIV dell'Inferno:
Senza riposo mai era la tresca
delle misere mani, hor quindi hor quinci,
cioè ‘di qua et di là’ come nel canto predetto:
di qua di là soccorron con le mani.
[263] U’, ove, dove et altrove sono adverbii in loco e a loco; et dicesi ove et dove sei, et ove et dove vai, et io sono altrove o vado altro-
ve.
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Onde, donde et altronde sono de loco et per loco come onde vie-
ni, onde sei passato et altronde passi, altronde vieni: Petrarca nel so-
netto XXXIX:
et io contra sua voglia altronde il meno,
et nella canzone XXII:«
Là onde io passava sol per mio destino,
et nella canzone LX:
fa' ch'io ti trovi al varco,
onde senza tornar passò il mio core.
Li essempi de loco sarian di soverchio, però che è cosa trita et a ogn'huom nota.
[264] Dicesi ancho dovunque et ovunque che in loco di ubicumque e quocumque latini adverbii si pongono, et giongonsi con lo indicativo e con lo soggiontivo: Petrarca nella canzone XXV:
Ovunque gli occhi volgo,
et nel sonetto CXLVII:
Ovunque ella sdegnando gli occhi gira,
et nel sonetto CXXVI:
Ove [E6v] ch'io posi gli occhi lassi o giri,
e nel sonetto CXCIII:
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Tal la mi trovo ove ch'io sia,
et nella canzone XXVI:
Ove porge ombra un pino.
[265] Ma coll'indicativo regolarmente si aggiungono li compositi, come oltre li sopranotati essempi, mostra Petrarca nel sonetto LXXXVII:
per far dolce sereno ovunque spira,
et nel sonetto XCIV: «
che 'l pensier mio figura ovunque sguardo.
[266] Altri locali adverbii a me non pare che vengano in consi-
deratione nella volgar lingua per alcuna loro difficultà. Impo-
nendo adunque fine a questo primo libbro della grammatica
trattante il modo del regolato parlare, convenevole cosa è al se-
condo della orthographia, parte di essa grammatica, divenire.
[267] Nella quale prima saranno poste alcune regole generali; poi alla geminatione di ciascuna consonante per ordine si devenirà,
con le correttioni degli errori delle stampe di corsive lettere (che
cosí le chiamano) et con nuove dichiarationi di molti passi oc-
correnti di Dante et del Petrarca, come vi è promesso, aspettan-
do voi da me (se io conoscerò questa parte di mia fatica esservi
stata non poco grata), oltre gli altri tre libbri che sono del rima-
nente di questa mia opera, le espositioni delle cose posposte
overo male esposte da’ commentatori dell'uno et dell'altro vol-
gar poeta.
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[FIr] Della volgar grammatica
LIBRO SECONDO
[1] La prima regola della orthographia sarà che tra due vocali tre consonanti non si debbian porre. Onde scriverassi santo, pronto,
ostacolo, mostro nome e verbo, costantia, sostegno, trasmuto, trasporto,
pospono, posposto, et cosí tutti gli altri tali. [2] Questa regola non ha
loco ove r overo l, le quali Latini chiamano liquide, precede la seguente vocale, perché in alcuna di tali voci di necessità tre consonanti vi si richieggono perché rimanga la parola intiera, come sepolcro, sempre, compro et altri infiniti tali, et in alcune altre
per la compositione loro, come abbracio, abbrevio, attraverso et si-
mili. [3] Sono poi alcuni vocaboli li quali, non per bisogno di compimento di voce nè per ciò che siano composti, ma per se-
guimento della tosca pronontiatione et per differentia delle voci
latine di simile finimento, ricevono f overo b geminato, come
soffro, afflitto, labbra, fabbro, libbro, febbre, ebbrio, sobbrio. Ma di que-
sti et degli altri tali si dirà sotto le occorrenti lettere partitamen-
te.
[4] La seconda questa sia, che di queste lettere b, c, d, p, ove al-
cuna nel latino è precedente a questa lettera t, nel volgare in al-
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tro t si tramuta, perché ancho la volgar pronontia lo richiede;
onde dotto, obietto, rotto, ottuso, patto, ottimo, settimo, ottavo con altri loro simili cosí scriveransi. [5] Alcuna volta per la compositione
in la simile consonante ritrovata si tramutano, come è aggiongo,
osservo, assolto, sotto, sollevo; alcuna volta si rimovono, come equi-
notio, pronto, sostantia, sovengo, conosco, aversario et altri simili. Que-
sta lettera l talhora in i si converte nel volgare, come ampio, es-
sempio, tempio, empio, compio, e chiudo, conchiudo, dischiudo.
[6] La terza regola sia tale: che, sí come dinanzi a queste lette-
re b, m, p non vi ha loco n in medesima voce, cosí queste lettere
b, d, g, havendo nel latino in medesima voce seguen[FIv]te questa lettera m, nel volgare in altro m si tramutano, come dramma, som-
metto, sommergo, ammiro; et quando essa lettera m in voce latina
dinanzi a questa lettera n si ritrova, nella volgar voce in altro n si riduce, et scriverassi scanno, danno, autunno, et cosí gli altri simili.
[7] La quarta norma esser diremo che, ove alcuna di queste
due vocali a overo o è in istessa voce precedente a questa lettera
q, il c se gli intrapone, come acqua, nocque, piacque, tacque, giacque et in simili, trahendone aquila et aquilone.
[8] Intraponesi parimente c tra s et la vocale seguente in tutti
li tempi et modi, ove s intraviene, di quelli verbi li quali nella
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prima persona dello indicativo hanno s e c, come pasco, nasco,
cresco, ascendo, discendo, sciolgo: scioglie, cresce, pasce, discende, si scrive
et cosí in gli altri modi e tempi, come è detto; et il medesimo
nelli participii loro attivi et passivi, si osserva , come ascendente, pasciuto, disceso, crescente, cresciuto, sciolto, et cosí nelle altre voci a·lloro simili.
[9] Nè crederei senza error ancho di rima potersi con s gemi-
nato nella concordante porre questo verbo lascio, a differentia di questo nome lasso, che hor voce è di dolente ancho et hor ‘de-
bole’ dinota; e direi che con sc scriver si dovesse, come lasciato: Petrarca:
Lasciato hai, Morte, senza sole il mondo,
et Dante nel canto X dell'Inferno:
coi corpi che là sú hanno lasciati;
et nel vero la pronontiatione lo richiede. [10] Ma lo istesso Pe-
trarca, nel sonetto che incomincia «Io mi rivolgo indietro a cia-
scun passo», mi fa dubitare, dicendo:
che 'l fa gir oltre dicendo: Hoimè lasso!
Poi ripensando al dolce ben che io lasso!
ove non si pò dir error di stampa, perché lascio con l'altre sareb-
be discordante rima. Error potrebbe forse esser di stampa ove è
scritto:
Lassare il velo o per sole o per ombra,
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che per il mio giuditio (qual si sia) e ivi e altrove fuor di rima
con s et c scriver si deve; et forse il Petrarca piú dalla rima co-
stretto che da altro mosso cosí scrisse. Ma altrimenti Dante nel
canto XXVI del Paradiso disse in rima «natura lascia».
[11] Questa voce fascio cosí ancho si scrive, et coscia, angoscia, fa-
scia, pesce; bascio et scempio nomi et verbi; sciagura et derivati, ramu-
scello, arbuscello et l'altre voci [F2r] simili come ruscello; et cosí la
lingua tosca li pronontia, della quale, come dicemmo, la penna
deve esser seguitatrice.
[So verbo da molti si scrive con il c, come il latino scio, che a me
non piace, volendo scriver volgarmente. Nè ancho nesciuno, con
c, si scrive, ma con s geminato; et cosí è l'uso de' dotti scrittori.
[12] Et come c a queste voci si interpone, cosí g a quelle che da
i hanno cominciamento, seguendo un'altra vocale, si propone, come Giano, gioco, Giove, Giunone, giocondo, ingiuria, Giovanni et simili, come che il dottissimo Gioviano Pontano nel suo trattato
Di aspiratione dica la propositione di questa lettera g a vocali nel-
la volgar lingua esser processa da' barbari. Ma la tosca pronontia-
tione seguendo a me par che vi si convenga (che che si sia).
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[13] La quinta regola, della mutatione delle vocali nelle volga-
ri voci dal latino descendenti, sia che regolarmente questa prima vocale a rimane nel volgare ove nel latino si trova; et di ciò non
fa mestier addur essempi. E veramente molte fiate in i si con-
verte, et molte piú i in e, per dimostrar la voce volgare diversa
dalla latina. Onde piú ragionevolmente secondo la volgar lingua scriverassi disidero, misura, istremamente, istimare, iscusato, spilunca.
