dato in giudicio sopra molte regole della lingua italiana esaminato da Ferrante Longobardi, cioè dal P. D. B
Autore:
Ferrante Longobardi, cioè il P. D. B | Bartoli Daniello
La numerazione delle pagine fa riferimento all'edizione moderna di Bozzola 2009.
A
A si è alle volte posto soverchio v.g. «Ahi dolente a me», p. 422.
Abbenché non ha esempio, né vuole usarsi, p. 248.
Abbisognare si truova col quarto caso, p. 403.
Accenti, come vogliano usarsi, p. 59.
Accento de’ preteriti imperfetti, amavamo, leggevamo, havevamo etc., secondo gli esempi de gli antichi, de’ posarsi sopra la penultima sillaba, e dire amavàmo etc., p. 338.
Accento, col trasporsi, muta alcune vocali ne’ verbi debbo, esco, odo, p. 183.
Accento discioglie i dittonghi quando passa da essi più innanzi, v.g. si dice suona e siede, ma non suonava e siedeva, p. 184.
Acciò mal si adopera per ad hoc ut, dovendosi dire accioché, p. 31.
Accorciar non si dee la prima voce di niun verbo, salvo quella d’essere, p. 217.
Adulare ad alcuno ha buoni esempi, p. 408.
Adesso per ‘hora’ e ‘subito’ è ottima voce, p. 403.
Aere è ottima voce e d’amendue i generi, p. 340.
Affissi mi ti si etc. non raddoppian la consonante quando si aggiungono a voci tronche, v.g. non si dirà levammi per mi levai, ma levami, e così di tutti gli altri, p. 83.
Aggettivi ben tramezzati da’ sustantivi, come a dire «Pieni di tanta meraviglia e di così nuova», p. 113.
Aggettivi bene adoperati in forma d’avverbio, come «Rado interviene», «Bianco vestita» e simili, p. 178.
Aiutare si truova col terzo caso, p. 323.
Alcuna cosa è ben detto in vece d’un poco, p. 63.
Altresì può stare in principio di periodo, p. 296.
Altri pronome si adopera in tutti i casi, non solamente nel retto, p. 222.
Altro per lo pronome altri è fallo, ivi.
Altrui in caso retto ha di buoni esempi, ma meglio è astenersene, p. 223.
Ambasciata non significa solamente quel che dice l’ambasciadore, p. 345.
Ambi, ambo, ambe, ambidue, ambedue appena hanno esempi in prosa antica, p. 410.
Ammalarsi ha esempio, p. 384.
Anche è miglior voce che anco, p. 131.
Andare ha più volentieri andrò, andrai etc. che anderò, anderai etc., p. 52.
Andare da uno per «ad uno» è ben detto, p. 391.
Appo non si dà solamente a persone, ma ancora a cose, p. 253.
Appostatamente non vale solamente ‘apposta’, ma ancora l’apposite de’ Latini, p. 352.
Aprì preterito è ben detto, non solamente aperse, p. 220
A pruova significa ‘a competenza’; può ancora significare ‘per pruova’, p. 402.
Aquamorta, Aquaviva e simili ben detti, p. 280.
Arbore si truova in genere feminile, p. 358.
Ardire, osare e credere si sono usati con di e senza, p. 136.
Arena e rena, arenare e arrenare, tutto è ben detto, p. 399.
Articoli, non si debbono necessariamente replicare ad ogni nome, ma un solo ne può regger molti, p. 146.
Avvegnaché non sempre obliga al soggiuntivo, p. 218.
Avverbi coll’articolo, p. 312.
Avverbi, non si debbono spezzare, dicendo v.g. «Chiara e distintamente» etc., p. 35.
Avverbi, si adoperan come aggettivi, e aggettivi come avverbi, p. 178.
B
Bandire non è ‘mandare in bando’, ma ‘publicare’, p. 263.
Battaglia si truova detta di due soli combattenti, p. 275.
Benissimo avverbio, forse non ha esempio, p. 248.
Bisognevole è ciò che fa bisogno, non chi ha bisogno, p. 192.
C
Caggio ancor in prosa da caggi, caggia, caggiano, p. 419.
Cale e calere mal si adoperan come nomi; son verbo, ed hanno altri tempi, p. 241.
Capire appena ha esempio d’attivo appresso gli antichi, i quali han detto «La tal cosa cape nella tale», non «La tal cosa cape la tale», p. 400.
Capo per ‘guidatore’ si dice ancora di molti, p. 249.
Carcere è d’amendue i generi, p. 147.
Causa e causare sono cosa diversa da cagione e cagionare, p. 353.
Celeste è ottima voce in prosa, p. 406.
Ci avverbio vale ancora per ne, da, di, p. 224.
Ci avverbio si dà a cose presenti, vi a lontane, p. 269.
Ciascheduno è ottima voce, e del Boccacci, p. 160.
Cielo usato porsi con di, da etc. in vece di del, dal etc., e così d’altri nomi, p. 189.
Che si è adoperato per in che, p. 422.
Che accompagnata col dimostrativo dove parrebbe doverlesi il soggiuntivo, p. 376.
Che stranamente accordata coll’infinito, p. 51.
Che che pericolo ne corra è stato detto, p. 230.
Chi si è dato al plurale, «Chi pensano», «Chi tolgono» etc., p. 353.
Chiedere si truova col sesto caso, p. 357.
Chiunque si è dato non solamente a persona, ma ancor a cosa, né però è da usarsi, p. 405.
Cognomi, amano d’esser terminati in i, ma non sempre, p. 129.
Come può accompagnarsi col primo e col quarto o sest caso, e dire come io e come me, p. 108.
Come che non significa ‘percioché’, ma ‘benché, ancora che’ etc., p. 31; tal volta vale per ‘comunque’, p. 34.
Compianto è ancora d’un solo, p. 275.
Compositione e componimento, in che differiscano, p. 388.
Concesse e concesso per concedé e conceduto ha esempi di prosa, p. 355.
Conciosia cosa che e con ciofosse cosa che non sempre obligano al soggiuntivo, p. 219.
Confidarsi si truova col terzo caso, p. 386.
Con il, con li, con i, co i non sono più in buon uso, p. 113.
Con la, con le etc. e colla, colle etc. è ugualmente ben detto, p. 348.
Contento nome sustantivo ha esempio, p. 34.
Contro e contra, non è regola certa che quella serva solo al secondo e terzo caso, questa al quarto, p. 48.
Con tutto che, cioè ‘benché’, si può dare al dimostrativo, p. 354.
Con tutto che, con tutto, tuttoché e tutto sono un medesimo avverbio; con che tempi si accompagnino, p. 134.
Convenire verbo ben si accorda co’ sustantivi, come a dire «Conviensi l’huomo confessare» etc.; così ancora divenire e penare, p. 126.
Costà si è adoperato per colà in certi modi di favellare, p. 404.
Costì, costà e cotesto si debbono al luogo e alle cose del lontano con cui si parla; pur cotesto si truova usato altramente, p. 242.
Costui ben si adopera senza di in secondo caso, e ancora colui, p. 56.
Credere, vedi ardire.
Cui, secondo e quarto caso, ben si scrive in prosa senza articolo, p. 56. Nel terzo caso è più de’ poeti, ivi; cui in primo caso ha esempi da non imitare, p. 58.
D
Da poi è avverbio, e mal si usa come prepositione, e vuol dopo sé il che, p. 39.
Debbe per debet è ben detto, p. 302.
Degnare appena ha esempio antico d’altro che neutro, p. 346.
Deliberare una cosa ha esempio, p. 358.
Del sì, del no etc. ottimamente si dice, p. 338.
Denno per debbono ha esempio in prosa, ma non è da seguitarsi, p. 332.
Dentro e di fuori è meglio che di dentro e fuori, p. 120.
Derogare si truova col quarto caso, p. 358.
Devo, devi, deve etc. ha molti esempi, p. 109.
Dich’io per dico io si truova usato, p. 131.
Dici per di’ ha esempi in prosa, p. 219.
Dierono è ben detto per dederunt, p. 354.
Di fatto non significa solo ‘subitamente’, ma ancora quel che suol dirsi de facto, p. 362.
Di già appena ha esempio d’antico, p. 219.
Di lui, di lei etc. per suo, come si truovi usato e come no, p. 279.
Dimostrativo adoperato dove parrebbe doversi il soggiuntivo, p. 195.
Di presente non significa ‘al presente’, ma ‘subito’, p. 288.
Divenire, vedi convenire.
Diventare è buona voce, p. 343.
Dopo è prepositione e non vuole il che dopo sé; né si scrive doppo, né dopò, p. 37.
Dovere si dice, e non devere, perché l’accento non preme la prima e, p. 164.
Dovitia è ‘abbondanza’, dovitie vale ancora per ‘ricchezze’, p. 345.
E
Eclissi è di genere mascolino, p. 297.
Egli ed ei possono adoperarsi per eglino, cioè darsi al plurale, p. 165.
Ella, elle, elli son casi retti, benché usati da’ poeti come obliqui, p. 90.
Empiere, compiere etc. han l’accento nella penultima sillaba; empire, compito etc. hanno esempio, p. 317.
Enfiare si può usare attivo, p. 341.
Esempio ed esempi per esemplo ed esempli è ben detto, p. 374.
Essere verbo, in tutti i tempi ammette dopo sé il quarto caso, p. 109.
Esso a modo d’avverbio non si muta, e mal si dice con essa lei, con essi loro, p. 35.
Et è stata in uso a gli antichi, come hora ed o e, p. 142.
F
Faccio per fo ha qualche esempio in prosa, p. 218.
Fallare non val solamente mancare, ma ancora errare, p. 188.
Fenno per fecero ha esempio in prosa, ma non è ben detto, p. 333.
Fiata è di tre e di due sillabe, p. 262.
Fidare e confidare usati neutri, fuori dell’ordinario, p. 343.
Fido ha più d’un esempio in prosa, p. 344.
Figliuoli si dice ancora delle femine, p. 62; figlio è più del verso, p. 63.
Finita è nome come uscita, partita etc., p. 260.
Fiorenza è den detto, Firenze meglio, perché più usato, p. 230.
Frutta in plurale ha esempio, p. 359.
Fussi e fossi etc. è ben detto, p. 127.
G
Garrire si truova col terzo caso, p. 319.
Gerondi assoluti col primo e col sesto caso che ammettono in più modi, p. 90.
Gerondi posti senza affisso e per qual cagione, p. 161.
Gerondio ben si pone in forza di participio, v.g. «L’uccise dormendo» in vece di dormente, p. 34.
Gesti per ‘atteggiamenti’ ha un esempio d’antico e molti di moderni, p. 379.
Gioventù è voce vecchia e buona, p. 214.
Giusto prepositione si suol dare al maschio, giusta alla femina, p. 222.
Gli pronome mal si dà al terzo caso plurale, e male a cosa di genere feminino, ancorché singolare, p. 125.
Gli non si apostrofa innanzi a parola che non cominci da i, p. 128.
H
Habituro è buona voce e serve ancora a palagi e corti, p. 261.
Havere ed essere tal volta si tacciono dove parrebbe necessario l’esprimerli, p. 238.
Havere posto per essere si dà singolare anche al plurale e non altramente, p. 312.
I
I può raddoppiarsi e no ne' preteriti de' verbi della quarta maniera, e dire io udì e io udii, p. 146. Non si vuol raddoppiare nel plurale a' nomi il cui singolare finisce in io d'una sillaba sola, né dire specchii, occhii etc., p. ivi.
Iddio ben si adopera in tutti i casi, p. 102.
Il usato d'antiporsi a mi, ti, vi, etc. v.g. «Il vi dirò» per «Vel dirò», p. 343.
Il perché si è detto in vece di per lo che, del quale non v'ha esempio, p. 198.
Il più come ben si adoperi in diversi modi, p. 101.
Impaurire ben si adopera attivo, p. 298.
Impoverire si è adoperato attivo, p. 374.
Inchinare neutro si truova col terzo caso, p. 220.
Infinito si fa nome, etiandio in plurale, p. 221.
Infinito di verbo attivo adoperato in forza di passivo senza affisso, v.g. «Fu condannato a impiccare», cioè ad essere impiccato, p. 75.
Infinito riceve il primo e 'l quarto caso, e quel che sia da osservare nel darli, p. 234.
Intento n.s. ha esempio in prosa, p. 384.
Intervenire si dice ancor bene intravenire, p. 373.
Intramettersi, tramettersi etc. vogliono il secondo caso, p. 300.
Invidiare alcuno appena ha esempio, in vece d'invidiare alcuna cosa ad alcuno, p. 229.
L
L non de' terminare le voci che l'hanno nel plurale, né dir v.g. «I giovanil furori», p. 201.
La per ella si truova usato, p. 275.
La e lo antiposti a mi, ti, ci, si etc., v.g. «La vi dirò» per «Ve la dirò», p. 342.
Lasciamo stare può valere ancora per 'non solamente', p. 313.
Le usato dagli antichi in vece di lo non è da volersi più adoperare, p. 141.
Legna in plurale ha esempio di prosa, p. 359.
Lì e là sono indifferenti a stato e a moto, p. 216.
Lui per a lui, come cui per a cui si truova usato, p. 298.
Lui, lei, loro non sono da usarsi in caso retto, essendo obliqui, p. 88.
Lungo prepositione ben si può dare a persona, e «Lungo il mare» v.g. si dice non di chi va per mare, ma sul lito, p. 309.
M
M in fine delle voci tronche tal volta si ritiene, tal altra si muta in n, p. 202.
Mai non significa numquam, ma unquam; a far che nieghi convien dire non mai, p. 40; se già non vi fosse altra particella negante, p. 44.
Malamente non significa solo 'crudelmente', ma ancora 'male', p. 305.
Mandar dicendo, mandar pregando etc. è ottimamente detto, p. 86.
Mangiare e bere si è più volentieri usato senza da, «Dar mangiare», «Dar bere», p. 79.
Massime avverbio appena ha esempio, p. 110.
Medesimo ben si adopera in forma d'avverbio, non accordandolo al genere del luogo a cui si dà, p. 60.
Medesimo si truova non accordato, né in genere né in numero, ma non vorrebbe usarsi, p. 371.
Medesimo è idem, stesso è ipse, ma non sempre, p. 165.
Mediante avverbio si può dare ancora al plurale, p. 306.
Messe, sottomesse etc. preteriti per mise, sottomise etc. si truova, p. 313.
Mezzo a maniera d'avverbio, dato a cosa di genere feminile, è ben detto, v.g. «Un’hora e mezzo», p. 341.
Minacciare si truova col terzo caso, p. 287.
Molti forti per molto forti e simili è ben detto, p. 160.
Morse è preterito di mordere, non di morire, p. 106.
Motteggiare si truova attivo, p. 353.
Muovere ben si adopera neutro assoluto, p. 294.
Muto per mutolo ha esempi di prosa, p. 218.
N
Navilio sono molti legni insieme, p. 181.
Né non non vale più che né solo, p. 230, 339.
Nessuno è ottima voce, p. 301.
Niente si adopera a significar 'qualche cosa', p. 230.
Niuno può significare 'alcuno', p. 230.
Noce arbore si truova in genere feminile, p. 320.
Nomi usati in amendue i generi, p. 178.
Nomi mascolini in ore adoperati con cose di genere feminile, p. 233.
Nomi che significan moltitudine ricevono il verbo in plurale, v.g. «La gente che v'erano», p. 192.
Nomi in singolare e in plurale posti insieme ricevono il verbo accordato con qual d'essi si vuole, p. 285.
Nomi di maschio e di femina posti insieme, qual regola servino nell'accordar quel che siegue coll'un d'essi, p. 188.