[14] Et regolarmente le dittioni che incominciano nel latino da
questa sillaba ex, seguendo consonante, nel volgare da questa sil-
laba is prendono cominciamento; onde non expedire ma ispedire
scriveremo. Similmente liggieri et piggiore, et nelle voci composte
da questa particola re latina, che in ri si tramuta, et diremo rimo-
vo, rihavuto, riporto, rinasco; et cosí gli altri simili, perché tutti tra-
scriverli si farebbe oltra modo crescer il volume, cosa contraria
alla brevità la quale io cerco di seguire. E talhora in a si tramuta,
come in maladetto, et talhora in u come in rubella.
[15] Dissi medesimamente che i in e in moltissime voci si tra-
muta per far la volgar voce dalla latina differente; onde oppenio-
ne, sollecito, semplice, empio nome et verbo, vettoria, lettere, soletario,
menoma, menomissima, selva, nemico, artefice et altri tali, la tosca pro-
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nontiatione de' quali la penna seguir deve quanto piú pò; et cosí
si ritrova iscritto nelli meno corrotti [F2v] antiqui testi delle Ce-
nto novelle di messer Giovanni Boccaccio.
[16] Questa penultima vocale o ad hora in i si trova mutata, co-
me in queste voci dimestico, dimestichezza; i in o, come somigliante; in u piú sovente o si tramuta, sí come ancho u in o in lochi infi-
niti si vede tramutarsi, come si vedrà nelle sottonotate voci. [17]
Et prima porrò quelle nelle quali la pen-
ultima vocale nell'ultima si muta, poi quelle ove l'ultima nella penultima si converte.
Dunque ubidiente, ufficio, ubbrigato, tutto, come che Dante licen-
tiosamente per la rima la voce latina ponesse, dicendo:
Nostra natura quando peccò Tota.
Exempi della seconda inversione sono molti, come sospetto, sog-
getto, nodrimento, noverar, inoverabili, popolo, volgare, singolare, et
molti tali.
Detto della variatione dal latino al volgare, decevolmente mi
resta di ragionare della variatione di esse vocali nelle volgari vo-
ci istesse.
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[18] La sesta, adunque, regola sarà che li verbi li quali questa
vocale a hanno per finimento delle terze singolari persone dello
dimostrativo modo, che sono della congiugation prima, della
quale dicemmo nel primo libbro, a mutasi in e nel futuro tem-
po et dicesi: io amerò, tu amerai, quelli ameranno, et medesimame-
nte nelli imperfetti tempi del soggiontivo, come io amerei, tu ame-
resti, quello amerebbe, et il medesimo nel numero del piú. Ma nel-
la terza persona dello perfetto tempo dello indicativo modo,
questa vocale vi resta, nè si muta in o (come nel primo libro di-
cemmo), dicendosi et scrivendosi quelli amorono, cantorono, et altri
tali; ma quelli amaro, cantaro over amarno dir si deve. [19] In molti
altri lochi questa vocale seconda e in i si tramuta in questo tem-
po et prima persona amassimo, cantassimo; ma nella terza persona
si tramuta in o, et dicesi amassono, cantassono, et nella terza perso-
na dello imperfetto tempo, come canterebbono, amerebbono, et si-
milmente nelli verbi della seconda congiugatione come farebbo-
no, et di piú nelle terze persone del maggiore numero dello in-
dicativo e presente tempo, come vivono, dicono, scrivono, et nella
terza persona del maggior numero del tempo perfetto dello
istesso modo, come scrissono, vissono, pervennono.
Pagina 134
[20] Variansi in molte voci le vocali, cioè che l'u[F3r]na et l'al-
tra senza biasmo vi si pò porre, come serà tempo futuro di sono ;
maraviglia, meraviglia, come, como; altrimenti, altramente; anche, ancho;
unque, unqua; preposto, proposto; sanza, senza; fuora, fuori, fuore; cre-
dea, credia; dispetto, despitto; fosse, fusse; vulgo, volgare; curto, corto; vui, voi; suoi, sui; fui, foi; dipinto, depinto; maledetto, maladetto; di botto, di butto; traggito, traggetto; reo, rio; et molti altri tali che ad uno et altro modo correttamente si trovano posti dagli approvati auttori no-
stri, come lungi, lunge et da la lunga. Et il medesimo variar si tro-
va nel principio de alcune dittioni, come iguale, eguale et uguale;
offitio, uffitio; et altre tali voci le quali io non trascrivo.
Pagina 135
B
[21] Geminasi regolarmente questa prima consonante nelli
verbi, essendo nel mezzo di questa vocale a, come abbaglio, ab-
barbaglio, abbatto, abbasso, abbandono: Petrarca nel sonetto LV:
et come vita anchor non abbandono,
et nel sonetto LXXXI:
et rapidamente n'abbandona,
et nella canzone che incomincia «Poi che per mio destino»:
hor m'abbandona al tempo, et si dilegua;
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Dante nel canto XVII dell'Inferno:
quando Phetonte abbandonò li freni,
et nel canto VIII:
Cosí sen va e quivi m'abbandona.
[22] Et cosí è l'uso de' dotti et giuditiosi scrittori; et dove altri-
menti si trovi, esser aviso error di stampa, come nel sonetto
CCXXI:
d'abandonarmi fu spesso intra due,
et nel Triumpho della Castità:
chi abandona lei d'altrui si lagna,
et nel canto XXV del Purgatorio di Dante:
d'abandonar lo nido e giú la cala,
et nel canto XVIII del Paradiso:
tal, che è piú grave a chi piú s'abandona,
et il medesimo è nel canto V et VIII della detta cantica.
[23] Hanno, oltre li predetti, tal consonante geminata (ove si
ponga) tutti li verbi, nella prima persona dell'indicativo de' qua-
li si gemina questa overo altra consonante, come debbio over deg-
gio; negli altri tempi e modi hanno quello medesimo, et scrive-
remo debbia, dobbiate, debbiano over debbano, per ciò che per lo ac-
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crescimento delle sillabe del maggior numero, le consonanti del numero del meno, declinandosi, non si diminoiscono; haggio:
hebbi, hebbe, habbia, habbiamo, habbiate, habbiano overo habbino per
[F3v] sincopa ; faccio: farebbe; posso: potrebbe. Questo verbo conosco
ancho gemina il b nel preterito: conobbi, conobbe.
[24] Gabbo, verbo et nome, et babbo, voce la quale gli infanti
usano in ver' li padri loro, come mostra Dante nel canto XXXII dell'Inferno, dicendo:
nè da lingua che chiami mamma o babbo,
cioè da picciolo fanciullo et conseguentemente ignorante, vo-
lendo per questo inferire esser impresa altissima
descriver fondo a tutto l'universo,
cioè lo inferno et quella parte che sia il fondo della terra, la qual chiama l'universo; però chiamalo:
buco
dove si appuntan tutte l'altre rocce.
[25] Onde non parmi che il Landino quel loco bene interpretas-
se dicendo:
Et la cagione che non si conduce a dire sanza timore è che, a voler trat-
tar tal materia, non è impresa da pigliar a gabbo, cioè a scherzo e giuoco,
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voler scriver fondo, cioè oscuramente, a tutto l'universo, a tutti gli huo-
meni. [26] Et di poi, perché la lingua fiorentina, nella quale lui scrive, di-
ficilmente è intesa fuori di Italia, dove si dice mamma e babbo, però ag-
giunge: O lingua che chiamassi mamma o babbo, id est la lingua italica.
[27] Queste sono le parole del Landino. Et che il sentimento del
poeta sia come io ho proposto, dimostralo nel Paradiso: volendo
di cosa grande trattare, disse che non era da infante
che bagni anchor le labbra alla mammella;
et altrove, per altra circonlocutione dinotando la infantia, disse:
Prima che tu lasciassi il «pappo» o il «dindi».
[28] Io credo, lettori miei, che non vi fia grave in questo libbro
della orthographia, piú che vi sia stato in quello della grammati-
ca, sotto le occorrenti voci legger alcuna nuova loro dichiaratio-
ne col svelamento di molti sensi anchor coperti delli poeti no-
stri per arra di quello che dovete da me aspettare.
[29] Dubbio, nome et verbo, et dubbioso, quantunque Dante, molto nelle rime licentioso, nel canto XXVIII del Paradiso dicesse:
E quella che vedeva i pensier dubi;
ma, nel mezzo del verso nel canto XXIII;
Hor dubbi tu e dubitando sili
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credo che lasciasse scritto. [30] Dubbio et dubbioso scriveremo, adunque, et dubito, dubitoso. Dubbiar infinito spesso è usato da
Dante, come nel canto XI dell'Inferno, ove dice a Virgilio:
tu mi contenti sì quando tu solvi,
che, non men che saper, dubbiar mi aggrata.
Et par[F4r]mi che piú regolatamente cosí discenda da dubbio no-
me che dubitare, benché l'ultimo sia in uso piú frequente, over
che 'l nome discenda da esso verbo e cosí come da debbio verbo. Et cosí come ver-
bo (che cosí ancho lo declina il Petrarca, dicendo:
Che debbio far? che mi consigli, Amore?)
discende debito et debitore, li quali con b semplice si scrivono, co-
sí dubito, dubitoso, tutto che da dubbio discendano, con b semplice scriveransi.
[31] Cosí geminasi questa consonante nelle voci le quali in
questa sillaba # io overo # ia hanno finimento, come subbio, Danub-
bio, marubbio, annebbio verbo, cosí nebbia, arrabbio verbo; donde
arrabbiato et rabbia con b doppio. Arabia nome di provincia con b
semplice solo si scrive. [32] Gabbia, sabbia, scabbia hanno medesi-
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mamente tal consonante geminata, come labbia nome, il quale si
trova con articolo feminile del primo et del secondo numero, et
non con significatione delle sole labbra come nel latino, ma
dello aspetto tutto (che volgarmente si appella ciera, vocabolo
usato da Cino da Pistoia et da Guido Cavalcante nelle loro ri-
me), come parmi dimostrar il Petrarca nel Triumpho quarto del-
l'Amore, dicendo:
ove le penne usate
mutai per tempo e le mie prime labbia,
et Dante nel canto XIV dell'Inferno:
Poi volto verso me con miglior labbia.
[33] Onde a me non piace la interpretatione del Landino nel can-
to XXV, ove interprettando quel verso:
infin dove comincia nostra labbia,
disse:
Chiama il ventre labbia perché in quella è la fece, che in latino è detta
labes.
[34] Libbro, fabbro, labbra, febbre, obbrobrio, ebbrio, sobbrio, per la seguente liquida, scriver sanza error si ponno con sola et gemi-
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nata consonante, ma trabocco et distrabochevole con solo b, et non
come è posto nel sonetto del Petrarca:
lagrime per la piaga il cor trabbocchi,
Rubo medesimamente et rubatore: Dante:
O imaginativa che ne rube.
[35] In questo nome obbietto nella volgar scrittura il b si doppia,
come ancho il g quando per g si scriva, che ad uno et altro modo
si convene, come oggetto; medesimamente sobbietto et soggetto. Et
per error di stampa in molti lochi altrimenti si trova, come nel Petrarca:
di lor obietto ragionar sovente,
et altrove:
Rendi agli occhi, agli orecchi [F4v] il proprio obietto,
et in Dante il simile in moltissimi lochi.
C
[36] Medesimamente questa consonante seconda si gemina
nelli verbi et nomi da loro descendenti, li quali comincino da·llei
(et il medesimo è nell'altre) et si compongano con questa sillaba
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ra overo con solo a, come raccoglio, raccolto (et per error di stampa) nel canto VI del Paradiso è posto con c semplice, ivi:
come il quattro nel sei non è racolto),
accenno, come nel Triumpho della Divinità:
che la memoria anchora il core accenna.
Onde male istà nel sonetto CXLV
Ove armato fier Marte, e non acenna,
et altrove:
Che piagava il mio core e anchor acenna.
[37] Geminasi parimente in tutti li verbi et nomi li quali fini-
scano in queste due vocali i et o overo i et a in una sillaba con-
giunte come taccio, faccio, giaccio, faccia, braccia, occhio, orecchia, spec-
chio, vecchio, goccia, doccia et altri simili. In questa voce acciò, qua-
ndo segue questa particola che, posto in loco di ut et quando si po-
ne in loco di quoniam (il che ritrovo solo Dante haver fatto nelli suoi Convivii, li essempi del quale sono posti nel primo libbro
difusi, come ove nel principio disse:
et acciò che la scientia è ultima perfettione,
et altrove:
Acciò che misericordia è madre di beneficio),
questa consonante si gemina. [38] Ma quando sono due parti, prepositione et pronome come ad hoc che, il medesimo dinota,
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a ciò con solo c, secondo il mio giuditio (qual si sia), si scriverà;
perché come, scrivendo «noi Io vengo a te», non vi si porrà il t
geminato, nè lo n scrivendo «venite a noi», cosí non si geminarà il c scrivendosi io son venuto a ciò. [39] Et in questo parmi ritrovar correttamente stampato Dante, perché nella prima significatio-
ne sempre si trova con il c doppio et nella seconda con scempio,
come tra gli altri lochi nel canto II dell'Inferno:
Di questa tema acciò che tu·tti solve,
et nel fine:
acciò ch'io fugga questo male e peggio,
et nel canto XXV:
acciò che 'l duca stesse atento,
et nel X del Purgatorio e XIII del Paradiso, et cosí in altri lochi; [40]
et nell'altra significatione nel canto I dell'Inferno:
Anima fia a ciò piú di me degna,
et nel canto ⟨X>:
A ciò non fu' io sol,
et nel XI:
Vedi che a ciò penso,
[GIr]et nel canto IV del Paradiso:
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Non è simile a ciò che qui si vede,
et nel canto V:
a ciò che vien di fuori,
et cosí negli altri lochi. [41] Et nel vero a me pare che non sanza sconvenevole pronontia il c geminato isprimersi potrebbe in
molti lochi, come nel sonetto VIII del Petrarca:
ma vendetta è di lui ch'a ciò ne mena,
et altrove:
Amor ch'a ciò m'invoglia,
et nel Triumpho dell’Amor:
hora convien ch'a ciò proveggia,
et altri simili. Et a tal modo veduto ho io scritto in molti assai
corretti e antichi libbri, tutto che sanza differentia alcuni dotti
scrittori ad uno et altro modo pongano il c geminato.
[42] Detto è disopra che li compositi con questa sillaba ra pre-
cedente doppiano questa consonante. Onde è da sapere che tal
regola non ha loco in ciò, quando questa sillaba ri in compositio-
ne si preponesse, come riconosco, ricorro, ricopro, ricolto et altri simi-
li, li quali con c semplice si scrivono sempre. Ricco è nome sem-
plice onde discende il verbo arricchir e però scrivesi con gemi-
nato c.
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[43] Reco verbo con solo si scrive. Et oltre la trita significatione
di ‘porto’ come Dante:
per recarne conforto a quella fede,
significa ancho ‘riducere’, quale si pone da Dante nel canto XI dell'Inferno dicendo:
e rechiti alla mente chi son quelli;
il Boccaccio nella Giornata II, nella novella de' tre giovani:
A qual partito gli havesse il sconcio spender un'altra volta recati,
et altrove disse:
Io mi recherei ad amarti.
Et cosí credo esser posto tal verbo dal Petrarca nella canzone
«Anzi tre dì recata era alma in parte», ove per traspositione di lettera «creata» si legge con lo corrompimento di tutto il senso
della bella sestina.
[44] Geminasi in questo nome Bacco, sí come nel latino: Pe-
trarca nel sonetto «L'avara Babilonia ha colmo il sacco», dice:
non Giove o Palla, ma Venere e Bacco,
benché Dante nel canto XX dell'Inferno dicesse: «
et venne serva la città di Baco,
dandogli per concordanti rime Benaco e laco.
[45] Rocco, quando ‘ronchione’ dinota et non ‘rauco’ con c pur
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geminato si scrive: Dante nel preallegato canto:
Cert'io piangea, appoggiat'a un de' rocchi,
et have sciocchi per concordante rima.
D
[46] Ponesi geminato il d nelle composite voci, o nomi o verbi
che si siano, le quali da tal lettera incominciano, come ad[GIv]du-
co; addormento overo addormo, posto dal Petrarca, dicente:
del dì ch'io m'addormiva in fasse,
et cosí addormentato; addimando, addimandato; raddoppio verbo et
raddoppiato. [47] Addossare, addosso composito verbo parmi con ra-
gione dover tal consonante geminare, benché con semplice si
legga nel canto III del Purgatorio, ivi:
Adossandosi a lei, s'ella si arresta;
ché, sí come da questo nome dente deriva il verbo addentare, po-
sto da Dante nel canto XXV dell'Inferno:
che gli addentò e l'uno e l'altra guancia,
et da dito, additare (Petrarca:
che per cosa mirabile si addita,
et Dante:
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et additò colui dinanzi),
et cosí gli altri tali, medesimamente da questo nome dosso, che
pone Dante, dicendo:
mostrava alcun dei peccatori il dosso,
si comporrà addossare. [48] Et addosso diremo, quasi al dosso, con-
vertendosi l in d, come Petrarca (benché con semplice d sia scrit-
to) nella canzone XVIII, ove dice:
là 've dì e notte stammi
adosso, col poter c'ha in voi raccolto;
mi vanno inanzi, et èmmi ognhor adosso.