Non in molti luoghi si adopera senza nuocere né giovare, p. 354.
Non che non ha sempre forza avversativa e di negatione, p. 369.
Non per tanto non vale 'non perciò', ma 'nondimeno'; pure il primo ha esempi, p. 113.
Nudo per ignudo ha molti esempi di prosa, p. 218.
O
Ogni si truova dato al plurale, ma non è da usarsi, p. 248.
Ogni si può apostrofare davanti a ogni vocale, p. 128.
Ogni cosa riceve il genere mascolino, v.g. «Ogni cosa è pieno», p. 192.
Ogni Santi e Ognissanti, specolatione da nulla a distinguerli, p. 246.
Ognuno non è solo di più insieme, e può adoperarsi per ciascuno; e similmente ogni, p. 61.
Onde avverbio, adoperato per di cui, de' quali e simili stranamente, p. 81.
Ormai per omai e oramai si truova usato, p. 220.
Osare, vedi ardire.
P
Parete non è di genere mascolino, p. 377.
Parole disusate da fuggirsi, p. 136.
Particelle gli, chi, che, sì come etc. stranamente accordate, p. 47.
Participare si truova col quarto caso, p. 298.
Participi assoluti ammettono il primo e ’l secondo caso, p. 96.
Participi preteriti retti dal verbo havere si accordano volentieri col nome, ma possono ancor discordare in genere e in numero, p. 152; il medesimo è de’ retti dal verbo essere, p. 156; il medesimo è ancora degli assoluti non retti espressamente né da havere né da essere, p. ivi.
Participi d’alcuni verbi ricevono l’essere in maniera oggi strana, p. 116.
Participi, quali richieggano il verbo havere e quali l’essere, e quali accettino l’uno e l’altro, p. 206.
Participi potuto e voluto innanzi all’infinito, quando vgliano l’essere e quando l’havere, p. 211.
Partire per discedere si è usato neutro passivo e neutro, coll’affisso e senza, p. 294.
Pater nostri, ave marie, credo in Deo sono ben detti, p. 103.
Penare, vedi convenire.
Perdere non dà nel preterito perse, ma perdé, p. 106.
Per lo e per il, come si debbano usare, p. 196.
Però non vale solamente ‘per ciò’, ma ancora ‘nondimeno’, p. 283.
Per quello che più volentieri si accompagna col sggiuntivo che col dimostrativo, p. 356.
Persona il quale e simili è ben detto, p. 355.
Per tutto Italia e per tutta Italia, l’uno e l’altro è ben detto, p. 144.
Piovere adoperato attivo, p. 78.
Pochi honesti costumi e simili è ben detto, p. 161.
Poco meno è ben detto per ‘quasi’, p. 369.
Por mente si è usato assai col quarto caso, oltre al terzo, p. 308.
Porta e uscio usati indifferentemente, p. 242.
Possendo si è molte volte usato in prosa per potendo, p. 380.
Presto avverbio è ben usato, p. 112.
Preteriti de’ verbi, come si formino: se ne danno regole o modi dalla p. 179.
Preteriti della prima maniera de’ verbi, ben si adoperano scemi, levandone una sillaba, v.g. dimentico per dimenticato, uso per usato etc., p. 226.
Primogenito si muta col genere e col numero, p. 63.
Promesse per promisit si truova, p. 313.
Promettere si è adoperato per ‘minacciare’, p. 223.
Protestare de’ dirsi, non protestarsi, p. 167.
Puonno per possono ha esempio in prosa, ma non vuole usarsi, p. 333.
Puote non è preterito, ma presente, p. 120.
Pure usato di posporsi a varie particelle, p. 342.
Q
Qualche col plurale ha un esempio, p. 248.
Qualunque si è dato al plurale, p. ivi.
Quanto che è ottimo e vale ‘ancorché, benché’ etc., p. 338.
Quantunque è certo che si è usato e può usarsi avverbio, p. 168.
Quello il quale si truova posto per illud quod, p. 171.
Questo si può dare a cosa altrui ma presente, v.g. «Queste tue lagrime», p. 292.
Questo e quello sustantivi in vece di questi e quegli non sono da volersi usare significando persone; e pur come possa salvarsi, p. 175.
Qui non serve solo a stato, ma ad ogni maniera di moto, p. 217.
R
Richiedere ad alcuno alcuna cosa è ben detto, p. 361.
Rinuntiare all’uficio etc. è ben detto, p. ivi.
S
S innanzi ad altra consonante in principio di parola, che servitù metta, p. 205.
Salvo, salvo che, salvo se, tutto è ben detto, p. 144.
Sanare si truova neutro e può usarsi, p. 341.
Saramento, non sacramento, si è detto per ‘giuramento’, p. 59.
Scordare per ‘dimenticare’ è buona voce dell’uso, ma senza esempio antico, p. 304.
Sdrucire e sdruscire non significa solamente ‘scucire’, p. 108.
Se, seconda persona del verbo essere, è più regolato che sei o se’, p. 173.
Se bene avverbio è cosa moderna, p. 219.
Se non fosse è meglio detto che se non fosse stato, p. 224.
Senza più non significa ‘dopo, appresso, etc.’, ma quel che suona, p. 52.
Signoreggiare si truova col terzo caso, p. 319.
Sii e sia in seconda persona è ugualmente ben detto, p. 111.
Simile è ottima voce in prosa, p. 392.
Sincopare le voci è lecito ancora a’ prosatori, v.g. vivrò, sgombrò, oprare, cadrà etc., p. 306.
Sì veramente si truova bene accompagnato col dimostrativo, p. 335.
Soffrì per sofferse ha buoni esempi, p. 181.
Sol per sola, v.g. «Una sol volta», si danna di solecismo, p. 201.
Sovràsta e soprastà, contràstano e contrastànno, se e come si truovino usati, p. 371.
Sparto è della prosa altresì come sparso, p. 223.
Sperare si è adoperato per temere, p. 219.
Succedere si dice ugualmente bene della cosa e della persona, p. 337.
Succedere per ‘avvenire’ in buona lingua è sol delle cose che vengon dietro, non di tutte quelle che avvengono, p. ivi.
Suoi per loro ha moltissimi esempi, ma meglio si fa non imitandoli, p. 173.
Superlativi, si sono usati con particelle d’accrescimento, v.g. «Molto ricchissimo» etc., p. 172.
Superlativo, si truova col secondo caso, p. 347.
Supplire si truova col terzo caso, p. 319.
Sustantivi de’ quali l’uno è come cosa dell’altro posson ricevere il medesimo e diverso articolo, e dirsi v.g. «La statua di marmo» e «del marmo», p. 168.
T
Talento significa ‘volontà, appetito etc.’; forse ancora ‘abilità, attitudine’, p. 345.
Tanta poca gente e simili è ben detto, p. 160.
Templo, v. esempio.
Terminatione de’ preteriti in aro e iro, v.g. amaro, usciro, sta bene ancora in prosa, p. 289.
Terminatione de’ tempi passati in ia, v.g. udia, servia, seguia, e ameria, havria, potria etc. fu molto in uso a’ prosatori antichi ed è buona, p. 170.
Terminatione in emo nel presente de’ verbi della seconda maniera, come semo, havemo, dovemo etc., è ottima, p. 158.
Terminationi straordinarie di nomi nel plurale, v.g. le arcora e le membra, p. 277.
Testimonio vale ancora per ‘testimonianza’ e può dirsi dar testimonio etc., p. 290.
Timido si truova per ‘da temersi’, come pauroso è chi ha e chi mette paura, p. 299.
Trarre dà nell’imperativo trai, p. 349.
Trasandare adoperato attivo, e se debba dirsi trasvada o trasandi etc., p. 309.
Tratto per ‘maniera’ ha esempi antichi, p. 421.
Trave ha un esempio di feminino, p. 377.
Tristezza è ben usata per ‘malinconia’, p. 232.
Troncamento, con quali maniere di voci possa usarsi, p. 199.
Troppi larghi parti per troppo è ben detto, p. 160.
Tutti e tre, tutti e quattro etc. usato dirsi da gli antichi e ben detto, p. 83.
Tutto dì, tutta gente e simili è ben detto, p. 378.
V
Varietà grande e lecita in moltissime voci e modi, p. 134; se ne allegano autorità di scrittori, p. 351.
Vascello è voce moderna e buona, p. 107.
Vdire si dice, non odire, perché l’accento ch’era su l’o d’odo è passato innanzi, p. 356.
Venire da uno per ad uno è ben detto, p. 349.
Verbi impersonali piovere, tonare etc. adoperati attivi, p. 78.
Verbi che d’attivi divengon neutri, di neutri attivi etc., se ne apportano molti, p. 267.
Verbi, alcuni accettano indifferentemente il secondo e ’l sesto caso, p. 245.
Verbi che servono alla memoria, hanno una lor maniera singolare, p. 347.
Verbi che traspongono l’l e l’n, tolgo, togli, piango, piagni, che regola habbiano, p. 58.
Verbi scorrettamente usati in diversi lor tempi:
non si de’ dire io amavo, leggevo, udivo, ma io amava, leggeva, udiva etc., p. 50;
non quegli amorono, studiorono, imparorono etc. della pri$
ma maniera de’ verbi, ma quegli amarono, studiarono etc., p. 51;
non io amarò, studiarò, impararò etc. della medesima prima maniera, ma io amerò, studierò etc., p. 82;
non noi ameressimo, leggeressimo, udiressimo per amaremus, legeremus, audiremus, e così di tutti i verbi, ma noi ameremmo, leggeremmo, udiremmo etc., p. 80;
non noi amassimo, leggessimo, udissimo, per amavimus, legimus, audivimus e così de gli altri, ma noi amammo, leggemmo, udimmo etc., p. 81;
non ch’io legghi, dichi, habbi, facci etc. e che legghino, dichino, habbino, faccino etc., ma ch’io legga, dica etc., leggano, dicano etc., e così di tutti i verbi che non sono della prima maniera, p. 84;
non io sarebbi, vorrebbi etc., per io sarei, vorrei etc., p. 240; non se voi volessi, credessi etc., e se volessivo, credessivo, etc., per se voleste, credeste etc., p. ivi;
non voi amavi, voi credevi, vedevi etc. per voi amavate, credevate etc., p. 241;
non cercono, guardono, amono etc. della prima maniera, come fossero delle tre altre, p. 242;
non credano, odano, temano per credunt, audiunt, timent, come fssero della prima maniera, p. ivi;
non noi vissimo, vidimo, hebbimo etc. per vivemmo, vedemmo, havemmo etc., p. ivi;
non vi m’amasti, voi l’uccidesti, voi mi dicesti etc. per voi m’amaste, voi l’uccideste etc., p. ivi.
Verbo in singolare ben si dà a cose in numero plurale, v.g. «Fu tagliate le teste a molti» etc., p. 265.
Vero sta bene non accordato né in genere né in numero, p. 341.
Veruno può valere per ‘niuno’, p. 135.
Vestigia ha qualche esempio in prosa, p. 359.
Vi avverbio, vedi ci.
Vicinanza vale ancora per ‘prossimità’, p. 362.
Voci italiane, quali sieno da potersi usare, se ne parla a lungo p. 320 etc.
Voci del genere feminile, accresciute divengono maschie, v.g. lettere dà letteroni etc., p. 335.
Volsi è preterito del verbo volgere, non di volere, che dà volli, volle, vollero, p. 86.
Voluto e potuto: innanzi all’infinito, quando vogliano l’essere e quando l’havere, v.g. non ho potuto o non son potuto passare, p. 211, etc.
Vorrei e vorrebbe si è detto per havrei e havrebbe voluto, p. 225.
Vsare si è usato ancora col secondo caso, p. 370.
Vscire si dice, non escire, perché l’accento ch’era su l’e d’esco è passato innanzi, p. 163.
Vscire si è usato molto più col secondo caso che col sesto, p. 171.
Vuo’ per voglio è mal detto; il suo accorciato è vo’, vuo’ è di vuoi, p. 226.
Z
Z e t, ragioni pro e contra amendue, p. 63.
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Il torto e ’l diritto del non si può
dato in giudicio sopra molte regole
della lingua italiana
esaminato
da Ferrante Longobardi
cioè dal P.D.B.
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a’ lettori
[1]Se le parole, sopra la cui finezza, proprietà e valore v’ha di quegli che tal volta s’azzuffano e vengono alle mani, fossero composte di lettere tolte non da questo povero e avaro nostro alfabeto, ma da quel ricco e liberale dell’imperador Carlo Magno raccordato da G. Villani, che per recare in più alto pregio le lettere e in più degno essere i letterati, tante badie fondò quante sono nella lingua vocali e consonanti, e a ciascuna lettera la sua propria badia assegnò, niuna lasciandone che magnificamente dotata non fosse; ragionevol cosa sarebbe il muover lite sopra la proprietà e l’uso di così fatte parole, che havrebbono tante badie quante lettere, e metterne, bisognando, la causa, non già come molti fanno l’avversario, in ruota. [2]Ma s’elle sono una così lieve cosa, che per sentenza de’ giuristi, colà ove trattano De acquirendo rerum dominio, etiandio se scritte con finissimo oro macinato, elle pur soggiacciono alla proprietà e sieguono la conditione di quel misero foglio che le riceve quando si formano e le presenta quando si leggono; perché tan-
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to contenderne e battagliar per esse, fino a mettere Parnaso in fortezza, Apollo in armi, le muse in campo, e voltar le penne in saette e i sacri plettri in fulmini da ferirsi?
[3]Troppo son note al mondo le orribili mischie che si sono appiccate fra oratori e poeti di chiarissima fama, costretti a gittarsi gli uni di dosso la toga, gli altri di mano la cetera, e in arnese di puri grammatici entrare in isteccato per quivi, su gli occhi di tutto il mondo, mantenere a punta d’armi in duello l’onor d’una parola, e tal volta ancora d’una invisibile sillaba, contra chi havea presunto di svergognarla; menandosi in sul capo a due mani i Danti, i Villani, i Boccacci, i Petrarchi, i Crescenzi,
i Passavanti per più sicurezza de’ testi, cioè per più finezza dell’arme, non questi nostri moderni, messi dilicatamente in sopravesta di pecora, ma quegli antichi, legati in due assi di faggio tempestate di sì rilevate e forti borchie di ferro che triste l’ossa dove guingevano. [4]Strana in vero e poco dicevole maniera d’armeggiare, di cui quei medesimi che l’usavano si sarebbono vergognati, se non che pur anche fino a’ tempi d’Omero certi per altro valentissimi cavalieri, tal volta, poste giù l’armi, venivano alle pugna. [5]Il peggio si è de’ lividori e de’ fregi onde alcuni d’essi, ancora oggidì, stanno su le facce de’ libri bruttamente svisati.
[6]Hor chi attizza, chi disfida, chi mette insieme alle mani huomini nati alla pace e al santo otio delle muse, se non quell’inquieto e temerario non si può che certi portano sempre a lato come la Discordia il corno, e in udire o leggere qualunque sia componimento
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di chi professa o mostra alcuna cosa di buona lingua, aguzzate le ciglia (disse Dante) «come il vecchio sartor fa nella cruna», e contorto due e tre volte il muso, gli dan di piglio, e a ogni poco, sonando, intuonano sì che assordano il mondo: non si può? [7]La tal parola non è, né fu mai, della lingua, e la cotal altra non ci vien da buon secolo; questa forma di dire il Boccacci, il Petrarca, toglia Iddio che mai l’havessero usata; e quell’altra i purgati orecchi d’oggidì non la sofferano; questa maniera poi di scrivere, per decreto di quegli che sanno, è sbandita. [8]E di sì fatti modi, quanti ne posson venire in bocca di chi ha per altrettanto il sententiare che il dire.
[9]E chi fu egli mai quel valente huomo (se pur mai fu) che per mettere in funesto augurio il Tasso, dicono che si die’ vanto di provare in faccia al sole, etiandio di quel giorno che fa essere tutto un anno bisesto, che il buon Torquato, il cieco Omero italiano, in entrando nella prima stanza della sua eroica Gerusalemme, inciampò alla foglia; e poi dentro, quanti passi vi diede, tante cadute vi fe’, cioè quanti versi,
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tanti errori di lingua? [10]Impresa da potersene coronare imperadore dell’Alta e della Bassa Grammatica! [11]Da un sì possente avversario vinta la porta della indarno liberata Gerusalemme, ella di nuovo fu sottomessa e schiava. [12]A un sì terribil fulmine, non di tre sole, come gli ha Giove, ma d’otto punte, scoccato contro alla testa di quell’impareggiabil Poeta, non ostante il privilegio che l’alloro hebbe dalla natura di non esser tocco da’ fulmini, ne fu percossa, secca, arsa, incenerata la laurea con che le muse d’Italia l’haveano coronato, per onorare la poesia anzi che lui, che della sua medesima opera si corona.
[13]Hor non v’ha egli così ben nelle lettere come negli stati i suoi Principi d’assoluto dominio, che possono batter moneta e farla correre almeno sul proprio loro? [14]Così può dirsi, col maestro dell’arte, il dare non
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solamente il corso e l’uso, ma dove anche il volessero il primo essere a parole e a forme di dire che altri per avventura non adoperò; [15]o il mettere in più libertà alcune voci e modi che spesso ci vengono alla penna, traendoli fuor delle angustie dove le scritture de gli antichi, tal volta troppo scarse e povere, ce le han lasciate, o l’arbitrio di certi che s’hanno assunta la podestà di decretare e far regole, ce le han poste.
[16]Que’ savi e discreti accademici che compilarono il Vocabolario della Crusca (di che la lingua nostra non ha in cotal genere cosa migliore; né ’l vincerà, cred’io, se non egli sé medesimo, nato gigante, ma nondimeno per crescere e ingrandire, come a suo tempo farà) v’han registrato, oltre alle voci de’ buoni autori, una dovitia di quelle dell’uso. [17]Ottimamente: che in fine l’uso anch’egli fu che diede a gli autori quelle che hora citiamo per via d’allegationi e di testi. [18]E certo così elle, come i nuovi e bei modi delle varie proprietà o costruttioni che sempre si sono iti aggiungendo a gli antichi, non nacquero a uno stesso aprir di bocca, in bocca di tutto insieme un popolo, ma vi s’andarono diffondendo a poco a poco, e alcun primo ne fu il ritrovatore; e il poterlo fare non fu privilegio del tempo in che egli visse, ma gratia del sapere che v’adoperò. [19]Così trovati d’uno in altro si sparsero e non tutti ugualmente: che certi si rimasero in bocca del volgo, vivi sol quanto e dove si parlano; altri, accertati con quelle ragionevoli cautele che il cavalier Salviati bene osservò, e messi in iscrittura da’ più valenti maestri che habbia havuti quest’arte di favellare, a tutto il mondo si publicarono.
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[20]Hor a cercar la cagione ond’è che alcuni han sì pronto alle mani quell’odiosissimo non si può, sopra il quale mi presi questa non punto brieve etiandio se lieve fatica di scriverne, ella non è a dir vero una medesima in tutti: anzi, in quale una e in quale un’altra; tutte però, se male a me non pare, provengono da una qualche specie di povertà, o di libri, o di tempo, o d’ingegno, o di cuore, o di discretione, o di buon giudicio, sopra che meglio è discorrere seco medesimo che ragionarne. [21]Solo mi par da avvertire ciò che la sperienza mostra esser vero, che quanto altri più sa della lingua ben appresa nelle sue radici, tanto va più ritenuto in condannare; [22]e a sì fatti huomini non udirete uscir di bocca, se non se il fallo sia inescusabile, un di que’ non si può, che in altri val quanto non mi piace, un non è secondo le regole del tal grammatico che solo ho studiato, un non si confà co’ principi che m’ho fitti in capo e co’ quali ognun si de’ regolare, un non così scrivono o parlano questi o quegli Accademici, e simili. [23]Peroché e tutto può essere, e che nondimeno il non si può sia condannatione più tosto del mio troppo ardimento che dell’altrui poco sapere. [24]Ben m’appiglierò io, delle varie che ve ne sono, e in particolare e in commune, ad alcuna determinata maniera di scrivere o di dire: com’è nel dipartirsi tanto e non più dal latino, nel seguire alcun uso moderno o stare all’antico, nel raddoppiare più o meno le consonanti, nell’usare o no certi accenti, e la z o il t, e altri simili. [25]Ma come in tutto ciò, a ben considerarlo, si mescola quasi per metà la ragione e l’arbitrio, e di quella ve ne ha per ciascuna parte del sì del no la sua giusta portione, e questo, se non vogliam fare d’huomini bestie, si de’ lasciar libero a ciascuno; non è se non da huomo saviamente discreto seguire il suo, e lasciar gli altri al lor talento.
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[26]Fummi data a leggere una non so se più agra o amara censura, fatta non per amichevole emendatione, ma per istratio de’ componimenti d’un mio vecchio amico, a cui l’autore d’essa scrivea sul volto, a men d’ogni dieci versi, con letteroni da cupola, quell’usato suo non si può; [27]e percioché il valente huomo, che non era nato in Toscana, dove le api portano a’ bambini in fasce e in culla, come già a Platone, il mele dentro la bocca, non havendo dalla patria niun uso di ben parlare, dava per mal adoperate quante voci non erano sul suo vocabolario, dove al certo non poche ne mancavano, e quanti buon modi non erano nel suo cervello; se l’amico volea provare ad una ad una quelle voci e que’ modi mal riprovati, gli conveniva, come Cerere cercando Proserpina, accendere per facelle due pini e andarne in traccia per tutte le quattro parti del mondo grammaticale; [28]io, che per isvagarmi tal volta pur v’era stato qua e là alcun poco, così volendo egli, mi presi a difenderlo o scusarlo. [29]E queste in parte sono le cose infrascritte, disposte qui con quel medesimo ordine, senza niun ordine, che il bisogno della risposta richiedeva; vero è che poi alquanto più accresciute, com’è stato in piacer d’altri amici a’ quali ho dovuto concederle, e co’ quali, benché tal volta a maniera di regola, pur ragiono per privata istruttione, non per publico insegnamento, e forse le tornerò loro con qualche giunta o se altro bisognerà.
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[30]A fin poi d’alleviare in parte la noia del leggerle, come altresì a me dello scriverle, peroché come ognun vede la materia da sé è come i deserti dell’Arabia Infelice, un mar di rena sterile e increscevolissimo a caminare, v’ho lasciato scorrer per entro certe poche volte alcuna cosa giuchevole ma innocente, sì come non detta se non di cui mi son finto per dirla. [31]E se chi legge alcuno per avventura ne imaginasse, protestogli: il disimagini, ch’egli non è quel desso, ma solo il non si può, messo come i personaggi fantastici in iscena, con corpo prestato per tanto solo che l’invisibile apparisca. [32]Che io non l’ho mai voluta alle mani con niuno, né a campo aperto in battaglia né in isteccato a duello. [33]Ma se pur mai con alcuno, al certo no co’ grammatici, terribili huomini sì come quegli de’ quali le parole non son parole, ma fatti. [34]E guardimi Iddio da punto mai stuzzicarli, che e per poco s’adirano, e se dan di piglio a que’ loro squadernati vocabolari, come fossero lo scongiuratore di Michele Scotto, in solamente aprirli ne fanno saltar fuori a guisa di spiriti presti a ogni loro comando tanti non dico Nomi e Verbi, ma Sopranomi e Proverbi, che men periglioso sarebbe trovarsi in mezzo d’uno sciame di calabroni attizzati che fra essi. [35]Io ne ho veduti de’ sì mal conci, che Iddio vi dica come ne stavano.
[36]Finalmente, percioché tal volta qui si raccorda il buon secolo e gli scrittori del buon secolo, dell’uno e
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de gli altri si conviene accennare sotto brevità alcuna cosa.
[37]E quanto al secolo, egli communemente si conta dal 1300 fino al 1400 o in quel torno. [38]Gli scrittori che infra quello spatio, anzi ancora qualche decina d’anni più addietro vissero, e in politezza di lingua fiorirono (e tutti li dobbiamo a Firenze, loro madre o nutrice), furono:
[39]Il volgarizzatore d’Albertan Giudice, che scrisse in lingua latina tre trattati e li compiè l’anno 1346, e poscia a non molto furono traslatati in volgar fiorentino.
[40]Ser Brunetto Latini maestro di Dante, che il trovò, cioè il pose, nell’Inferno della sua Commedia per non so quale sporco suo vitio; talché voglia Iddio ch’ei non vi sia altro che in commedia. [41]Morì l’anno 1294, come ha G. Villani l. 8 c. 10. Scrisse libri in più lingue, il Tesoretto in versi italiani. Alcun altro ne translatò ser Bono Giamboni ricordato pur dal Villani, l. 12 c. 35.
[42]Dante Alighieri, la cui morte, con esso le sue virtù e i suoi vizi, G. Villani l. 9 c. 135 ripose nel luglio del 1321. [43]Scrisse in lingua vulgare, giovane la Vita nuova, già huomo la Commedia o satira che ella si sia, in cui descrive la sua andata all’Inferno, al Purgatorio, al Pa-
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radiso. [44]Opera impareggiabile per l’eminenza dell’ingegno e del dire, avvegnaché ella non sia mica pascolo da ogni dente. [45]Nell’ultimo della vita, che fu d’anni 56, compose il Convivio, che non compiè.
[46]Giovanni Villani (com’egli medesimo scrive al l. 8 c. 36), tornato da prendere il giubileo dell’anno 1300 sotto Bonifatio VIII, cominciò la sua Cronaca e durò scrivendola fino alla gran mortalità dell’anno 1348, nella quale finì la vita e lasciò a proseguire l’istoria a Matteo Villani suo fratello; da cui fu condotta fino alla seconda pestilenza dell’anguinaia, onde morì il luglio del 1362. E quinci
[47]Filippo Villani suo figliuolo ripresa, la continuò fino al ’65. Di questi tre valenti scrittori, Giovanni ha il primo onore anche in finezza di lingua, sì fattamente che v’è chi l’antipone al Boccacci. [48]Matteo non è così netto e colto, avvegnaché pur habbia nello scritto e nelle forme del dire un non so che di pregio singolare. [49]Filippo e poco scrisse, e men puro de gli altri.
[50]Francesco Barberini, la cui memoria appresso non pochi scrittori e del suo tempo e di poscia fin quasi a’ nostri è in molta lode; morì l’anno 1348 al cominciare della gran pestilenza. [51]Scrisse in versi Documenti d’amore, tutto cosa morale e civile e da potersi leggere con profitto. [52]Havvi altre sue opere, versi e prosa italiana: hora testi a penna, serbati nella Libreria Barbe-
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rina, ma di qui a forse non molto si faran publici con la stampa; e sì di questi, come de’ Documenti, potrà arricchirsi il Vocabolario in più maniere di voci e modi degni di conservare.
[53]Fra’ Bartolomeo da S. Concordio pisano: v’è chi il crede vivuto al tempo de’ Villani; e se non prima, come a me si fa più credibile, sia di que’ tempi. [54]Scrisse gli Ammaestramenti de gli antichi in così buon dettato, che ne ha lode della miglior penna d’allora.
[55]Giovanni Boccacci, le cui opere in lingua vulgare sono il Filocolo, che compose giovane ed è componimento da giovane; l’Ameto, e l’Urbano del medesimo taglio; la Fiammetta, buona; le Cento no-
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velle, che publicò l’anno 1353, e dopo esse il Laberinto, ottimi; la Visione e la Teseide, poesie poco felici, etc. [56]A questo autore i più danno il vanto della miglior lingua, tutti della peggiore [...],e ivi più dove disse meglio, ch’è nelle Cento novelle: opera da vergognarsene (sia detto con buona pace) il porco d’Epicuro non che l’asino d’Apuleio, sì piena è di laidissime disonestà e come un pantanaccio, che per non affogarvi dentro, ancorché si sia gigante, convien passarlo su’ trampani. [57]Suo coetaneo, e come dicono imitatore o emulo, ma sol nella bontà dello stile, fu Frate Iacopo Passavanti. Il quale, come si ha dal Prolago del suo pulitissimo libro intitolato Lo specchio di vera penitenza, cominciò a compilarlo l’anno 1355, ma compiè prima la vita che l’opera. [58]Sua credono alcuni essere la traduttione dell’Omelia di Origene, che va fra le buone scritture di que’ tempi; a me pare lavoro di mano assai diversa.
[59]Fazio de gli Uberti, autore del Dittamondo in terza rima, scriveva l’anno 1356, come dimostrano i principi che egli fa allora viventi, e si trae dal l. 3 c. 3 e dal l. 4 c. 19.
[60]Francesco Petrarca, se cominciò a cantare versi italiani quando innamorò, ciò fu l’anno 1327; e se durò cantando fin c’hebbe fiato e vita, visse e cantò fino all’anno 1374.
[61]Chi dal latino trasportasse nel vulgare italiano il Trattato dell’agricoltura di Pier Crescenzi non si può
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indovinare, come né anche il quando; se non che l’ottima lingua in che egli è tradotto mostra che ciò si facesse in quel secolo che ottimamente parlava.
[62]Prima di questi, quando la lingua era un non so che più salvatica e rozza, scrissero infra gli altri Ricordan e Giacchetto Malespini; l’autore, e se non è un solo, gli autori del Novelliere antico; parecchi poeti dal Re Enzo fin sotto Dante, e più altri.
[63]Hor, percioché le opere de’ sopradetti autori son publicate in varie stampe, se per ventura sarà chi voglia cercarvi per entro i passi che qui se ne allegano, o sia per riscontrarli o per che che altro si possa voler ciò fare, m’è paruto conveniente particolarizzare a uno a uno la stampa de’ libri de’ quali mi son valuto, notandone lo stampatore, il luogo e l’anno.
[64]Malespini, Cronaca de’ Malespini, in Firenze, appresso i Giunti 1568.
[65]N. ant., Novelliere antico, in Fiorenza, nella stamperia de’ Giunti 1572.
[66]Alb. Giud., Albertano Giudice, Tratt. 1, 2, 3, in Firenze, appresso i Giunti 1610.
[67]Brun. Eth., Brunetto, Ethica, in Lione 1568; Rett. Rettorica, in Roma 1546; Tesoretto, in Roma 1642.
[68]Dante Inf., Purg., Par., Inferno, Purgatorio, Paradiso, in Vinegia, appresso Domenico Farri 1569.
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[69]Dante Conv., Dante, Convivio, in Vinegia, per Marchio Sessa 1531.
[70]G. Vill., Giovanni Villani, in Fiorenza, per Filippo e Iacopo Giunti 1587.
[71]M. Vill., F. Vill., Matteo Villani e Filippo Villani, in Firenze, nella stamperia de’ Giunti 1581.
[72]Barb. Barberino, in Roma 1640, per Vitale Mascardi. Si cita a numero di fogli.
[73]Am. ant., Ammaestramenti de gl’antichi, in Firenze 1661. Si cita a fogli.
[74]Del Boccacci, il Novelliere, in Fiorenza, nella stamperia de’ Giunti 1573.
[75]Filoc., Fiamm., Lab., Il Filocolo, la Fiammetta e ’l Laberinto, in Firenze, per Filippo Giunti 1594.