Ma nelli versi la semplicità delle consonanti si conciede, ove che
nella prosa non si faria; et questo nel principio delle dittioni,
perché nell'ultime sillabe non si concordano le rime quando l'-
una con due, l'altra con sola consonante ha finimento. [49] Et
Dante, per non cadere in tal errore, ispesso non hebbe alla
grammatica rispetto, che nel VII canto dell'Inferno pose il preteri-
to di veggio con questa consonante geminata, dicendo:
nuove travaglie e pene quante io viddi,
ponendo per rima concordante Cariddi, il che fece ancho
in molti altri lochi, delli quali sotto le occorrenti lettere si parlerà.
Caggio nel preterito fa caddi.
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[50] Freddo similmente con d geminato si scrive, et il composi-
to verbo raffreddo, quantunque uno de' moderni non di oscuro
nome habbia lasciato tra sue rime impresse fredo et vedo concor-
danti; nondimeno nè·ll'uno nè·ll'altro in tal modo si scrive.
[51] Aduggio verbo, da uggia (che ‘ombra nociva’ dinota) discen-
dente, con solo d dirittamente scriverassi, perché, quando questa consonante con nomi da vocali comincianti si congiunge, non si gemina, come adoro, adorno, adeguo et altri simili.
F
[52] Generale et breve regola di questa consonante dar si
puo[G2r]te tale: che, come l'altre predette, nelle voci che da essa
incominciano sarà doppiamente posta in compositione, come
affronto, affretto, affermo, affido et come nel latino si scrivono quali sono offeso, offerto, differente, difficile, effetto, offendo e offeso, diffondo,
diffuso.
[53] Difendo et difeso nel latino et nel volgar si scrivono con
semplice consonante; onde error di stampa diremo essere nella canzone XXXI, ove cosí è stampato:
Un lauro mi diffese allhor del cielo.
Diffetto medesimamente a me pare che con solo f scriver si deb-
bia, come si legge nel sonetto CCCXIII del Petrarca:
Il suo difetto de Tua gratia adempi,
et Dante nel canto IV dell'Inferno:
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Per tai difetti, et non per altro rio,
et cosí in molti lochi, in fuori che nella canzone cominciante
«Una donna piú bella»:
Me’ v'era che per noi fosse il diffetto,
et Dante nel canto VI del Purgatorio:
non si mendava, per pregar, diffetto,
et cosí in alcuni altri lochi. [54] Ma sí come da defendo difeso, cosí da questo verbo deficio difetto scriveremo. Perché basta la variatione
delle vocali a dimostrar la diversità della voce volgare dalla latina;
et quando con le vocali non si possa, allhora con aumento o di-
minutione di consonanti si fa, come in questo nome lito, et dam-
ma, che è animal silvestro, il qual nome latini con solo m scrivo-
no, li volgari con geminato, come Petrarca quando disse:
cervo nè damma;
ché benché nel volgare dal latino ci discostiamo, non però rego-
larmente nelle geminationi delle consonanti l'uno è dall'altro
molto differente.
[55] Geminasi in affanno verbo et nome, soffro, raffiguro, traffigo
et traffitto, avenga che chi con solo f lo scrivesse non sarebbe for-
se degno di riprensione, perché rare volte questa particola tra- seguono due consonanti, come si vedrà sotto le seguenti lettere.
Et cosí forse lasciò iscritto Dante nel canto XXV del Purgatorio, di-
cendo:
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se di bisogno stimolo il trafige,
et nel canto XXVIII:
sotto le ciglia a Venere, trafitta.
[56] In affino verbo si gemina, et quando ‘purificar’ dinota (Pe-
trarca:
come oro al foco affina),
et quando per ‘apparentare’ over ‘gionger in similitudine’, come Petrarca nelli Triumphi:
Portia che 'l ferro al foco affina;
et è il sentimento che, non havendo ella ferro, usò il foco invece
di lui, perché glielo apparentò overo assomigliò. [57] Cosí ge-
mi[G2v]nasi in baruffa, zuffa, buffa, beffa, aceffo verbo (Dante:
la lepre che gli azeffa),
affabile, ineffabile, paroffia. Et degli altri, li quali tutti trascriver fa-
stidiosa lunghezza sarebbe, bastino le generali regole.
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G
[58] Questa consonante regolarmente si gemina nelli nomi et
verbi li quali hanno queste due vocali i e o, overo i et a, con-
giunti in medesima sillaba, come veggio, caggio, raggio, seggio, mag-
gio, maggiore, peggio, piggiore et altri simili come pioggia , piaggia , pog-
gio nome et verbo viaggio, seggio, selvaggio. [59] Ma questi nomi pa-l
agio, disagio, malvagio, bragia, adagio con g semplice si scrivono, perché le vocali si ponno in due sillabe ancho dividere, et come in privilegio, regio, pregio, fregio nome et verbo et sfregiare contrario, come Dante nel canto VIII del Purgatorio:
che vostra gente honrata non si sfregia
de l'uso della bontà et della spada;
ove il Landino, leggendo «non si fregia della borsa», corrompe
il testo et male interpreta il sentimento del poeta.
[60] Aguaglio con g semplice si scrive, sí come adeguo con solo
d, et cosí trovasi scritto nel sonetto che incomincia «L’aspettata
virtù che in voi fioriva»:
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produce hor frutto, che quel fiore aguaglia,
et altrove:
che non la aguagli’ altrui parlar o mio,
et:
nullo stato aguagliarsi al mio potrebbe.
[61] Onde mi aviso che per error di stampa nel sonetto CCXXIV
sia altrimenti:
Ivi il parlar che nullo stile aggualia,
et altrove:
Agguaglia la speranza col desire,
et nel canto XXV del Paradiso di Dante:
con l'eterno proposito si agguagli,
perché niuna ragione ci persuade che con geminato si scriva.
H
[62] L'aspiratione come è manifesto peculiare et propia è de'
Greci non altrimenti che si sia ipsilon o, et usasi nella latina lingua
nelle voci descendenti da·lloro, acciò che dalle latine si discer-
nano; et tra latini nomi dui et, per il piú, tre solamente si trova-
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no d'aspirati. [63] Ma nella volgar lingua # ove non è mistieri co-
noscer se 'l vocabolo discende dal latino overo dal greco, ma so-
lo che la voce acconciamente pronontiar si possa a·ddimostrar il concetto dello isprimente o scri[G3r]vente, sanza tale aspiratione
# parmi ch'ella di soverchio vi si ponga, nel mezzo almeno. [64]
Ma nelli principii, essendo voce dal latino discesa, conserverà la aspiratione, come humano, hora, hoggi, huomo, humile et altri simi-
li. Annibal aspirarsi per ignorantia de' librari et non con ragione
dice il Pontano, et il medesimo questo verbo abondo et derivati.
Huopo, benché venga da opus voce latina non con aspirata, alcu-
ni aspirano.
[65] Volendo, adunque, noi dimostrar con alcuna differentia
(come dovemo) le infrascritte voci et altre simili esser volgari
sanza aspiratione scriveremo; come scola, catena, caro, corona, Bac-
co, sepulcro, catolico, Cristo, patriarca, Petrarca. Et il medesimo le voci greche le quali hanno ph nel latino, come Tifi, filosofo, Filelfo et al-
tri simili, cosí ancho si scriveranno per mio giuditio sanza erro-
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re. [66] Et giovami di credere che 'l Petrarca lasciasse di sua ma-
no scritto cosí quel suo sonetto:
S'io fossi stato fermo alla spelunca,
dove che Apollo diventò profeta,
et non «propheta». Io nondimeno confesso il commune uso de' scrittori esser nell'altra maniera, il quale anch'io seguirò fino che
io conosca d'alcun giuditioso la oppenione mia esser ricevuta.
Che la forma del y greco non piú sia bisognevole nella lingua
nostra che si sia quella dell'omega, non credo che sia alcun che
dubiti.
[67] Questo verbo aduggiare # il quale è della congiugation pri-
ma, come mostra Dante nel canto XV del Purgatorio:
il fumo del ruscel di sopra aduggia,
et nel XX del Purgatorio:
che la terra cristiana tutta aduggia #
non so perché in molti lochi aspirato si legga, essendo composi-
to da questa prepositione ad et uggia nome non aspirato, che
‘ombra nociva’ dinota, come mostra il Petrarca, dicendo:
Qual ombra è sí crudel che 'l seme adugge?