[76]Pass., Passavanti, in Firenze, appresso Bartolomeo Sermartelli 1579.
[77]Omel., Omelia d’Origene, in Venetia, appresso Pietro Marinelli 1586.
[78]Ditt., Il Dittamondo di Fazio de gl’Uberti, in Vicenza, per Lionardo da Basilea 1474.
[79]Petr., il Canzoniere del Petrarca, in Venetia, appresso Nicolò Bevilacqua 1562.
[80]Cresc., la traduttione del Trattato dell’agricoltura di Pietro de’ Crescenzi, in Firenze, appresso Cosimo Giunti 1605.
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Giunta dell’autore in risposta a due imputationi dategli dopo stampato la prima volta il libro
[1]A quel ch’io veggo e pruovo, ancora i libri potran dire come quel valente huomo, che in sentirsi ferire d’una improvisa percossa il capo, che haveva ignudo, sel corse a prendere fra le mani e gridò: «Ahi misera la nostra conditione, già che non sappiamo indovinare quando all’uscir di casa ci dobbiam mettere la celata». [2]E quanto a’ libri, in verità mostra che l’habbiano bene inteso quegli che, prima d’uscire in publico, si sono proveduti alla difesa ponendosi in capo un Prolago galeato, col suo cimiere del titolo che in grandi lettere il protestava; e l’hanno indovinata, per modo che a far che non si sia trovato chi voglia cimentarsi a combatterli, è bastato il vedere che sono armati.
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[3]Questo vuole intendersi sol di que’ libri che han corpo da star bene in armi, altrimenti, ove fossero come i Pigmei che battagliano con le grue, sarebbono di vantaggio armati quali ce li rappresenta l’istorico di quella invisibile natione: con un nicchio d’ostrica per corazza e una chiocciola per elmetto. [4]E tale appunto in armi havrebbe dovuto mostrarsi questo mio libricciuolo; se non che, uscendo egli in maschera sotto altro volto che il mio (se fu ben detto che il nome onde altri si raffigura e conosce, etiandio non veduto e lontano, è la seconda faccia dell’huomo), a me non caleva punto di lui che che fosse per avvenirgli: raccordandomi di quell’altro, che colto in iscambio e carico d’una pesante ingiuria, a chi lo stimolava a farne vendetta, colui disse: «Non ha offeso me, ma chi egli credette ch’io fossi». [5]Al Longobardi dunque stava il risentirsi, e per ciò a niuno, che chi non sente per ciò che non è nulla, non può risentirsi di nulla; ed io, ridendomi delle sue disavventure, havrei detto come saviamente Aristotele di coloro che con mordacis-
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simi detti lo stratiavano da lontano: «Anche m’uccidano colà dove non sono, pur che non mi tocchino dove sono».
[6]Ma la cosa è ita troppo altramente da quello che io, che di profeta non ho altro che il nome, imaginava: peroché certi, a dire il vero indiscreti, han tratta di sul volto al libro repugnante indarno la maschera e scoperto chi volea starsi nascoso. [7]E l’ingiuria è stato meno acerba del danno, peroché tutto insieme l’han tratto a dire se punto ne ha sua ragione in giudicio, e purgarsi di due lor gravissime accuse, l’una damni illati, e peggio l’altra repetundarum.
[8]Iddio dia loro il buono anno e le buone calendi oggi e tuttavia, disse Ferondo nell’uscirsene dall’avello; già che, la buona loro mercé, prima di condannarmi han voluto udirmi; e ben ne habbia la verità e l’innocenza, in virtù delle quali per in tutto assolvermi basterà udirmi. [9]E mi torna per ciò opportunamente la voce chi mi offerisce a ristampare del suo il medesimo libro, con esso una giunta d’alquante osservationi che mi trovava spedite alla mano.
[10]Quanto adunque alla prima accusa. Presumono
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che, dove io mi credeva farle utile, habbia in gran maniera danneggiato la buona lingua, insegnando (dicono essi) a parlare fuori di regola, col palesare che ho fatto quel che fuori di regola hanno scritto i maestri della lingua.
[11]Dunque (ripiglio io) i maestri della lingua parlarono sregolato? e quel tanto celebre secolo in che vissero Dante, i Villani, il Boccacci, il Passavanti, il Petrarca, il volgarizzatore di Pier Crescenzi (secolo in questo genere tutto d’oro, dove il nostro per avventura è solo indorato) havrà havuto tanto di rea mistura in lega, che per raffinarlo bisognerà coppellarlo e separarne il buono dalla mondiglia? [12]Hor tragga avanti alcun de gli accusatori e mi dica: chi prima de’ buoni autori formò le regole del correttamente parlare italiano, onde fosse loro ignoranza il non saperle e fallo da correggersi il trasgredirle? Eranne leggi scritte. Da chi? e dove ne sono hora le dodici tavole da riscontrare con le opere de gli antichi scrittori e formarne giudicio? [13]Eravi l’esempio de’ maggiori da osservarsi come esemplare, se quanto si sale più sopra il 1300 tanto più rozze e informi s’inconrano le maniere del favellare? [14]Era l’ottimo il dir corrente del volgo? e chi sa hora quale egli si fosse, se non per gli scritti rimasine di quel tempo? E poi: i professori dell’arte del ben parlare havranno adoperata la penna
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peggio che il volgo la lingua? e non anzi s’havrà a presumere tanto più regolato e fino il lor dire, quanto più lento e più studiato è lo scrivere, massimamente all’eternità, che il semplice ragionare?
[15]Ma tutto ciò sia detto per alcuna cosa di più. Peroché, quanto a’ principi onde il ben favellare in nostra lingua si regola, per molto ch’io mi sia raggirato intorno cercandone con intendimento di stabilirne alcuno che, o da sé medesimo per natura, o dall’uso per gratia, habbia il poter dirsi un universale, non m’è avvenuto mai d’incontrarmici; e mi si è fitto in capo non havervene niuno che da sé basti a far tutto: [16]non le decision de’ grammatici, non l’uso, o sia del popolo o de’ più eletti, non l’autorità de gli scrittori, non la prerogativa del tempo (sì come v’è chi tutto vuole all’antica, chi tutto alla moderna, e chi fa un ordine composto dell’uno e dell’altro), non l’in tutto attenersi al latino, non il quanto più si può dilungarsene, non le derivationi delle voci primarie, non la convenenza de’ simili, e che so io; [17]ma hor l’uno hor l’altro, hor due e tre insieme haver forza, e più di tutto l’arbitrio a cui una gran parte rimane in libertà, ed è per avventura la più difficile a ben usare, richiedendovisi un buon gusto proveniente da un buon giudicio; e quegli che l’hanno tra per dono di natura e per acquisto di studio nella lingua, i critici nol dovrebbon noiare, avvegnaché lor paia che in alcuna co-
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sa trascorrano: anzi esser lor cortesi, come a Catone colui che disse che s’egli s’innebriasse, l’ebbriachezza diverebbe innocente in lui, più tosto ch’egli colpevole in lei. [18]Torno hora a me stesso e do più distinta ragione dell’intentione mia, avvegnaché a me paresse haverla bastevolmente dichiarata, e nell’avviso a’ lettori, e in tutto il decorso dell’opera.
[19]Altro dunque è quello che si de’ osservare, volendo scrivere quanto il meglio si può regolatamente, altro quel che si vuol rispondere per difesa contro al non si può di coloro che non si fanno a correggervi per vostro bene, ma vi condannano per lor diletto, portativi dalla presuntione di saper quanto, se non ancor più di quanto si può sapere in buona lingua, peroché sanno quel che ne scrisse il tale o il tal altro lor confidò, come si sa de’ misteri, in segreto; e gli dan quella pienissima fede che i buoni certaldesi alla diceria geografica del Cipolla, quando hebbe a mostrar loro la penna involatagli, e co’ carboni sostituiti in vece di lei, ne fece una segnalata compagnia di crociati. [20]Hor mia intentione è stata non d’insegnare per uso
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ciò che si truova alcuna volta etiandio da’ buoni scrittori usato – e ne apporto gli esempi: altrimenti potrebbe accomodarmisi quel che Frontone disse a Domitiano, «Malum est imperatorem habere sub quo nemini liceat quicquam, peius sub quo omnia»; ma di correggere dov’è troppa, e massimamente se irragionevole, la baldanza de’ correttori: [21]intentione, pare a me, buona, e da doversi gradire altrettanto che colà appresso Martiano quella dell’Arte Grammaticale, che alla nuova sposa la Filologia offerse in dono una lima d’oro con cui dirugginarsi i denti, e bisognando anche spuntarlisi, in quanto impediscono il ben parlare. [22]E in verità essendo il non si può in bocca di molti un morso da mezzo arrabbiati che danno a chi lor piace o non piace, bene sta il presentar loro con che non dico cavarsi i denti, ma alquanto spuntarlisi. [23]Che se verranno a correggervi d’alcun vostro fallo di
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lingua portativi dalla ragione, e non havrete a dir loro come Aristotile infermo a quel medico da zappatori che gli ordinava di gran rimedi senza dirgliene il perché: «Ne me cures ut bubulcum»; prendetelo in grado e rendetevi all’ammenda. [24]Altrimenti, ove non habbiano come sovente avviene altro che il lor piacere, o certe speculationi dell’andar di quelle che un branco di grammatici apportò sopra la quistione loro proposta in un de’ conviti di Plutarco: perché l’a sia la prima lettera dell’alfabeto; ridetevi di loro, e per quanto schiamazzino e vi riprendano, non vi rimanete dallo scrivere e dal ragionare in publico, senza turbarvi più che Demostene, provandosi ad aringare contra il romoreggiar che fanno le onde del mare in tempesta, quando l’una addosso all’altra e tutte al lito s’infrangono.
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[25]In quanto dunque io vi do con che potervi difendere dalle soperchierie di chi all’improviso v’assale, tutta indifferentemente quest’opera vi potrà servire al bisogno. [26]Non così a valersene in uso di scrivere ottimamente, avvegnaché troviate qui esempi d’ottimi autori. [27]E guardivi la buona ventura dall’adoperare scientemente, per esempio, e lei e loro in primo caso; questo per questi ove si dinota huomo; gli parlando di femina; bandire in significato d’‘esiliare’; mai per lo numquam latino; ogni col numero plurale; puote in tempo preterito; vuo’ per voglio; come che per impercioché; bisognevole per haverne bisogno; perse e morse in iscambio di perdé e morì; né dire una sol cosa, una sol volta; né terminare i preteriti in assimo e in essimo; né spezzare gli avverbi; né raddoppiare la consonante de gli affissi a voce tronca; né dar l’essere a’ participi (o partefici, come
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altri vogliono che si dica) che richieggon l’havere, e al contrario; né ritenere i dittonghi poi che ne havete portato oltre l’accento; né dire che colui ubbidischi, e quegli ubbidischino, difendi e difendino, dichi e dichino, etc. con la terminatione de’ verbi della prima maniera; e così d’altri più o men fuori di regola e d’uso, come troverete qui dentro avvertito. [28]Io per me così fo: che non iscrissi quest’opera per mia difesa, peroché quantunque io mostri altrui la più larga sol perché la sappiano, alla più stretta m’attengo e solo uso la mia libertà ove l’usarla è libero, e così mi par che detti il giudicio dell’orecchio, ch’è in gran parte arbitro del parlare, avvegnaché non sia il medesimo in ciascuno.
[29]Vegniamo hora alla seconda imputatione, la quale quanto in sé è più grave, tanto a me lo scaricarmene riuscirà più leggiere: cioè che questa non è in tutto mia opera, ma d’alcun altro a cui io l’ho in furto involata e fattala cosa mia; onde poi è stato tra per coscienza e per vergogna il non m’ardire a publicarla con espressovi il mio nome.
[30]In farmi a rispondere, mi sovviene in prima d’un testo del Boccacci colà in Tedaldo Elisei, che starebbe ottimamente in bocca a quello di cui vorrebbono che il libro fosse: «Maravigliossi che alcuno tanto il somigliasse che fosse creduto lui». E in ciò, senza volerlo essi né io meritarlo, troppo oltre al dovere m’onorano confessando l’opera essere d’un valente
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maestro, avvegnaché per questo medesimo nieghino lei esser mia. Così gran cosa par loro quel ch’io mi vergognava che si sapesse esser mio. [31]Ma se meco si fossero consigliati, essendo così facile il provar quel che essi niegano e il negar quel che concedono, io gli havrei per avventura indotti a fare (secondo loro intentione) più saviamente, dicendo male dell’opera con infingersi di non saperne l’autore: così m’havrebbono havuto dalla lor parte, che ben posso io, etiandio con virtù, negar delle cose mie ogni bene, ma negar me stesso come posso io, se non esco fuor di me stesso? [32]E qui mi vo accorgendo che non disse troppo colui, appresso Plutarco, che, avanti di credere a chi parla sinistramente d’altrui, dovrebbe spararglisi in petto e aprirglisi i seni del cuore (intendetelo moralmente), e veder se v’ha dentro di quel sangue nero onde si formano spiriti da prodursene operationi non vitali ma mortali, qual è il dir male.
[33]Hor che direbbono se mi vedessero dare alle stampe altri due libri, l’uno delle proprietà e per così dirle passioni de’ verbi, con quanto è da sapere in ciascuno – di che non so che cadesse in pensiero al Mambelli di scrivere; l’altro de’ vocaboli propri d’ogni arte e d’ogni professione, così di puro ingegno come altresì di mano e de gli affetti dell’animo, e delle parti componenti ciò che ha parti, e delle operationi di ciò
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che opera, e in ciascuno argomento i particolari e propri modi di ragionarne usati nello scrivere che ne han fatto gli antichi, e, dove questi ci mancano, presi da quel che ne habbiamo in voce viva adoperato da’ maestri di buona lingua, de’ quali ciascuno ha i propri del suo mestiere; e l’una e l’altra di queste opere ho già in qualche buon essere, ma per me si rimangano come stanno, che non si fa saviamente a faticar per altrui rammarico e per suo danno. [34]Ed io per me mi credeva haver meritato, se non amore, compassione, non altro meno amichevole affetto, appresso chi sa l’occupatissimo ch’io sono in altro diverso affare, e mi vede prendere per isvagamento d’animo a fare il grammatico in servigio de gli amici. [35]E se questa non m’è paruta opera da doverle intagliare il mio nome in fronte, né anche mi fo a credere che Ciro (se la comparatione non è presa da troppo alto) incidesse il suo nelle cortecce de gli arbori che tal volta, per ricrearsi innocentemente, di sua mano piantava: come fosse vago di lasciar memoria ch’egli era anco agricoltore o giardiniere.
[36]Finalmente, che io, dopo haver molti anni sono dimostrato in istampa quanto vituperevol fatto sia in un huomo di lettere l’usurparsi e far malamente sue le opere altrui, e detto assai sopra il rubare con buona
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o con rea coscienza, non habbia poi in nulla dimentiche né prevaricate le mie medesime leggi, so certo che chi altramente ne ha giudicato non lascerà provarselo, come io il vorrei e di ragion si dovrebbe: [37]peroché essi non havran patienza di leggere (e ve li vorrei costrignere per penitenza) quanto io ho havuto patienza di scrivere di mia mano, cogliendo da gli autori della lingua, di quella medesima stampa ch’io cito (e gli ho qui meco, e lettili ben due e tre volte) quello onde ho tratto ciò ch’è in questo libricciuolo di poche carte ma di non così poca fatica; e ad havere i suoi propri occhi testimoni di quanto dico, non bisognerà più che volerlo e chiederlo con un cenno. [38]E vi si aggiunga ancor de’ grammatici il Castelvetro, della cui Giunta al Bembo io ho tratte quelle miglior regole universali che ho veduto approvarsi dall’uso de gli scrittori d’autorità. [39]Come altresì il Mambelli, dal medesimo Castelvetro (per quanto ho
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potuto vederne) ha preso tutto ciò che ha in questo genere ne’ suoi Verbi, aggiuntivi di sua fatica gli esempi: il che, riscontrando le opere dell’uno e dell’altro autore, apparirà manifesto. [40]E quanto al sopranominato Mambelli, chi havesse in uso le sue Particelle e questa mia opericciuola, ben s’avvedrebbe che in più cose il contradico; e molte da lui o solamente tocche o non interamente trattate io a bello studio le ho tralasciate, per non derogare in nulla a un caro amico: le cui Particelle, lui vivente, mi debbono (e me ne pregio) l’essere nate alla stampa, e i cui Verbi, lui morto, il non essersi sepelliti.
[41]E tanto basti haver detto in difesa di quello che troppo più volentieri havrei trascurato, ove non fosse paruto altrimente a gli amici, ch’io havrei più offesi tacendo che altri non ha fatto me ragionando.
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Acciò e accioché.
i. [1]Acciò o come ancora si potrà scrivere a ciò, s’egli si vuole spendere per quel che pesa, non vale più che il latino ad hoc; e come mal si direbbe ad hoc facias, in vece d’ad hoc ut facias, così non ben si dirà acciò facciate per acciò che facciate, togliendone la particella che, rispondente all’ut del latino. [2]Ciò non ostante pur si truova chi de gli antichi ha fatto correre acciò al valore d’acciò che: G. Vill. l. 8 c. 26 «E di que’ loro casolari fecer piazza, acciò non si rifacessero mai», l. 10 c. 17 «Acciò potessono», l. 11 c. 2 «Acciò per chi leggerà sia più chiaro»; M. Vill. l. 2 c. 48 «Ammoniva che se ne correggessono, acciò gli ponesse per loro merito in maggiore stato»; Cresc. l. 9 c. 2 «Acciò in fra loro non si possano azzuffare», e c. 5 «Stando sotto ’l coperto con grossa coperta di lana, acciò non infreddi», l. 10 c. 24 «Vi si mescoli un poco d’olio d’uliva, acciò [la pania] non sia sì dura»; Bocc. Lab. n. 139 «Acciò, vedova alle spese del pupillo, possa
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etc.», e Vis. c. 11 «Acciò fruisca il mio bel paradiso»; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 2 «Acciò non sie [cioè sii] ripreso».
[3]Ben si è usato di spezzare con gratia e questo accioché e certe altre voci che l’assomigliano in quanto ancor elle si compongono di più voci. [4]E lo spezzarle si è fatto mettendo loro in corpo alcun’altra parola che s’intramezzi, come ne’ seguenti essempi si vede: Pass. f. 32 «Acciò dunque, fratelli miei dolcissimi, che non periamo», e f. 98 «Acciò dunque che per ignoranza etc.»; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 6 «Acciò dunque che tu schifi la morte», e due volte c. 30 e c. 44 etc.; e quest’altre: Bocc. n. 31 [33] «Non dovevi di meno» cioè ‘nondimeno dovevi’; Pass. *f. 89 «Non però di meno si richiede la confessione», Brun. Rett. [10v] «Conciosia la verità che rettorica è una cosa che etc.», Pass. f. 108 «Conciossia cosa, come detto è di sopra, che nella contritione».
Come che in senso d’impercioché.
ii. [1]L’avverbio come che non ha quel senso di ‘percioché’ nel quale tanto frequentemente è in bocca d’alcuni, che diranno «ma come che Iddio è pietoso» e «come che il vento traeva gagliardo» etc. per dire «ma perché Iddio è pietoso», «ma percioché il vento
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traeva gagliardo», e simili. Il suo natural significare è d’‘avvegnaché, ancora che, benché’.
[2]Pur v’ha qualche testo nel quale pare che il come che senta troppo manifestamente del percioché, e basti darne qui a considerare tre soli a mio credere assai chiari. Bocc. n. 16 [34] «E come che rade volte la sua madre, la quale con la donna di Currado era, vedesse, niuna volta la conobbe, né ella lui», che è quanto dire (come appar manifesto dalla novella) ‘e percioché il figliuolo rade volte vedeva la madre sua, cui havea perduta da molti anni etc., non la conosceva’. [3]Né men chiaro è quell’altro, n. 49 [30]: «Se i figliuoli havessi o havessi havuti, per li quali potessi conoscere di quanta forza sia l’amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa che in parte m’havresti per iscusata; ma come che tu non n’habbia, io che n’ho uno non posso però le leggi communi dell’altre madri fuggire», cioè ‘ma percioché tu non hai figliuoli, come io ne ho etc.’ [4]Puossi ancora leggere la n. 22 [25], colà ove si dice «Come che ciascun altro dormisse forte», e quivi appresso [26] «Come che varie cose gli andassero per lo pensiero», e considerare se quivi il come che ha significato di ‘benché’ o anzi di ‘percioché’. [5]Finalmente il Petr. canz. 39 [264 117-120] «Hor ch’i’ mi credo al
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tempo del partire / esser vicino o non molto da lunge / come che il perder face accorto e saggio / vo ripensando etc.», cioè ‘percioché il perder fa accorto etc.’, altrimenti facciavi chi può entrare il ‘benché’ a proposito del discorso.
[6]Per ‘comunque’, sì ch’egli senza niun sospetto d’errore s’adopera: Inf. 6 [5-6] «Come ch’io mi mova» e «Come ch’io mi volga»; Bocc. n. 33 [22] «Come che in processo di tempo s’avvenisse», n. 26 [14] «Come che questo sia stato o no», n. 17 [3] «Come che loro venisse fatto»; Pass. f. 206 «Hora, come che la superbia si prenda o per l’un modo o per l’altro etc.»
[7]Petr. son. 9 [9 13-14] «Ma come ch’ella li governi e volga / primavera per me non torna mai»; Dante, Conv. [f. 110r]«Come che io mi sia»; Bocc. Amet. f. 61 «Ma come che creduto o non creduto mi sia».
[8]E per lo semplice ‘come’: N. ant. 100 «E questo non dico io per me come che io sia di quegli sì sufficienti etc.»; Bocc. n. 27 [29] «Come che io credo».
[9]Come che col dimostrativo l’ha Bocc. n. 18 [47] «Come che ella non se ne accorge».
Contento sustantivo.
iii. [1]Contento, nome sustantivo, si legge in una delle novelle del Boccacci, ma ella non è sua parola; e dicono che il suo testo originale esclama contra chi cor-
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reggendolo lo scorresse. [2]Pur oggidì il contento è più in uso che il contentamento de gli antichi, e l’adoperò il Casa, pulitissimo dicitore. E l’Ariosto c. 38 st. 2 disse «Un così gran contento». [3]E se per avventura egli non basta per dargli il peso dell’autorità che havrebbe se fosse antico, eccolo antico quanto il sia Fazio de gli Uberti, che scriveva ha hora de gli antichi ben trecento e dodici: Ditt. l. 5 c. 1 «La luna si vedea / sì viva, che ciò m’era un gran contento».
Avverbi spezzati.
iv. [1]Gli avverbi non si debbon tagliare a mezzo e volere che la prima metà dell’antecedente tronco s’unisca all’ultima del susseguente intero: che questa è una maniera d’innesto grammaticale che non tiene. Per ciò non diremo santa e giustamente, chiara e distintamente, peroché quel santa e quel chiara nella lingua nostra o è nome o non è nulla.
[2]E se nel Filoc. l. 2 n. 334 troverete «Forte e vitupe-
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rosamente», e nella Fiamm. l. 7 n. 52 e nel Pass. «Prima e principalmente», raccordivi che forte e prima da loro medesimi sono avverbi interi, che vagliono altrettanto che fortemente e primamente.
[3]Non cosi humile e villana, che pur si truovano nel N. ant. e sono esempi da non prenderne esempio: n. 3 «Lo cavaliere fece la domanda sua ad Alessandro, humile e dolcemente», e n. 19 «Il padre rispose loro villana et aspramente».
Gerondio in forza di participio.
v. [1]Ben si pone il gerondio per lo participio (così il chiamerò per più essere inteso, come ancora gli altri vocaboli usati nell’antica grammatica: avvegna che quel partecipe, che una volta si legge nel Boccacci del Mannelli, vogliano che sia scorrettione in vece di partefice, che solo stimano doversi dire). [2]Ben dunque si pone il gerondio per lo participio, massimamente dove questo non fosse a udire di così bel suono, o non così usato. [3]E sia per esempio de gli altri dormendo per dormente, che si potrebbe haver detto in tutti i testi seguenti: Bocc. n. 28 [31] «Quando [il veglio
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della montagna] alcun volea dormendo mandare nel suo paradiso», cioè ‘dormente’, come il medesimo havea detto n. 17 [35] «Pericone dormente uccisono»; e simile di questi altri: n. 40 [14] «Nella camera se ne venne e trovato Ruggieri dormendo etc. cominciò a dire che su si levasse»; n. 46 [23] «E stimando vilissima cosa essere etc. due ignudi uccider dormendo»; Filoc. l. 2 n. 357 «Né quello ancora che apparve a Servio Tullo picciol fanciullo dormendo nel cospetto di Tanaquil, fu più manifesto segnale etc.»; Lab. [23] «Essendo io in altissimo sonno legato, non parendo alla mia nemica fortuna che le bastassero le ingiurie fattemi nel mio vegghiare, ancora dormendo s’ingegnò di noiarmi»; Dante, Purg. 9 [37-38] «Quando la madre da Chiron a Sciro / trafugò lui dormendo in su le braccia», etc.
Esso posto a maniera d’avverbio.
vi. [1]La particella esso, posta dopo la prepositione con e avanti a pronome o nome, comunque sia non ha forza d’ipse, sì che col genere feminile debba farsene essa o col plurale essi o esse; ma è invariabile e come da sé, aggiunta per una cotal vaghezza o forza che par ch’ella dia. [2]Perciò non s’havrà a dire con essa lei, con esse l’armi, con esse o con essi loro etc., ma sempre al medesimo modo con esso lei, con esso loro, con esso l’armi etc.
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[3]Questa è regola ferma e ricevuta, avvegnaché pur si dica haverla trascurata una o due volte G. Villani e il Boccacci. [4]Ma di tre testi che se ne apportano in fede, uno è scorretto, l’altro male adoperato, solo il terzo ha veramente forza. [5]Lo scorretto è del Villani l. 6 c. 19, ove, ragionando di papa Gregorio, dice che «Con essi i Cardinali, con tutti i Vescovi etc. andò per tutte le principali Chiese di Roma». [6]Ma secondo l’emendatione dell’87 si legge altramente, cioè che il Papa «Trasse di Santo Santorum di Laterano le teste de’ beati Apostoli Piero e Paulo, e con esse in mano, con tutti i Cardinali, Vescovi etc.». [7]Il male adoperato è del Bocc. n. 42 [16] «Andò alla barca e niuna altra persona che questa giovane vi vide, la quale essa lei che forte dormiva chiamò molte volte». [8]Qui dove non è premesso il con, che il senso nol comporterebbe, essa è veramente pronome, benché la maniera sia alcun poco strana; pur egli sono due quarti casi della Gostanza che dormiva e fu chiamata e fatta risentire. [9]Né va molto di lungi da questo quell’altro dire di G. Vill. l. 4 c. 2: «Altri degnamente non potesse essere eletto ad Imperadore senza elezione di questi sette Principi, quali sono costoro essi: l’Arcivescovo di Maganza etc.» [10]E quell’altro dell’antica canzone raccordata dal Boccacci nella fine della n. 35 [24]:
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«Qual esso fu lo mal Christiano etc.» [11]Il terzo, se la lettione è legittima, non ha interpretatione o risposta, ed è pur del Bocc. n. 60 [Concl. 31]: «Cominciarono come potevano ad andare in qua, in là, dietro a’ pesci, e a volerne con esse le mani pigliare». [12]Così ha il Decameron del ’73, e pur v’è chi nelle sue particelle il cita e legge «con esso le mani», fattane con esso le sue proprie mani la correttione, il che stiasi a contro della sua coscienza.
[13]Questo medesimo esso s’aggiunse ancora ad avverbi e se ne fece lunghesso, sovresso, sottesso, che vaglion quanto lungo, sovra e sotto, e l’esso vi sta invariato, come dicevan del con esso, hor si dia a genere feminile o a numero plurale: così il Boccacci ben disse n. 47 [24] «Passando lunghesso la camera»; e altri, sovresso le spalle, etc.
Dappoi, dipoi e dopo
vii. [1]Dapoi (o come altramente si dice dipoi) e dopo sono due particelle da osservarsi in più cose.
[2]1. Quanto allo scriverle: che non possiam dire dopoi, peroché la lingua nostra non ha do, sì come ha da
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e di, da unire con poi, talché così possa farsene dopoi come da poi e dipoi.
[3]2. Che volendo scrivere da poi in forma d’una parola, potremo raddoppiare il p e ne verrà dappoi; non così dipoi, perché l’i non ha la forza del raddoppiare che l’a.
[4]3. Che non iscriveremo doppo, né dopò, molto meno doppò, ma schiettamente dopo. I Malespini e Fazio nel Ditt. usarono doppo; e in questo secondo egli non si può recare a scorrettione di testo, almen colà dove l. 2 c. 1 gli fe corrispondere in rima troppo e aggroppo; e similmente l. 5 c. 9 troppo e groppo.
[5]4. Quanto al valore del significato, da poi e dipoi sono avverbi di tempo come il postea de’ Latini; non così dopo, ch’è prepositione e vale post, né riceve dopo sé la particella che, come i due primi. [6]Perciò i professori di questa lingua condannano chi stravolta
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e confonde l’uso di queste voci, facendo valere l’avverbio per prepositione e questa per quello: che è quando si dice «da poi desinare» o «dopo che havrò desinato», «da poi la colonna», «da poi mille anni», dovendosi dire «dopo desinare», «da poi che havrò desinato», «dopo la colonna», «dopo mille anni».
[7]Vero è che in G. Villani, scrittore del buon secolo e alla sua vera lettione ridotto, v’ha esempi del contrario: l. 1 c. 19 «Dipo’ lui, regnò Ideberto»; e similmente altrove; e M. Vill. l. 2 c. 44 «Dapoi a pochi dì fu il caldo sì disordinato etc.»; e nel N. ant. 20 «Dipoi molti tempi tenne la signoria» e «Dipo’ non molti giorni»; e de’ moderni di buona stampa, il Davanzati, che nella Scisma disse: «Morì dipoi cinque mesi», e «Due mesi dipoi». [8]Ma de gli antichi, Fazio nel Ditt. l’usò si frequentemente che appena più si poteva: l. 1 c. 6 «Dapo ’l danno», c. 12 «Dappoi Noè», c. 22 «Dappoi l’augurio», l. 5 c. 1 «Da poi morte», c. 9 e 28 «Dappoi questo», l. 6 c. 7 «Da poi la morte», c. 12 «Da poi li tre peccati». [9]Ma queste e l’altre soprallegate, o siano come altri vorrà scorrettioni de gli stampatori, ch’è il refugio ordinario de gli ostinati, o licenze proprie de gli autori anzi che della lingua, non pare che ragion voglia che s’allarghino, come altri ha fatto insegnan-
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do che altrettanto è da poi quanto dopo. [10]Due testi son prodotti da un osservatore in pruova di quello ch’egli credette, che in essi la particella dopo habbia forza d’avverbio di tempo: ma o io mal veggo, o egli in ciò non vide bene, peroché poco dopo e «Picciolo spatio dopo» che leggiam nel Filoc. (e ve ne ha d’altre opere esempi in moltitudine) sono altrettanto che dire dopo poco e «Dopo piccolo spatio»; né per ciò che dopo si posponga per leggiadria, perde il proprio suo essere di prepositione, cambiando natura solo per ciò che muta luogo.