[68] Questo nome il quale da' latini et communamente da'
volgari cosí si scrive: Hieronymo, Girolamo nella tosca lingua si
scrive come mostra il Boccaccio nella novella di Girolamo e di
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Silvestra. Et qui non voglio tacere come questo nome Giovian
Pontano, nel suo trattato Dell'aspiratione, dica doversi scrivere; et
in questo voglio trascriver le proprie sue parole latine, perché
ancho con tutto ciò non so se si crederà:
Ieronimus quinque sillabarum est et caret aspira[G3v]tione, quam i con-
sonans semper respuit, ut Ianus, ianua, licet veniant ab hio, hias aspira-
tum.
[69] Et per dichiaratione di quanto è detto, cioè che nel mez-
zo de voci latine h non vi s'intrapone, questo intendo io sana-
mente quando sanza essa la voce rimane con il suo suono, il che
è quando ad alcuna di queste vocali a overo o si prepongono consonanti. [70] Ma quando ad e overo i si preponga c overo g et
al suono della voce si convenga, l'aspiratione di necessità vi s'in-
trapone: come poco, vago, delli quali, volendo cosí isprimere il maggior numero: poci, vagi, sarebbe il suono pozi e vazi, et cosí
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tutti gli altri tali; onde pochi et vaghi si scriverà. [71] Cosí nel fe-
minile poca, poche; vaga, vaghe; piaga, piaghe: Dante nel canto XXVII dell'Inferno:
La molta gente et le diverse piaghe,
dandoli per concordante rima vaghe; ma nel canto XXV del Purga-
torio dalla rima costretto, havendo detto image, soggionge:
che sia hor sanator delle tue piage,
ponendo per terza concordante rima adage.
[72] Ponesi ancho tra il g et la consonante l'aspiratione in que-
sto verbo agghiaccio et quest'altro vegghio, quando ‘esser vigilante’
dinota, a differentia del proferire di questo altro verbo veggio,
quando per vedere si pone.
[73] Questa voce ancho si aspira perché è di medesima signifi-
catione che è anchora, avenga che composita con unque per uso
non si aspiri et dicesi unquanco; ma ragione di alcuna diversitate
io non vi veggio. Et che ancho et anchora siano cosa istessa, mo-
stralo Dante nel canto XXX del Purgatorio dicendo:
non pianger ancho, non pianger anchora.
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[74] Cosí, quando significa tempo, cioè adhuc, come Petrarca:
Sia la mia carne che pò star seco ancho,
come quando si pone in loco di etiam, quale è nel canto XXIX del
Purgatorio di Dante:
s’i’ riguardava in lei, come in specchio ancho,
et nel canto VII:
Ancho al nasuto vanno mie parole,
benché ivi sanza aspiratione sia stampato, come nell'altra signifi-
catione nel canto X, ove cosí si legge:
Là sú non eran mossi i piè nostri anco,
quando io conobbi.
[75] Pur se si scrivesse con aspiratione sempre, a me non pare che
error si commettesse iscrivendosi etiandio unquancho aspirato,
over diremo che anco si scriva non aspirato. Della significatione
sua ne dicemmo disopra, tra gli adver[G4r]bi.
[76] Ponesi medesimamente l'aspiratione in tra due vocali in
questo verbo traho latino, come tu trahi, quel trahe, trahemo, trahete, traggono over trahono, ché dove si pone g doppio, overo r, la aspi-
ratione non vi ha loco: Dante nel canto VI del Paradiso:
nel proprio lume et che degli occhi il traggi,
et Petrarca nel sonetto CII:
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ch'al duro fianco il dí mille sospiri,
trarrei per forza,
et il medesimo nell'infinitivo modo tragger overo trarre: Petrarca:
che mi conforti ad altro ch'a trar guai.
[77] Onde colui (chiunque si sia) il quale ha corretti li errori per stampatori commessi secondo la sua stima nell'opere di Dante, corrigendo, nel canto XIII dell'Inferno, nel verso:
I' sentia d'ogni parte trarre guai,
quello infinito, traponendovi h et scrivendo traher, a me pare corrottione essere ivi, non lodevole correttione.
[78] In questo nome thema forse l'aspiratione non è disdicevo-
le, per differentia di questo altro nome tema, che per ‘il timore’ si
trova in piú lochi posto.
Traggitto over traggetto, che altro non è che quello che univer-
salmente si pronontia tragghetto, senza aspiratione si scrive et pronontia, perché nella tosca lingua getto verbo et gettare si dice, non ghetto nè ghettare. [79] Ma come dice lo eruditissimo Pontano
nel suo libbretto Di aspiratione sopra allegato, ciascuna natione
have il suo proprio modo di pronontiar le sillabe e scriverle; ma
io solo della osservantia parlo delli auttori dal cui fonte il ruscel-
letto di questa mia grammatica si derriva.
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L
[80] Ponesi questa consonante geminata in tutti li verbi com-
positi, come allevio, sollevo, allumo, allargo et altri simili, con li de-
rivati da loro, alleviato, sollevato, allargato, et in tutte le voci che nel latino l'habbino geminata, come stella, bella, villa et altre tali; et
oltre a queste allegro, bolle, bollito, sollazzo, sollicito, allento verbo et
rallento, alloro, cioè il lauro.
[81] Geminasi questa consonante quando allo articolo over
pronome da lei incominciante si proponga prepositione, come
alla città, nello regno, dell'amico, sulla torre, tra·ll’altre; tra·lloro, da·llui,
a·llui; medesimamente a·llei, da·llei, a·llor, perché tutti questi
essempi un solo sesso dimostranti si estendono ancho all'altro,
et cosí gli altri simili. [82] Et tale [G4v] scrittura è della tosca pro-
nontia immitatrice, perché quando in quella una delle dette vo-
ci si isprimeno, tale è il modo che una di queste consonanti pare aggiunta alla prima vocale et un'altra alla seguente, facendo lo
accento sulla prima sillaba, non sanza il congiungimento della consonante con lunga pronontiatione, come nel la, al la, et cosí nell'altre simili voci; er non con questa solo ma etiandio con al-
tre consonanti come lassú, laggiú, affine, appena, innanzi, innamora-
to, oppenione, appunto, libbro, febbre, commune. [83] Et quindi alcuni scrivono immagine, giammai et femmina; ma tali voci a me par che
piú seguano la romana pronontiatione che ·lla tosca. Et con solo
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m io ho veduta tal ultima voce scritta in antichi libbri fiorentini;
onde si pò dire che tal scrivere segue il particolar idioma et non generale italico. Et tal geminatione nella prosa si usa, non negli
versi, perché piú dolcemente corrano; perché la geminatione de consonanti non è sanza alcuna durezza, et spetialmente nell'a-
morose rime è da doversi schifare. [84] Ma niuna grammaticale ragione a dover geminar tal consonante lo ci persuade, perché
sono due parti distinte da prepositione et lui pronome; et come scrivendo poi ch'io parti’ da te questa consonante t non si gemina,
nè geminasi l scrivendo parti’ da Lorenzo, cosí non si dovrebbe geminar scrivendo da lui, da lei, ne la città. [85] Et che quest'ultima
(la cui regola deono seguitare l'altre) con semplice l si scriva con ragione, dimostraloci Dante nel canto XVII del Purgatorio, dicen-
do:
Questo è divino spirito, che ne la
via d'andar sú ne drizza sanza prego,
et col suo lume sé medesmo cela,
havendo vela per terza concordante rima, che discordante con
l'altra sarebbe se·lla geminata consonante le due sillabe dette congiongesse. [86] Il medesimo si vede nel canto XI del Paradiso, ove dice:
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Poi che ciascuno fu fermato ne lo
punto del cerchio in che avanti si era,
firmosi, come a candelier candelo.
Ma volendo alcuno seguir, con la penna almeno, la tosca lin-
gua con la maniera che nell'opre del certaldese scritto si leg-
ge et ancho tra·lli poetici volumi, nelle prose le dette gemi-
nationi useremo. Pur come grammatico tanto voglio haverne
detto. [87] In questa voce Hannibale, l nella volgar lingua si gemina [HIr] nelle rime massimamente, come Petrarca nel Triumpho del-
la Castità:
Non fu 'l cader di subito sí strano
dopo tante vittorie ad Haniballe.
[88] Et scrivesi con solo n perché lo accento si fa sulla penultima,
et cosí a Bologna dove tali nomi infiniti sono, si pronontiano et scrivonsi communamente, perché, come detto habbiamo diso-
pra la penna della lingua è seguitatrice. Ma quando lo accento è sulla prima sillaba, con doi n et solo l si scrive, come Dante nel
canto VI del Paradiso:
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che di retro ad Hannibale passaro;
ove, se scritto fosse con l geminato, bene non starebbe il verso,
et poco meglio quello del Petrarca:
c'Hannibale, non ch'altri, farian pio.