Mai e non mai.
viii. [1]L’avverbio mai, nella forza del significato, non vale punto più che il latino unquam: si unquam, se mai; nec unquam, né mai, etc. [2]Perciò, come sarebbe peccato di lingua il dire «Ego unquam hoc faciam», negando di mai volerlo fare, così nel medesimo senso il dire «Io mai farò questo», peroché a voler che nieghi fa bisogno aggiungere alcune delle particelle né o non, senza l’una o l’altra delle quali mai non esprime altro che unquam; e in ciò tutti i maestri della lingua s’accordano. [3]Pur v’ha del contrario esempi, e non pochi, tal che non so come la regola al tanto torcerla non si sia rotta.
[4]Un professor di quest’arte dello scrivere italiano, con tanta fermezza come ne havesse rivelatione, giura
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che della penna di niuno scrittore del buon secolo uscì mai quest’intolerabile fallo d’adoperare mai in sentimento di numquam; e se pur se ne leggono esempi, ciò esser furto de gli stampatori, che per più speditamente fare ne rubarono il non o il né: ond’è che se si mettessero sotto i loro medesimi torchi, alle tre o quattro strette che loro si dessero confesserebbono la verità. [5]Ma io non fo sì reo giudicio de’ Giunti, già stampatori in Firenze, che oltre a più altri ci diedero il Boccacci e i tre Villani riscontrati fedelmente e racconci da ottimi correttori; e pure, come appresso vedremo, di questi mai solitari ve ne ha per entro non pochi.
ix. [1]Di certi altri sordidi e mercenai stampatori d’oggidì, io certamente della lor fede non darei una menoma sicurtà, peroché non mirando essi fuor che a fare de’ lor vil piombi argento, ristampano l’opere onde speran guadagno, ma sì barbaramente sformandole che non par che vogliano (come tal volta dicono in que’ mal composti loro preamboli) multiplicare le statue al merito dell’autore, ma giustitiare l’autore nella sua statua. [2]Appunto come da poi che un valente huomo con tanti anni di fatica e di studio ha conceputo e partorito un libro, figliuolo legittimo della sua mente (che questi sono i nostri più cari, sì come i più simili e da noi generati della miglior sostanza di noi,
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che è l’anima), il publicarlo stampandolo fosse gittarlo; tal che le costoro mani potesser ricoglierlo per usar seco l’empia pietà di quel barbaro che cercava de’ figliuoli esposti, e presili, in istranissime guise gli stroppiava, quanto più sconciamente al lor male, tanto più acconciamente al suo bene: peroché di poi gli spargeva per tutto intorno ad accattare, «et sua cuique calamitas tamquam ars assignabatur», spogliandoli la sera di quanto i meschini in tutto il dì s’haveano guadagnato. [3]E per dire hora solo del giusto lamentarsi che posson fare quegli che alcun poco si pregiano di scrivere in nostra lingua non del tutto fuori di regola: di che natione, o di che sapere, o se non tanto di che fedeltà correttori adoperan cotesti che per guadagneria ristampano e per tosto fare acciabattano? [4]Tali in vero che può loro adattarsi quel che Diogene disse allora che, ito a lavarsi al publico
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bagno, il trovò pieno d’un’acquaccia sì torbida e lorda, ch’ella era da imbrattarlo se fosse netto, non da nettarlo poi che era imbrattato: «Qui hic lavantur – disse – ubi lavantur?» [5]Così dico io delle correttion di costoro: chi le ha a correggere? Chi ha ad emendare le loro emendationi? [6]Già che essi, non havendo né per beneficio di patria né per diligenza di studio altra dote di buona lingua che forse quella di ben servire al palato, ad altro non curano che vaglia loro il mestier del correggere che a procacciarsene il mangiare. [7]Hor vada quell’altro a lamentarsi che «Medico tantum hominem occidere impunitas summa est». [8]Se è vero che altri nelle opere sue vive sì, che in esse ancor dopo morte a sé medesimo sopravive, non è egli un ucciderlo scontrafargliele tanto che gli si volti la lode in vitupero e la gloria in disonore? [9]Ma tanto sol basti haver detto in gratia d’alcuni, a’ quali io per mia parte il doveva; e ne ho pur nuova cagione, peroché appena uscita in Roma La geografia trasportata al morale, ella v’è ritornata dalle stampe di Vinegia e di Milano mal trattata, che l’autore tanto non la riconosce per sua quanto non la conosce sua. [10]Lascio i mille falli di stampa non curati da chi sol bada a far tosto
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per suo guadagno, non bene per riputatione dell’opera. [11]Le han di più dato su la faccia un fregio d’un insanabile solecismo, togliendone quel Prima parte che v’era, e lasciando il rimanente del titolo senza che il sostenga, e perciò non solamente in aria, ma in rovina. [12]Poi ne han levati i sessanta titoli e argomenti delle due parti che sarebbon venute in brieve dietro alla prima, e poi l’altre seguitamente; e loro intentione è stata far credere a’ comperatori quella prima non essere una parte del tutto, ma essa sola il tutto, e perciò da non doversene aspettare altra. [13]Con che l’amphora dell’ampissimo argomento ch’è la geografia trasportata, l’han fatta parer divenuta in mano all’autore l’urceus del poeta. [14]Né punto altro miglior trattamento farebbono alle sussequenti se le stampasse: ma indarno aspetterà la seconda, la terza e le altre chi non ha voluto che la prima sia prima.
[15]Ritorniamo al mai, del quale eccone alquanti esempi senza la particella che niega e pure in sentimento di numquam: Bocc. n. 54 [3] «Che mai si sarebber sapute trovare», Filoc. l. 6 n. 12 «Costui chiamava e mai nella sua bocca altro havea»; e n. 177 «Mai di ciò che hora mi parli dubitai»; Lab. n. 49 «In quello carcere cieco, nel quale mai il divino lume si vede», e n. 125 «Fu ben la mia disavventura ch’io mai ti vidi»; Pass. f. 269 «Se tu vegghi, io mai dormo – disse il
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diavolo a S. Macario»; M. Vill. l. 8 c. 39 «I Perugini mai si vollono dichinare», etc.
[16]Ben è da avvertire che non sarà fuor di regola l’usar mai senza espressa negatione in senso di ‘non mai’, quando ella v’è tacitamente nella forza di né, niuno etc. Come a dire Bocc. n. 48 [24] «Quel cuor duro e freddo nel quale mai né amor né pietà poterono entrare etc. le caccio», n. 77 [52] «Io havea giurato di mai, né per me né per niuno, adoperarla», n. 79 [15] «Mi giurerete che mai a niuno il direte» etc. [17]Anzi ancora se più cose si metteranno sotto il mai e la particella né si darà anche solo una volta, ad alcuna d’esse tutte l’altre in virtù di questa s’intenderanno ugualmente negate. [18]Così habbiam nel Bocc. n. 95 [6] «Mai ad amar lui né a compiacergli mi recherei»; e n. 38 [20] «Ne seguirebbe che mai in pace né in riposo con lui viver potrei».
[19]Percioché poi non poche volte alcuno si adoperò in senso di niuno, come si ha per moltissimi esempi e del Novelliere antico e di Dante e d’altri scrittori antichi, altrettanto si vuol dire di lui; e chi ha citati come testi fuori di regola quegli del Decamerone, dove alcuno vale quanto niuno e perciò al mai non si è preposto né soggiunto il non, non pare che si sia ben raccordato di quello che altrove havea avvertito, della doppia e contraria significatione d’alcuno.
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Contro e contra.
x. [1]Contro e contra sono due prepositioni sorelle nate a un medesimo ventre, ma più parenti che amiche, onde è che mai non s’accordano a un medesimo caso, ma contro vuole il secondo o ’l terzo, e contra il quarto. [2]Così ne discorrono quegli che hanno in luogo di grandissimo fallo il dire contro me, contra di me e contra a me, dando all’una quel che ragion vuol che sia dell’altra.
[3]Ma se a ragion si guarda, non ve ne ha niuna che basti. Percioché il dire che gli orecchi si dolgono al violento entrar che fa in essi quello squarciato e troppo largo suono che rendono i due a vicini, quando contra s’accoppia con l’articolo del terzo caso, come si vede in contra a me, contra alla città etc. – ciò che si toglie dicendo contro a me, contro alla città – pruova altresì che non si habbia a dire contra alcuno, contra Alessandro e simili quarti casi di voci cominciate dall’a. [4]Oltreché, se si vuole stare al giudicio de gli
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orecchi, che è il lor gusto, in che dispiace loro, per dilicati che siano, quel che il Boccacci disse n. 41 [30] «Contra di voi», e Lab. n. 267 «Contra di lei»? che sono secondi casi. O quell’altro del medesimo nov. 1 [52] «Contro alcuno»; o del Cresc. l. 5 c. 1 «Contro la rabbia»; o di M. Vill. l. 1 c. 74 «Contro la commun verità»? che sono quarti casi.
[5]Se poi si vuole dall’uso de gli antichi e buoni scrittori prendere esempio e far regola, eccone d’almen ducento alcuni pochi testi contrari alla sopradetta osservatione; G. Vill. l. 1 c. 49 «Contro volontà del barcaiuolo», c. 62 «Vittoria contro Rodagio», l. 5 c. 5 «Contro il comune», l. 6 c. 33 «Contro il Soldano d’Araspo e contra quel di Turchia», l. 8 c. 69 «Contro il Cardinale» etc.; e il medesimo l. 2 c. 11 «Contra a Desiderio», l. 4 c. 19 «Contra alla nobiltà», e c. 21 «Contra al Papa», l. 8 c. 62 «Contra al Re», e c. 91 «Contra a lui», e c. 101 «Contra alla libertà», l. 12 c. 90 «Contra alla via», e c. 106 «Contra a’ Reali», etc.; [6]M. Vill. l. 1 c. 68 «Contra a’ tiranni», l. 2 c. 2 «Contra a sua impresa», e c. 27 «Contra a loro nemici», e c. 35 «Contra al suo prospero etc.», l. 4 c. 43 «Contra al piacere», c. 52 «Contra a’ nemici»; Pass. f. 111 «Contra al peccato originale e contra all’attuale». [7]Non dico per ciò che si vogliano imitare, che i Villani per avventura non hebbero orecchie così vive e risentite come il Boccacci, il Passavanti, il volgarizzator del Crescenzi, che se non rade volte e alcuno appena mai non accompagnarono contra coll’articolo del terzo caso; ma il farlo ove mal suona sarà peccato più contro alla musica che alla grammatica.
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Gli, chi, che, sì come etc. stranamente accordati.
xi. [1]Perché v’ha tal volta di quegli che in venir loro a gli orecchi alcuna maniera di dire, come che bella, pur non così bene stampata su la forma della lor grammatica, si crollano e contorcono più che i cedriuoli quando sentono il tuono, ne ho voluto por qui alcune poche parutemi delle più strane, siano proprietà delle particelle, siano misteri della lingua, siano licenze de gli scrittori, che che siano, buone qual più e qual meno se l’autorità e l’uso può farle; [2]e basterà senza chiosa o commento registrarne gli esempi, che quel che v’è di stravagante nella costruttione è sì chiaro che tanto sol che si leggano s’intenderà.
[3]Gli. Bocc. n. 5 [11] «Il quale risguardandola, gli parve bella e valorosa», n. 25 [7] «Il Zima, vedendo ciò, gli piacque»; Filoc. l. 6 [n. 27] «Filocolo, ogni ora un anno gli si faceva».
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xii. [1]Chi. Dante, Conv. f. 98 «Sì come veder si può, chi ben riguarda»; G. Vill. l. 1 c. 39 «Come pienamente si legge per Lucano Poeta, chi le storie vorrà cercare», l. 9 c. 135 «Sì come per lo detto suo trattato si può vedere e intendere, chi è di sottile intelletto», l. 12 c. 76 «E così avviene chi è in volta di fortuna»; Cresc. l. 2 c. 28 «Potransi fare più forti piantamenti chi vorrà»; Purg. 24 [141] «Quinci si va, chi vuole andar per pace»; Brun. Tesoretto [f. 13] «Sì come la candela / luce men chi la cela».
xiii. [1]Che. Bocc. n. 1 [3] «Manifesta cosa è che come le cose temporali sono transitorie e mortali, così in sé e fuor di sé essere piene di noia», n. 80 [Concl. 3] «Veggiamo che, poiché i buoi alcuna parte del giorno hanno faticato sotto il giogo ristretti, quegli esser dal giogo alleviati», n. 41 [51] «Si vedeva della sua speranza privare, nella quale portava che, se Hormisda non la prendesse, fermamente doverla havere egli»; [2]M. Vill. l. 2 c. 2 «Ei si pensava che, ingannando i Fiorentini e venendo della città al suo intendimento, essere appresso al tutto signore», l. 9 c. 61 «E parendo loro che, quanto più si stentava, venire in maggiore indegnazione de’ Fiorentini», l. 10 c. 23
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«Proposto s’havea al tutto nell’animo che, se necessario caso l’havesse ritenuto, di rinuntiare l’ufficio»; [3]Bocc. n. 12 [5] «Seco deliberarono che, come prima tempo si vedessero, di rubarlo», n. 69 [27] «Pirro per partito havea preso che, se ella a lui ritornasse, di fare altra risposta».
xiv. [1]Sì come. Bocc. n. 16 [64] «Sommamente mi saria caro, sì come colui che ancora per lo suo consiglio mi crederei etc.»; G. Vill. l. 11 c. 2 «Perché [la lettera del re Ruberto] tutta è piena d’autorità della divina scrittura, sì come quelli ch’era sommo filosofo etc.».
xv. [1]E in diverse altre maniere. G. Vill. l. 12 c. 1 «E sieno sì diverse che io autore che fui presente mi fa dubitare, etc.»; Cresc. l. 11 c. 5 «Gli habitanti ne’ luoghi caldi anneransi le loro facce»; G. Vill. l. 1 c. 23 «Queste istorie, Virgilio poeta pienamente ne fa menzione nell’Eneidos», l. 8 c. 30 «Fu fatta pace tra’ Genovesi e Pisani, la qual guerra era durata 17 anni»; N. ant. 100 «Quello che io voglio, ella vuole il contrario»; Pass. f. 321 «Il fine è vita eterna, alla quale acquistare insegna la santa scrittura etc.».
Modo proprio del verbo andare.
xvi. [1]Il verbo andare, per essere più spedito all’andare, si gitta di dosso la vocale e qualunque volta in
lei si dovrebbe mutare l’a, secondo l’uso de’ verbi della prima maniera. Perciò egli non camina così: anderò, anderai, anderanno etc., che andrebbe troppo impacciato; ma andrò, andrai, andranno. Così si è molto costantemente osservato da gli scrittori.
[2]Pur troverete esempi del contrario in Dante, Purg. 6 [52] e 7 [67] anderem; Par. 30 [144] anderà; Conv. f. 61 anderebbe; e nel N. ant. 54 e 58 anderete; e nell’Omel. d’Orig. [149v] anderò.
[3]A questa regola non istà suggetto il verbo trasandare, onde il Pass. f. 373 disse bene trasanderebbe.