Et cosí scrivono gli dotti, removendo però alcuni la aspiratione,
ché duro è a molti persuadere contra il commune uso,
il quale io non mi rimarrò di seguitare per hora.
[89] Vasello con l geminato si scrive. Et overo diminutivo di
questo nome vaso o primitivo che si sia, ‘picciol barca’ oltre la
sua propria et volgar significatione dinota, forse quasi fasellus, vo-
cabolo latino: Dante nel canto II del Purgatorio:
et quei sen venia a riva
con un vasello snelletto e leggero,
et nel canto XXVIII dell'Inferno:
gittati seran fuor di lor vasello,
et macerati presso alla Catolica,
cioè che gettati sarian fuor della lor barca et annegati; perché
la propria significatione di questo verbo macerare è tale, come
in piú lochi si pò vedere nelle novelle di messer Giovanni
Boccaccio. Onde il Landino, male quel loco interpretando,
disse che:
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l'anime loro saranno cacciate del corpo che è come vasello dell'anima.
[90] Daniello per rima disse Dante con l geminato, dando per concordanti rime bello e ruscello. Felle ancho, invece di fele, pose
per rima nel Paradiso. Molti altri sono che la gemination loro da
se stessi quasi dimostrano, onde non mi affaticherò nel trascri-
verli. [91] Puntello nome et verbo: Petrarca:
sí il cor teme e speranza mi puntella,
ove li testi del Petrarca sono corrotti che dicono «sí el cor te-
ma», che saria senso contrario, perché puntellare è ‘sostentare’, et
la tema non sostenta, ma la speranza.
M
[92] Come l'altre, questa consonante si gemina nelli composi-
ti sí come ammaestrare, ammonire, ammirare, ammogliare, ammantare, onde error sarà di stampa nel sonetto CCLVII del Petrarca, [HIv]
ove è scritto:
l'altr'è sotterra, che' begli occhi amanta,
et altrove:
felice terra, che' begli occhi amanti,
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con semplice m in l'uno et l'altro loco. Ma bene è posto nel can-
to XX del Paradiso, ivi:
O dolce amor che di riso t'ammanti,
et altrove:
un corollario voglio che t'ammanti.
[93] Il medesimo dico di ammentare, che è ‘riducersi a mente’
(Dante:
Se ti ammentasse come Meleagro),
come rammentare: gemineranno tal consonante, come Dante nel
canto XXIII del Purgatorio:
hor ti rammenta,
et cosí nel canto X del Paradiso; Petrarca altrimenti:
ramenta lor come hoggi fosti in croce,
et altrove:
e mi ramenta.
Geminasi ancho in questo verbo ammendar, benché si legga
nel Petrarca:
dunque per amendar la lunga guerra,
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et nel Triumpho della Divinità:
mentre emendar potete il vostro fallo.
[94] Amorzare e ammortare con geminato m per la ragion pre-
detta si scriverà, come nel canto XIV dell'Inferno:
O Capaneo, anchor che non si ammorza,
et altrove:
che sopra sé tutte fiammelle ammorta.
Nondimeno nel sonetto CCIX del Petrarca con m semplice si legge:
Subito allhor che l'acqua il foco amorza,
ma forse non per trascuragine della regola, ma per fugir la du-
rezza della geminatione delle consonanti.
[95] Ammorbare, verbo non attivo come volgarmente si dice:
costui mi ammorba, io mi ammorbo overo io mi ammalo, quello si am-
mala, ma io ammalo, quello ammorba; et cosí si usa questo verbo in-
firmare. Del primo Petrarca nel Triumpho della Castità:
Come huom che è sano e in un momento ammorba;
et de questo et degli altri dui, piú essempi sono nel primo capi-
tolo della prima Giornata delle dieci. Ma questa è materia del
quarto libbro però non mi estendo piú quivi.
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[96] Geminasi medesimamente questa consonante regolar-
mente quando nelli passati tempi questo pronome mi posposto
è giunto al verbo, come parlommi, trovommi et ancho nelli pre-
senti come èmmi, fommi, fammi, stammi, dimmi: Petrarca:
Là 've dí e notte stammi,
Piovommi amare lagrime dal viso;
parlando vommi,
disse Dante. [97] Et in tutti li verbi sincopati delli passati tempi, come noi venimmo, noi leggemmo, noi vedemmo, in loco di leggessimo,
venissimo, di vedessimo; fummo di fossimo, come Dante nel canto X del Purgatorio:
Poi fummo dentro al soglio della porta,
et nel canto XXXIII dell'In[H2r]ferno:
Possa che fummo al quarto dí venuti,
et posto cosí in rima nel canto VII dell'Inferno:
Fitti nel limo dicon: «Tristi fummo»,
dandogli licentiosamente per concordante rima questo nome fu-
mo, il quale et nel latino et nel volgare con semplice m si scrive: Petrarca:
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ciò che poi vidi fu sogni, ombra e fumi.
[98] Et questa medesima geminatione in molti lochi di Dante
tra’ suo' versi mal posta si trova, come nel canto VIII:
se 'l fummo del pantan no’l ti nasconde,
et nel canto IX:
Per indi ove quel fummo è piú acerbo,
et nel canto XV:
Il fummo del ruscel disopra aduggia,
et nel medesimo canto:
Et ecco a poco a poco un fummo farsi.
Et tale errore hanno moltiplicato cosí gli stampatori per autto-
rità di quella rima. [99] Nella persona terza singolar fummi con
ragion dir si deve, sí come credo haver lasciato il Petrarca nel so-
netto CXCVIII:
fummi il Ciel et Amor men che mai duro.
Dante nondimeno questa nelle rime semplice sempre pone, co-
me nel canto X del Paradiso:
maestro fumi,
et nel canto XIII:
del poverel di Dio narrata fumi,
et altrove:
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Risposto fumi.
[100] Immagine et immaginar verbo et giammai et femmina si ri-
trovano scritti in antichi libri et da dottissimi moderni con m
geminato ad hora, et ad hora con semplice; medesimamente
commune, anchor che io ne l'ultimo segua l'uso, dal latino
non diforme. [101] Negli altri, ragion non veggio che con solo m
non si deggiano o al meno sanza riprensione non si possino
scrivere.
N
[102] Seguendo questa consonante la general regola dell'altre,
geminasi in compositione della prepositione precedente come, annoiare, annottare per farsi notte, sì come aggiornar per farsi giorno,
annuntiare, annidare, innanzi, innamorato et altri tali. come assanna-
re da questo nome sanna derivato, annoverare.
[103] Rinovellar, quantunque composito sia, si scrive con solo n,
come nel canto XXXIII dell'Inferno:
Tu vòi ch'io rinovelli,
et ne l'ultimo del Purgatorio:
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rinovellate di novella fronde.
La ragion di che, pò esser, si è perché, come dicemmo disopra,
quando questa particola ri preciede, in compositione la conso-
nante non segue geminata. Onde error di stampa esser diremo
nel canto XX del Purgatorio, ove si legge:
tu queste degne [H2v] lode rinnovelle.
[104] Et le terze persone del plural indicativo del presente et
del futuro, quando le terze persone predette dello indicativo del presente modo sono di due sillabe, come hanno, harranno; fanno, faranno; danno, daranno; ponno, potranno. Traggesi fuore la terza plural persona di questo verbo sono, che con n semplice si scrive
come la singolar, et dicesi io sono et quelli sono; et dimostralo
Dante cosí scriver doversi nel canto XV dell'Inferno, dicendo:
Nè per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni,
ponendo per concordanti rime suono et buono. Et nè dagli antichi
si trova posto, nè tra versi o prose de' dotti moderni altrimenti
scritto. [105] Nel plural del futuro, seguendo la norma degli altri,
have questa consonante geminata et scrivesi saranno. Et nel mo-
do imperativo nella singular seconda persona, come fanne, dinne,
danne; nel preterito, come enne et venne et fenni et tenne.
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[106] Tutti quelli nomi li quali nel latino hanno m dinanzi a n,
sí come sonno, autunno, scanno, et quelli che nel latino hanno tal consonante geminata. In sonno, non dico verbo ma nome, che
da' latini è detto somnus et quello che è detto somnium, sogno si
dice nella volgar lingua, et il verbo sognar: Petrarca:
sogni d'infermi,
et altrove:
sogni, ombre e fumi,
et:
quasi sognando;
et Dante:
Come è colui che 'l suo dannaggio sogna,
et sognando disidera sognare.