Io amavo, quegli amorono e simili fuor di regola.
xvii. [1]Il passato che chiamano imperfetto del dimostrativo ha la prima sua terminatione in a: io insegna-
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va, io leggeva, io vedeva, io udiva. [2]Così veramente hanno usato di scrivere i maestri della lingua; e v’è chi dice che chi oggidì scrive io insegnavo, io leggevo etc. non ne troverà esempio appo gli antichi. [3]Ed è vero, se quegli che pur vi si truovano sono errori di stampa, non legittime lettioni. «Io non potevo», disse Dante, Conv. f. 30; smarrivomi, nel medesimo Conv. f. 42; «Io lo seguivo» Inf. 16 [91]; e Bocc. Filoc. l. 1 n. 171 «Io havevo di gratia dimandato»; e Pass. prol. «Havevo volgarmente predicato».
[4]Hoggidì molti amano anzi questa terminatione in o che l’antica in a, e ciò per iscrupolo di coscienza, temendo d’ingannar chi legge o sente se per avventura quella ch’è prima persona sia intesa per terza, già che l’una e l’altra han la medesima terminatione in a: io insegnava e udiva, quegli insegnava e udiva. [5]Ma chi è sì dilicato di coscienza, come non l’è altresì in guastare una regola tanto fermamente osservata fin da che la lingua italiana cominciò a parlare? Tanto più che l’equivoco sopradetto si può agevolmente levare. [6]Leggansi i tanti volumi che habbiamo de’ buoni autori della lingua, osservantissimi di questa regola, e se ne cavino, se vi sono, cotesti equivoci di doppio e am-
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biguo significato per la terminatione rispondente la medesima a due persone. [7]Ma e’ non vi sono, e se pur alcuno ve n’ha, è più da tolerarsi che non quel che consiegue dal finire cotal tempo in o. [8]Imperoché potendosi scrivere ugualmente io leggeva e leggea, io vedeva e vedea, io udiva e udia (che sono le tre ultime maniere de’ verbi), se si dee o si può scrivere io leggevo, vedevo, udivo, si potrà ancora scrivere io leggeo, io vedeo, io udio, maniera sconcia e insopportabile all’orecchio.
xviii. [1]La sopradetta ragione vale altresì a dimostrare che non si de’ dire, come certi usano, pensorono, amorono, studiorono, e così de gl’altri verbi della prima maniera; ma pensarono, amarono, studiarono: [2]peroché potendosi etiandio da’ prosatori scrivere, e molto vagamente, amaro, studiaro, pensaro, etc., di che gli esempi sono in gran numero, chi usa amorono etc. dovrà altresì dire pensoro, amoro, studioro, terminatione da barbassoro; [3]avvegnaché Dante, tirato per i capegli dalla necessità della rima, che l’indusse a stroppiare di molte altre parole, dicesse «Quando i cavalli al ciel erti levorsi», Inf. 26 [36] e 33 [60]; anzi
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ancor nel Conv. f. 60 disprezzorono; e il Malespini c. 15 armoronsi, e G. Vill. l. 9 c. 17 mandoro, che poco appresso disse mandarono, e M. Vill. l. 1 c. 25 andorono, e l. 11 c. 16 usorono, e il Barb. f. 2 comandorno; per non dire dell’Ariosto, che ne ha parecchi esempi di mal esempio, come a dire placorno, numerorse (per ‘si numerarono’), andorno, lagrimoro, tornoro, etc. Anzi ancora il Bocc. Filoc. l. 1 n. 309 tornorono.
Cui, costui, colui senza articolo.
xix. [1]Cui, significante persona, si è usato di scrivere nel quarto caso d’amendue i generi e numeri senza avanti l’articolo: «Colui o colei cui Iddio vuol far beato»; «Coloro cui Iddio vuol far beati», etc.; né si parla altramente. [2]Anzi ancora nel secondo caso, e ciò vaglia per quegli che sì spesso hanno alla penna un cotal dire: il di cui nome, la di cui bontà, le di cui ricchezze, e simili, dove più spacciatamente e meglio direbbono il cui nome, la cui bontà, le cui ricchezze; sì come altresì per cui amore, con cui licenza, nel cui cospetto, etc. [3]Anzi altresì dove non precedono simili particelle, i maestri hanno usato il cui senza l’articolo: N. ant. 54 «Haveano volontà di sa-
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pere cui era», e «Molti dimandavano cui era»; G. Vill. l. 11 c. 125 «Il detto Francesco havea occupata la detta casa e tolta a una donna vedova cui era», l. 12 c. 26 «Con gran danno de’ Genovesi cui era la terra», c. 60 «L’Arcidiacono d’Unforte cui era il castello», c. 72 «Coloro cui eran etc.»; Bocc. n. 38 [30] «Il buon huomo in casa cui morto era», n. 47 [38] «Onde fosti? e cui figliuolo?», n. 100 [33] «Senza mai dire cui figliuola si fosse»; Pass. f[f]. [40-]41 «Scongiurandolo che dovesse dire cui capo era stato, rispose il teschio etc.».
[4]Nel terzo caso, senza l’articolo si truova nel Filoc. delle volte assai: l. 1 n. 31 «Coloro cui Dite è stato così lungo carcere», l. 2 n. 32 «Cara progenie cui la vostra corona è riserbata», l. 3 n. 191 «Guarda che niun altro che quella propria cui ti mando la vegga», l. 6 n. 8 «Cui Filocolo rispose», etc. [5]Pur nondimeno e il Boccacci nell’altre sue scritture migliori del Filocolo, e i Villani, e il Passavanti, e’l volgarizzator del Crescenzi usarono di dar l’articolo a cui terzo caso, ancorché G. Vill. l. 7 c. 7 e in più altri luoghi dicesse «Ma cui Dio vuol male gli toglie il senno»; e Alb. Giud. Tratt. 1 c. 25 «Coloro cui sono promesse», e c.
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50 «Colui cui ella dà troppa baldanza»; e Brun. Eth. f. 93 «Questa ingiuria cui ve ne richiamaste?»
[6]Ben è più strano a udire cui in primo caso; e l’udirà mille volte in bocca dell’Uberti chi ne leggerà il Dittamondo, dove appena mai s’incontra un chi: «O quanto è fol [dice egli l. 6 c. 11] cui ode il bando e sallo / del suo signore, se ’l contrario fa. / O quanto è fol cui in Dio non ha fé. / O quanto è fol cui male altrui desidera»; e l. 1 c. 29 «Cui ti potrebbe dir gli molti danni, / cui ti potrebbe dir la lunga spesa, / cui ti potrebbe dir i gravi affanni, / ch’allor soffersi per tanta contesa» etc. [7]E prima dell’Uberti, Alb. Giud. Tratt. 1 c. 33 «Cui la fortuna una volta perde, appena unque la restituisce»; ben usò vagamente il medesimo Tratt. 1 c. 22 un cui per quegli la cui etc., in questo modo: «Seneca dice, la cui morte gli amici aspettano, tutti gli altri la sua vita invidiano».
xx. [1]Simili in parte sono i pronomi costui, costei, colui e colei, ponendosi nel secondo caso senza di in
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questo modo: N. ant. 56 «Il mise alle forche in colui scambio»; Fiamm. l. 5 n. 115 «Al colei grido»; G. Vill. l. 2 c. 16 «Al costui tempo»; Bocc. «Per le costoro opere», n. 33 [11] «Per lo costoro amore», n. 80 [25] «Si uscì di casa costei», n. 81 «Porse gli orecchi alle costoro domande»; Dante, Inf. 5 [104] «Mi prese del costui piacer sì forte».
Uso de gli accenti.
xxi. [1]Sopra la natura, il numero, la diversità, la forza, il che so io de gli accenti, si leggono appresso valenti huomini speculationi da non increscerne a chi ha tempo da gittare in cosa che vale a poco più che niente. [2]Quanto all’uso d’essi: alcuni accentano quasi ogni parola ch’è d’una sillaba sola terminata in vocale, e come queste son sì frequenti, le loro scritture paiono uno stormo d’allodole o d’upupe, col pennacchio e la cresta in capo. [3]Io per me non so che vi si facciano, e mi par poca discretione gravar quelle misere sillabe, che per la piccolezza sono le più deboli e per ciò dovrebbono essere le men premute. [4]Temono per avventura che se non iscrivono può, ciò, quà, giù etc.,
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chi legge pronunzi pùo, cìo, qùa, gìu, etc. Per ciò priemono con l’accento l’ultima vocale. [5]Ma questa per avventura sarebbe carità di qualche merito se si usasse con gente del mondo nuovo, la quale apprendesse la nostra favella su’ libri. [6]Benché né anche con ciò si tolga l’occasione d’errare pronuntiando, peroché se vogliam fingerci de gl’ignoranti, eccone di quelli che crederanno che può, ciò etc. sieno due sillabe da spiccarsi amendue, premendo l’ultima con l’accento. [7]Che se vogliamo che sappiano questi esser dittonghi, già siam liberi dal temere che pronunzino né pùo né cìo. [8]Nell’altre che non hanno dittongo, rè, fé, fà, mà, sù, sà etc., alcuni dicono che s’imprima con l’accento una tal virtù che le ingravida e riempie d’un suono maggiore, e lor dà valor di due tempi, ond’è che i versi che finiscono in alcuna di così fatte voci contano una sillaba meno, perché il posar che vuole quella parola accentata non si può far che in ispatio di due tempi. [9]Ma quanto al suono, io son di quegli che non sanno comprendere che differenza sia per esempio fra sù e su, sò e so, pronuntiati con l’accento e senza: perché né l’o si rende più largo o più stretto, né l’u più ottuso o sonoro.
[10]Quanto poi alla forza di raddoppiare i tempi, per tacer qui di Dante che più d’una volta fe’ corrispondere in rima due monosillabi a voci di più sillabe non accentate nell’ultima, onde leggiamo Inf. 30 [83-87] non ci ha rima d’oncia e sconcia, Purg. 24 [131-135] sol tre rima con oltre e poltre, Par. 5 [122-126] dì dì rima con ridi e annidi; e nel Ditt. l. 5 c. 6 mal va rima di salva e malva, e l. 6 c. 10 nol fo rima di solfo e golfo; [11]bastimi dire che converrà che si pianti un ac-
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cento in testa a me, te e molte altre così fatte voci, che poste in fine de’ versi pur li rendono tronchi e nondimeno interi. [12]Né qui vale il dire che le parole di più sillabe haventi l’accento che loro posa sul fine vaglion due tempi, percioché già si vede ch’etiandio quelle d’una sillaba sola che non si scrivono coll’accento pur anch’elle hanno la medesima forza. [13]Poi v’è ragione onde notar l’accento su la fine di parole di più sillabe, peroché elle per avventura il potranno havere nel principio o nel mezzo, e se non tutte in individuo, almeno in ispecie. Per esempio formo, serviro, studio, parti, pero etc., se non si accentano, sono altri tempi o altre cose, come ognun vede. [14]Ma le voci d’una sillaba sola non metton dubbio di sé, onde bisogni segnarle con l’accento, peroché in esse la prima e l’ultima sillaba è una medesima, cioè una sola.
[15]In così scrivere, io non ho pensiero di condannare chi usa gli accenti, comunque sel faccia e quantunque ne adoperi, benché facesse ogni parola un’istrice; ma ben sì ch’essi non si facciano a condannare chi, stimando inutile ogni altro lor uso, gli adopra solamente ad effetto di distinguere le parole di doppio significato, le quali con l’accento si mostrano determinate a
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quell’un de’ due che si vuole, secondo l’uso in che già sono. [16]Perciò scriveranno dì, piè, sé, sì, già, là, né, dà, è etc. per lo latino dies, pes, se, ita, iam, illuc, neque, dat, est etc., e ciò perché le medesime voci di e dì, pie e piè, se e sé etc. han diverso significato, come è facile a vedere. [17]Similmente ne’ verbi, i tempi passati morì, servì, finì, formò, studiò, consigliò, godé, premé, empié etc., e gli avvenire ferirò, goderò, spedirò, farò etc., perché senza l’accento diventano nomi o verbi d’altro tempo. [18]Vero è che, come in così fatte terminationi delle cento non ve ne ha le dieci che, trattone l’accento, habbiano verun significato, sì come altresì ne’ nomi età, severità, eternità e simili, la ragione almen qui può rendersi all’uso, scrivendo accentate le parole di più sillabe, ancora che non siano di lor natura equivoche.
Verbi che traspongono l’l o l’n.
xxii. [1]Fra’ verbi, ve ne ha certi pochi che talvolta traspongono alcuna lor lettera, cioè n o l: piango, piagni; tolgo, togli, etc. [2]Il Castelvetro ne dà questa re-
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gola. Quanto a’ primi, l’n non si pospone mai se non dove le vien dietro i overo e. Perciò potrà dirsi piagni e piagnere, giugni e giugnere; così pugnere, mugnere, spegnere, etc. [3]Quanto a’ secondi: il g si può sempre antiporre ad l e dire in tutti i tempi dov’entra: toglio, togli, toglie, togliono, etc.; ma non si può posporre se non dove truova io overo ia seguenti a quelle voci nelle quali il g s’antipose. [4]Dunque in vece di toglio, toglia, togliono, scioglio, scioglia, sciogliono, si potrà dire tolgo, tolga, tolgano, sciolgo, sciolga, sciolgano; così colgo, scelgo, divelgo, salgo. [5]Volgo non ha tal variatione, altrimenti i tempi suoi si confonderebbono con quegli del verbo volere.
Alcuna cosa detto in vece d’un poco.
xxiii. [1]Il dire alcuna cosa in vece d’un poco o d’alcun poco (usato altresì vagamente da’ buoni scrittori) mo-
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stra che dispiacesse assai più del dovere a chi lo chiamò «novità mostruosa». [2]Anzi, ella è anticaglia, ma però bella, avvegnaché per avventura non così usata, com’etiandio mille altre ottime forme di dire che si rimangono sepellite ne’ libri mastri della lingua, se non v’è chi habbia di loro pietà e voglia risuscitarle. [3]Usolla il Bocc. n. 38 [15] «E se pur alcuna cosa se ne raccordava»; G. Vill. l. 7 c. 54 «Come alcuna cosa raccordammo addietro», Cresc. l. 5 c. 1 «Porvi alcuna cosa di letame», e c. 13 «Alcuna cosa d’humore», l. 9 c. 37 «Quando il detto nervo pare che alcuna cosa si pieghi», etc; e c. 104 «In catino in che abbia alcuna cosa d’acqua»; M. Vill. l.
5 c. 88 «La misura del sale fu alcuna cosa consentita loro per migliore mercato».
Saramento e sacramento.
xxiv. [1]Distinguono saramento e sacramento, e vogliono che il primo s’adoperi solo ove si parla di promesse giurate: far saramento, promettere sotto saramento, etc.; e sacrilegio sarebbe l’usar quivi la parola sacramento, riserbata a significar quello a che com-
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munemente l’adoperiamo. [2]Questo canone convien dire che fosse fermo da’ padri della lingua sol da poi che il Malespini hebbe scritto; altrimenti gran fallo sarebbe stato il suo a violarlo, adoperando, come fe’, sacramento in significato di ‘promessa’; dove poscia a non molto il Boccacci e i Villani usarono saramento. [3]Avvegnaché pur M. Vill. l. 1 c. 69 dicesse «E le obbrigagioni, e le carte, e ’l sacramento [cioè il giuramento] fece fare»; e c. 76 «Ricevette il sacramento e l’omaggio da tutti i Baroni». [4]Anzi il Boccacci stesso l’usò due volte nella Vis., c. 18 e 21. E quel ch’è più da stimarsi, il Passavanti, religioso e teologo, l’adoperò senza scrupolo, scrivendo al f. 144 «Né sacramento né promessione».