[107] Dunque diremo che error manifesto sia di stampa nel so-
netto che incomincia «Beato insogno e di languir contento»; nè sarebbe iscusatione dell'errore dire che fossono due parti, «in
sogno», et che 'l Petrarca non chiamava beato lo insogno ma sé
nel sogno, perché niuna delle seguenti parole di tutto il sonetto
si pò accommodar a sognante. Onde la vera lettura è, per mio
giuditio, et cosí credo lasciasse di sua mano il Petrarca scritto:
Beato i' sono et di languir contento,
Pagina 171
perché in tal modo il sonetto seguita bene, che legendosi «inso-
gno» nulla direbbe di corrispondente.
[108] Donna medesimamente have n geminato et, come che
per dinotatione di sesso solo talhora si ponga, è nome sincopato
da questa voce latina domina, et è nome di honore, come donno,
il quale è sincopato da domino. Et ciò chiaramente dimostra il Pe-
trarca in lochi infiniti, et [H3r] massimamente nel sonetto che in-
comincia:
Quando giunge per gli occhi al cor profondo
l'imagin donna,
cioè «signora», come volgarissimamente si dice; et non è caso
vocativo, nè sono parole dette ver' madonna Laura, come so-
gnando interpretano li commentatori. Onde nel canto XXVII del
Purgatorio diremo quelle stampe esser in ciò corrotte che dicono:
mi parea
dona veder andar.
[109] Donno pone il Petrarca nella canzone XLVII:
Per inganno e per forza è fatto donno
sovra miei spirti,
et Dante nel canto XXII dell'Inferno:
c'hebbe i nimici di suo donno in mano,
Pagina 172
et nel canto XXXIII:
Questi parea a me maestro e donno.
Geminasi questa consonante in questi nomi senno, quando
‘saper’ dinota, inganno nome et verbo, spanna. Anello alcuni con
questa consonante geminata scrivono, il che a me non piace per
la durezza della doppia geminatione in voce di tre sillabe; per schifamento della quale, come si pronuntia, cosí ancho scrive-
rassi Haniballe con solo n.
[110] Convenne et convennette, preteriti tempi di questo verbo
convengo, cioè ‘bisognami’, overo convegno, cioè ‘mi confaccio’, co-
me lo pone Dante nel canto ultimo dell'Inferno, dicendo:
et piú con un gigante io mi convegno,
ch’e giganti non fan con le sue braccia:
vedi hoggi mai quant'esser dee quel tutto
che a cosí fatta parte si confaccia.
Onde mi maraveglio che 'l Landino, il corrotto testo seguendo
che diceva: «io ti convegno», facesse cosí nuova interpetratione
contra la mente espressa dell'auttore, dicendo:
Io ti convegno, io ti convento et prometto che quello che si vedeva era
piú che un gigante.
Geminasi parimente in gonna.
Pagina 173
P
[111] Non partendosi questa dalla norma regolare dell'altre
consonanti, nella compositione si pone geminata, come appoggio,
appiglio, appresso verbo e nome, et appo che è di medesima signi-
ficatione. Dopo con sola consonante si scrive, come dimostra il Petrarca nel capitolo primo del Triumpho della Phama:
l’un giva inanzi e dui venivan dopo;
et Dante nel canto XXIII:
Taciti e soli sanza compagnia
n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo,
et altrove:
ma forsi riverente, agli altri dopo,
et cosí altrove; et nel mezzo de' versi in molti lochi, come nel canto XXII del Purgatorio:
gli altri dopo il grifon sen vanno [H3v] suso.
[112] Onde da corregersi diremo li lochi ove altrimenti è scritto,
come nel canto III del Triumpho dell'Amore:
et, come tardi doppo il danno intendo,
et nel sonetto CLXXI:
rimaner, doppo noi, pien’ di faville,
Pagina 174
et Dante nel canto XIV del Paradiso:
e cui sí cominciar, doppo lui, piacque,
et ne l'ultimo verso del canto XXVII:
e vero frutto verà doppo il fiore,
et cosí altrove.
[113] Appalesare, appropiare, appiattare, apparere e altri simili; ap-
puntare, verbo sí come nel canto VI del Paradiso:
Hor qui a la quistion prima si appunta
la mia risposta,
et come Petrarca pone, dicendo:
Mille trecento ventisette, apunto,
che nelle prose boccacciane appunto si legge.
[114] In questo verbo composito trapasso tra molti lodevoli
scritti veggio il p geminato; ma a me con semplice piú convene-
volmente parmi scriversi, perché, come di sopra dicemmo, re-
golarmente questa particola tra a sola consonante si propone, co-
me trabocco, traduco, trametto, traluno et altri simili. Et se 'l mi si op-
ponesse che in trapporto et traccorro pur cosí scritto si legge, direi
che non con questa particola tra ma con trans sono compositi,
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onde puote scriversi trascorro et trasporto, non transcorro nè trans-
porto; perché, come è detto nella prima regola della orthographia,
tra due vocali non si pongono tre consonanti, et si puote ancho,
anzi si deve, s mutar nella seguente consonante in tal composi-
tione et scriver traccorro et trapporto.
Geminasi medesimamente questa consonante nel prete-
rito perfetto di questo verbo so nello modo indicativo nella pri-
ma et terza persona, et scrivesi io seppi, colui seppe, et nel modo soggiontivo sappia et sappiamo et sappiate et sappiano. [116] Cosí la prima et terza persona singular del preterito dell'indicativo di
questo verbo rompo et medesimamente la terza del plural gemi-
naranno la consonante, scrivendosi io ruppi, quel ruppe, et quegli
ruppero, et cosí gli altri simili.
[117] Viluppo, et gli altri tali che hanno il p geminato nella per-
sona prima dello indicativo, cosí lo conserva per l'altre et per gli
altri tempi. Geminasi nelle seguenti voci: intoppo, gualoppo, zop-
po, opposito, appetito et in tutti li nomi et verbi dal latino descen-
denti che quella habbino geminata, perché nella volgar lingua si doppia in molti [H4r] nomi et verbi la consonante la quale si tro-
va scempia nella latina, ma di rado si scempiano le doppie; onde
oppenione, appena, seguendo gli antichi libbri toschi et secondo la
tosca pronuntia, scriveremo.
[118] Appellare con questa consonante (il latino in ciò seguen-
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do) doppia si scrive, et il medesimo rappellare, che ‘richiamare’,
dinota. Però che # oltre la signification vulgare di questo verbo,
che è ‘colui si appella’, cioè ‘si nomina’, come pone il Petrarca nel Triumpho della Castità, dicendo:
Era il grand'huom che di Africa si appella,
et Dante nel canto XIV dell'Inferno:
«In mezzo il mar siede un paese questo»,
diss'egli allhora, «che si appella Creta»,
et cosí in molti altri lochi # significa ‘provocare’ et ‘chiamare’; et
è tal verbo usato da' nostri antichi iure consulti in tal significatio -
ne con lo accusativo caso da poi, sanza prepositione. [119] Et in
tal modo usalo il Petrarca # la cui proffessione prima fu delle
leggi, come esso medesimo ne rende testimonianza nella canzo-
ne XLVII ove, in persona di Amor parlando, contra sé disse:
Quest'in sua prima età fu dato all'arte
di vender parolette, anzi menzogne #
nel sonetto XXVI ove dice:
et gli amanti pongea quella stagione
che per usanza a lagrimar gli appella.
[120] Quindi il verbo rappellare che ‘richiamare’ dinota, come nel-
la canzone XXXIII, dicendo:
et sosterrei,
quando il ciel ne rapella,
girme con ella in sul carro d'Helia;
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dove corrotte penso le corsive stampe, nelle quali con semplice
p tal verbo si legge nel detto loco.
R
[121] Non altrimenti nelli compositi si doppia questa che si
facciano le altre sopratoccate consonanti, come arresto, sorrido, ar-
rivo, arrischo et altri simili, et li sincopati dove intravene, come pa-
rerà, parrà; venirà, verrà; rimanerà, rimarrà; haverà, harrà; torrà, torrei; vorrà, vorrei; cosí nell'altre persone et altri verbi simili. [122] Et ge-
minasi in tutte le voci le quali si trovi nel latino geminate; et similmente, sincopandosi (come è in uso) questo nome honoran-
za, horranza: Dante nel canto IV dell'Inferno:
chi son costor c'hanno cotanta horranza?;
et poco innanzi havea detto che:
c'horrevol gente possedea quel loco,
cioè «honorevole», et altrove:
fosser le nozze horrevoli et intere.
[123] Aringo (per mio giuditio) [H4v] con solo r scrivesi, et cosí
ho veduto scritto in antichi libbri delle Cento novelle; et ‘corso’
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propriamente dinota, come lo auttore loro nel prohemio della
IX Giornata dimostra, dicendo:
Madonna, assai m'aggrada, puoi che vi piace, che per questo campo
aperto et libero, nel quale la vostra magnificenza n'ha messi, nel novel-
lar d'esser colei che corra il primo aringo;
[124] et Dante nel primo canto del Paradiso:
In sin a qui l'un giogo di Parnaso,
assai mi fu; ma hor con ambi dui
huopo mi è 'ntrar nell'aringo rimaso,
cioè la cantica del Paradiso che ha bisogno di molto maggior
dottrina et arte et ingegno che li precedenti dui; et chiamalo il
terzo corso, come, per metaphora, nel principio del Purgatorio:
Per correr miglior acqua alza le vele
homai la navicella del mio ingegno.
[125] Onde molto è lontana dal vero sentimento la 'spositione del Landino nel predetto loco, ove cosí dice:
Aringo in toscano significa ‘pulpito’ et ‘logo elevato’, onde noi dicciamo
ringhera. Adunque per similitudine chiama il giogo aringo,
perché # oltre che non possi quadrar al senso che per aringo in-
tenda il giogo, dicendo che con ambi dui gli era huopo entrare,
nel rimaso aringo # quel loco ellevato, che egli dice che cosí si
chiama per similitudine, dal corso si dice della oratione. Perché
in molti vocaboli il loco riceve il nome dalla cosa che vi si fa, co-
me contione che è il loco dove ascende l'oratore et la istessa ora-
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tione. Et per similitudine del corporeo corso si dice il corso della oratione et la oratione corrente; onde tal loco cosí sarà nominato da
aringo, cioè dal corso delle orationi le quali vi si recitano. [126]
Et che ‘corso’ propriamente dinoti, overo come dicono i napolitani, una carrera, dimostralo piú chiaramente il Boccaccio nello essor-
dio della novella del conte d'Anversa, dicendo:
Ampissimo campo è quello per lo quale hoggi spaciando andiamo, né
ce n'è alcuno che, non che uno aringo, ma diece non ci potesse assai
leggermente correre.
Et il medesimo dice altrove; ma questi essempi (a mio parer) so-
no bastevoli, onde piú non ne trascriverò.
S
[127] Doppia si ponerà questa lettera, come le precedenti,
quando sarà con prepositione composita, come assido, assecuro, as-
sal[H5r]to, et in gli altri simili, come assenno verbo, ‘fare altrui di
alcuna cosa saggio’ significante, come mostra Dante in persona
di Virgilio parlando nel canto XX dell'Inferno:
Però t'assenno, che se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi.
[128] Quindi assennato per savio et forsennato per stolto: Dante nel
canto XXX dell'Inferno, parlando di Hecuba, disse:
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Forsennata latrò sí come cane.
Et assannar verbo, che ‘mordere’ dinota et ‘tener co' denti fermo’, da sanna nome disceso: Dante nel preallegato canto:
et in sul nodo
del collo l'assannò, sí che, tirando,
grattar gli fece il ventre al fondo sodo.
Et assonnar che ‘adormentar’ significa, come dissonnare ‘svegliare’: Dante nel canto XXVI del Paradiso:
Et come al lume acuto si dissonna,
havendo altrove detto:
come huom che assonna.
[129] Et geminasi nelle voci nel latino geminantisi, o dove x vi
siam come fisso, Narcisso: Petrarca:
Ma s'i' v'era con saldi chiovi fisso,
et poi:
Certo, se vi rimembra di Narcisso;
Dante nel canto XXX:
che per leccar il specchio di Narcisso,
come che si legga tra’ scritti di lodevolissimo moderno scrittore
con solo s. Et quando b nel latino è dinanci da s, si gemina, come
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assolto; in questo nome messo quando per nontio si pone; assentio.
[130] Altressí per medesimamente male è stampato nelle corsive
lettere con questa consonante geminata nel canto XIX dell'Inferno:
Là giù cascherò io altressí quando
verrà colui,
perché con solo scriver si deve, et cosí in corretti testi si legge, et
è ragionevole.
[131] Cosí è medesimamente male impresso questo nome vi-
saggio con s geminato nel canto XVI dell'Inferno, ove si legge cosí:
rotando, ciascuna il vissaggio
drizzava a me,
perché da viso discende, che con solo s si scrive.
[132] Questo nome Thommasso con s geminato è posto in rima
da Petrarca nelli Triumphi et ancho da Dante, ma esso medesimo
nel canto XIV del Paradiso disse:
la gloriosa vita di Thommaso.
Ma, come disopra dicemmo, quello si pone in rima che altri-
menti non si ponerebbe.
T
[133] Questa consonante, non uscendo della regola dell'altre
sue compagne, geminata ven posta nel principio delle voci alle
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quali in compositione si proponga prepositione, come attuffare,
attentare, attristare, attempare, come lo pone il Petrarca dicen-
[H5v]do:
che a dir il ver, homai troppo m'attempo,
cioè ‘tardo’. In questo istesso modo Dante disse:
ché piú m'increscerà, com' piú m'attempo.
[134] Attuiare verbo con doppio t (per quanto a me ne paia) ‘intri-
care’ overo ‘offuscare’ dinota, secondo il sentimento di Dante
nel canto ultimo del Purgatorio ove dice:
Ma forse che la mia narration buia,
qual Themi et Sphinge, men ti persuade,
perché a·llor modo lo intelletto attuia.
[135] Ove il Landino, seguendo testo corrottissimo, legge «nec-
te e persuade» et «lo intelletto accuia», et interprettandolo
dice:
Perché infino a qui B. ha parlato con obscurità, però sobgiungne dicen-
do forse che la mia narratione è buia et tale quale necte, cioè congiungne
et conlega et persuade. Themi et Sphinge le qual davon le risposte loro sí
obscure che è necessario d'acutissimo interprete a intenderle, et è cosí
obscura la mia narratione perché epsa acuia, cioè s'assotiglia et fa assoti-
gliare lo 'ntellecto al modo loro.
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Queste sono le parole sue trascritte come esso le scrive; quanto
si convengano al vero sentimento, ognuno pò giudicare. Attorge-
re et altri simili seguono la norma.
[136] Geminasi medesimamente questa consonante nelle voci
dalle latine derrivanti nelle quali si trovi geminata, trahendone
lito, benché non manchino Latini che vogliano ancho nella la-
tina lingua scriversi con solo t.
[137] Geminasi nelle mutationi delle consonanti delle quali di-
cemmo nella prima regola della orthographia, come attivo, otten-
go, dotto et dotta quando ‘scientiato’ dinota et quando ancho ‘la te-
menza’, come pone Dante nel canto XXXI dell'Inferno:
et non v'era mestier piú che la dotta,
s'io non havesse viste le ritorte;
et quindi vene dottanza il medesimo significante. Et è il senti-
mento che la sola paura era bastevole a·ffar morire Dante, se
non si fosse rassicurato veggendo il gigante legato; onde la in-
terpretatione del Landino di questo nome, dicendo quello signi-
ficar ‘breve spatio’ et il senso esser che poco spatio manchava a
farlo morire, parmi non buona.
[138] Cittade nella canzone XXXIII male istà stampato:
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per citadi o per castella,
et cosí in altri lochi. Et Galeotto, altrettanto, in fino a·ttanto simil-
mente si scrivono; et mattino, onde mattinar, verbo dantesco; et
questi et simili verbi soggiontivi o imperativi, come «fatti in co-
stà», «vattene in pace», et cosí gli altri tali. [H6r]
X
Questa lettera, connumerata tra le semivocali, nella vol-
gar lingua è poco necessaria, perché in loco di lei s geminato tra
due vocali si pone; altrimenti in molte rime nascerebbe mala concordantia; come in concordar passo et saxo, fixo, Narcisso et al-
tri simili. Onde pessimo, massimo, tesso, reflesso si scriverà. Alcuna
volta in c geminato si tramuta, come eccellente, eccetto, eccettione
perché cosí è la volgare pronontiatione.
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Z
[140] Tra due vocali questa lettera si pone regolarmente gemi-
nata, come mezzo, sozzo, gravezza et altri tali, et dopo consonante
sola si pone sempre, come sanza, avanza et simili. Azurro, Obizo
nome proprio, Guizante nome di città traggonsi della prima re-
gola et alcuni altri simili. [141] Nel principio delle voci di rado si
usa, come zephiro, zoppo, zanca, zappa, zaphiro, zanzarra, zelo nel significato che il Petrarca lo pone nel capitolo II del Triumpho
della Morte:
Quinci il mio zelo,
et come altri nel latino; ma geloso si dice, non zeloso.