Medesimo in forma d’avverbio.
xxv. [1]La voce medesimo si è usato adoperarla molto acconciamente a maniera d’avverbio, non accordata con genere né con caso, e data a’ luoghi: G. Vill. l. 9 c. 185 «Tutti i poveri di lor contado fuggirono per la fame a Firenze, e in Firenze medesimo fu caro», l. 10 c. 35 «Il Bavero havea etc. popolo grandissimo del contado di Lucca e di Pisa medesimo»; M. Vill. l. 9 c. 105 «Fermato a Briagni il trattato della pace etc. fecero ivi medesimo una triegua». Questo modo è lecito e buono. [2]Non così un altro di cui faremo una giunta più sotto, che accorda medesimo con persone, generi e numeri tutto fuori di regola e d’uso.
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Ogni e ognuno in senso di ciascuno.
xxvi. [1]Io vidi già sedere un valente huomo sul banco de’ giudici a dar sentenza fra ciascuno e ogni overo ognuno, e in esaminar le loro ragioni forte dibattersi e intendere alle grida hor dell’uno hor dell’altro. [2]In fine, dopo lungo contendere, ognuno se ne andò condannato a non dover comparire altro che dove si parli di molti, e non singolarmente ma di tutti insieme. [3]Tal che ragionandosi per esempio de gli apostoli, non si dica ognun di loro essere stato povero, ma ciascuno. Molto meno di Pietro e d’Andrea, o di Iacopo e Giovanni, che ognun di loro era pescatore, ma similmente ciascuno, ch’è voce de’ singolarmente presi, sì come ognuno è de’ tutti insieme. [4]Ma con buona pace di messer lo Giudice, Dante e il Boccacci vogliono haver detto bene, e sì anche vogliono che ben dica chi in avvenire parlerà come essi: quando, etiandio se di tre, o anche sol di due, presi singolarmente, in vece di ciascuno (ch’è il più usato) si vorrà alcuna volta adoperare ognuno. [5]E basti un testo ad ognun di loro per dimostrarlo. Dante, nella cant. 34 dell’Inferno, descritte le tre facce di Lucifero, soggiunge: [55-57] «Da ogni bocca dirompea co’ denti / un peccator, a guisa di maciulla, / sì che tre ne facea così dolenti»; e
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prima havea scritto, c. 22 [55-56]: «Di Ciriatto, a cui di bocca uscia / da ogni parte una sanna come a porco»: la qual ogni parte era la destra e la sinistra, senza più; [6]Bocc. n. 81 [18] «La fante n’andò ad amenduni, e ordinatamente a ciascuno, secondo che imposto le fu, disse. Alla quale risposto fu da ognuno che non che in una sepoltura, ma etc.». [7]Credo ancora che quando M. Vill. l. 3 c. 48 scrisse «Più di due mila huomini d’ogni sesso», sapesse che ogni sesso eran due, di maschio e di femina. [8]Ancora è da notarsi quel di Brun. nel Tesoretto: [f. 23] «Per saper la natura / d’ognuna creatura», non trovandosi ognuno altro che in forma di sustantivo.
Figliuolo, figlio e primogenito.
xxvii. [1]Figliuoli è ben detto universalmente, avvegnaché non tutti sien maschi: così sta ben nominarli dal genere ch’è più degno. [2]Bocc. n. 33 [8] «Havea più figliuoli, de’ quali tre n’erano femine e due nate ad un corpo»; n. 34 [4] «Due figliuoli, l’un maschio e l’altro femina»; n. 36 [8] «Tra più altri figliuoli, una figliuola havea»; n. 17 [9] «Havea costui tra gli altri suoi molti figliuoli e maschi e femmine, una figliuola etc.»; n. 86 [5] «Dalla quale havea due figliuoli. L’uno era una giovinetta d’età di quindici o sedici anni, l’altro era un fanciul piccolino». M. Vill. l. 3 c. 8
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«Morì una sua fanciulla, che altro figliuolo non havea dalla Reina» etc.
[3]Per la medesima ragione, dove sotto altro nome o pronome si comprendano due o più, de’ quali altri siano maschi, altri femine, ben si userà il primo genere, non il secondo. [4]Così il Boccacci n. 46 [36] «Re, di che t’hanno offeso i due giovani?»: l’uno era Gian di Procida, l’altra Restituta; n. 43 [51] «L’un [Pietro] dalle forche ha campato, e l’altro [l’Agnolella] dalla lancia»; pur nondimeno qui si poteva dir l’altra, peroché si comprendono sotto due voci distinte l’uno e l’altro, non sotto una sola, come i giovani e più sopra i figliuoli.
[5]Figlio è voce usata più da’ poeti che da’ prosatori. Pur Dante nel Convivio l’ha oltre a dodici volte: se ne veggano i fogli 58 e 97. [6]I Malespini l’adoperarono indifferentemente. E si legge altresì nel Bocc. Amet. f. 77, Filoc. l. 2 n. 291 e in G. Vil. l. 8 c. 19, l. 10 c. 141, l. 11 c. 54, l. 12 c. 114; M. Vill. l. 1 c. 9 etc.
xxviii. [1]Primogenito è voce che s’accorda col genere e col numero delle persone: Dante, Conv. f. 14 «Fanno li primigeniti succedere»; M. Vill. l. 1 c. 9 «Giovanna primagenita».
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Del z e del t.
xxix. [1]Testimonio di veduta è Luciano, che a’ dì sette d’ottobre, «imperante Aristarcho Phalereo», il t citato in giudicio avanti il Senato delle Vocali, e quivi accusato e convinto de vi et rapina, fu con sentenza capitale condannato ad essere non che crocifisso, ma croce. [2]Hor dopo tanti secoli, il z si è fatto a muovergli lite sopra ’l luogo , accusandolo d’usurpata possessione, e giudice il Trissini, questa misera croce, nata per tormentare, si è spiantata da gran numero di parole, entrando in luogo d’essa il z, lettera in ciò veramente doppia e ingannevole, e pur niente meno funesta del t, onde Appio Claudio tanto fuggiva di pronuntiarla, perché, diceva, in farlo si commettono i denti alla maniera de’ morti.
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[3]Ciò mi sia lecito haver detto sol per mettere, come n’è degna, in burla una lite che alcuni fanno sopra queste due, t e z, tanto arrabbiatamente, che vi si sente più l’r de’ cani che della Ragione. [4]Chi non iscrive orazione, azione etc. l’han per huomo che non ha orecchi, o se gli ha, il condannano a portarvi appiccati per orecchini due ciottoloni, i più grossi che meni l’Arno giù dalle montagne di Falterona. [5]Un di questi, huomo sottilissimo nel notomizzare le lettere, talché giunse a trovarne il sesso e a distinguere nell’a, b, c i maschi dalle femine, ne ha scritte cose mirabili. [6]Un altro, che si teneva per lo maggior maestro in lingua italiana che sia vivuto al mondo, da che memini sta per ‘ricordarsi’, mi disse d’haver trovata la dimostratione con che evidentemente si chiarisce doversi scrivere orazione, azzione etc. e non altramente: e perché non havea cento bovi da sacrificare come Pitagora, havea fatta una ecatombe di cento grilli. [7]Io non hebbi gratia di veder quella dimostratione, che sua mercé sarei uscito d’errore e non istimerei, come pur tuttavia io stimo, che né si vuole condannare il z né si può condannare il t, peroché per l’una e per l’altra di queste due lettere v’è tanto d’autorità e di ragione, che il
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giudicio tutto passa in arbitrio. [8]Poiché dunque, per quella riverenza che si vuole havere a tanti savi huomini che scrivono il z, non mi fo né pur a pensare di riprovarli, mi resta solo a dire alcuna cosa in difesa del t.
[9]A cui si oppone in prima l’autorità de’ maestri e padri della lingua, che nelle loro scritture usarono il z, non il t. [10]Ma ciò si vuol dire a chi mai non ne ha veduto carta, se non se forse di certi che si son ristampati e corretti da quegli che usano il z e ne han tolto il t scrittovi dall’autore. [11]Sì come altresì non poche mutationi vi si son fatte, trasformando la maniera dello scrivere antico alla foggia moderna, nel qual senso si vuole intendere che son ridotti alla vera loro lettione. [12]Il Boccacci del Mannelli, ch’è ricevuto per lo più fedel testo di quanti ne vadano attorno, il Convivio di Dante e la Commedia sua, riscontrata con quella medesima che copiò il figliuol dell’autore, e così fatti altri testi vergini o veri come vogliam dirli, hanno il t, non il z. [13]Non dico già che non si truovi in alcuni anti-
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chi e buoni autori indifferentemente posta hor l’una lettera hor l’altra per esprimere il medesimo suono, che in ciò v’è non poca varietà: dico sol quanto basta al bisogno che l’autorità degli antichi non può adoperarsi, come altri pur vuole, contra l’uso del t, come questo sia turbatore del possesso che il z havesse nelle scritture fin davanti al buon secolo. [14]E lodato Iddio che per fino a hoggidì si serba dal S.D. Carlo Ventimiglia, cavaliere palermitano, per nobiltà e per lettere ugualmente illustre, una buona parte del Canzoniere del Petrarca, testo, come certo si crede, a mano propria dell’autore, eredità de’ suoi maggiori, che l’hebbero dalla libreria del famoso Alfonso re di Sicilia; ed io, trascritti fedelissimamente, ne ho havuti per saggio del rimanente il primo, secondo e terzo sonetto e la canzone Vergine bella etc., ch’è la 49. [15]Hor in questi, quanto al z, egli non vi si truova, ma ben vi si legge due volte gratia e conscientia e spatio e stratio. [16]E se si havesse a dire anche dell’h, v’è hom, honore, hebbe; anzi, secondo l’uso d’allora, chome, pregho, negho, triumpha etc. [17]Sì come al contrario v’è uom, umane, anno per habent
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etc. Varietà che similmente si vede in tutti gli scrittori di quel buon secolo non riformati dalle stampe di questi ultimi tempi.
[18]Secondo: oppongono la natura stessa di questa lettera, la quale noi pronuntiamo tenera, e i Latini, cui pare che seguitiamo, la pronuntiarono dura: peroché tale l’espressero per esempio in patientia quale noi l’esprimiamo in patire. [19]Ma di cotale scolpire che i Latini facessero il t duro non si è fin hora trovato chi per miracolo ce ne rechi ombra di pruova. [20]Né a noi sta il dimostrare che quegli il pronuntiassero tenero, peroché noi non difendiamo il suon che gli diamo con dire che così e non altrimente proferivano i Latini, ma che gl’Italiani, havendolo usato da che v’è memoria della lingua, il battevano come noi.
[21]Terzo: il t, havendo hor un suono hor un altro, è stranamente equivoco. E chi vuole altro che indovinando sapere dove si debba pronuntiar tenero e dove duro? [22]Peroché, se diciamo che tenero si pronuntia quando gli vengon dietro due vocali, dunque sentia, sentiamo, ostia e simili si dovranno esprimere sì come se scrivessimo senzia, senziamo, oszia etc. [23]Questo argomento pare ad alcuni un nodo indissolubile; e si conta d’uno che afferrò certo pover huomo nella go-
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la, e se non rinnegava solennemente il t, il minacciava di soffocarlo: e ciò perché datogli a leggere un nome proprio appena mai udito raccordare, il meschino non seppe se dovesse pronuntiarvi aspro o molle il t che v’era innanzi a due vocali. [24]Hor qui, per rispondere, havrem noi a fare come i poeti, che rinnuovano l’invocatione alle Muse e di maggior memoria e di più alto ingegno le priegano, quando stanno sul mettersi al racconto di qualche fatto che ha forte del grande? [25]O habbiamo a confessare che il t dà un gran che fare a gl’Italiani, e che convien loro studiare e sudarvi intorno delle volte più di millanta, prima che sappian dove si ha a proferire in questo suono e dove in quell’altro, tal che sia meglio sterminarlo dalle scritture e in sua vece riporre il z, che tanto sol che si vegga s’intende, peroché non ammette diversità di pronuntia? [26]Ma noi ciò veramente non proviamo, peroché l’uso (ciò che altresì avvien di certe lettere del nostro alfabeto, che ricevono più d’un suono) non ci lascia bisogno di studio.
[27]Che se pur anche volessimo, in gratia de gli stranieri, ridurre a qualche buon canone l’anomalia del t, egli potrebbe farsi, e agevolmente, riducendo le voci che l’hanno a certi tre ordini ch’io ne havea meco medesimo divisati: benché da poi, non mi parendo di poter giurare su la *┼ dell’abbiccì, che in tutto il gran
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numero di cotali parole niuna ne rimane fuor di regola, me li taccio, per non venderli a più di quello che non so indubitatamente che vagliano. [28]Ma in vece di regolare la diversa pronuntia del t, mi son volto a cercare se veramente l’uso del z sia tanto semplice e spedito, che in paragone d’esso il t debba dirsi imbrogliato e per ciò da lasciare non senza guadagno. [29]E percioché chi scrive e parla contra il t non si regge solo con l’uso, me ne considera per così dire l’essere e la natura, facciam noi altrettanto del z. [30]Ed in prima, eccovene di tre maniere quanto al suono, l’un dall’altro sì differenti che per ben della lingua confessano che si vorrebbono scrivere con tre caratteri di figura fra loro diversi. [31]Percioché v’è un z che ha forza di ds, e due ve ne sono che l’hanno di ts: quello si sente in zefiro ed è rozzo, questo in zoppo dov’è aspro, e in letizia dov’è sottile, ed è quello che ha da esprimere il nostro t dolce. [32]Hor se in tanta varietà di suoni noi pur sappiamo come e dove scolpire si debba il z rozzo e l’aspro e ’l sottile, percioché l’uso ce n’è maestro, che perplessità si vogliono fingere nel pronuntiare il t, ch’è men equivoco del z? [33]Se non se per avventura in qualche straniero di Linguadoca, e tale che se proferirà gratie e restie col medesimo t, proferirà altresì pazienza e verziere col medesimo z, s’havrà a condurre per via di regole come noi faremmo se l’ammaestrassimo a pronuntiare il t.
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[34]Poi; chi ha gli orecchi, non ha bisogno che gli si pruovi che diversamente si proferiscono attione e oratione. [35]Hor ad esprimere in iscrittura attione e somiglianti altre voci che si vogliono battere con due t, havrem noi a valerci d’un sol z o di due? [36]Se d’uno, o egli ha forza di due t o d’un solo; se di due, non si dovrà usare in oratione e simili parole d’un solo t, e converrà per queste fondere un quarto z sì dilicato, che sia sol la metà del sottile; se d’uno, non havendo il z suono sottile se non davanti all’i cui siegue l’altra vocale, che suono havrà il primo z a cui ne vien dietro un secondo? [37]Se vorrem dire ch’egli pur si rintuzza, havrem che fare assai a spiegare in che stia questo suo rintuzzarsi: o troncandone l’s che alquanto più che virtualmente contiene; o proferendolo con altro suono che non il z seguente. [38]Che se altri vorrà tutto insieme uscir di questi impacci con dire che la costante regola di voltare il ct e il pt latino in due t nostri non si debba osservare in quelle voci che hanno doppia vocale dopo il t, come actio, lectio, descriptio, conceptio etc., onde noi mal diciamo attione, lettione, descrittione, concettione etc., essì bene azione, lezione, descrizione, concezione etc.; questi in ciò mostrerà che veramente è huomo, usando suo libero arbitrio per dir quel che vuole.
[39]Ma eccovi una parte di quegli che professano di
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ben parlare trarre avanti e gridando cacciar da tutte le voci italiane i due z vicini, e ciò perché, dicono, questa è lettera doppia, e se due se ne scrivono in pozzo, in bellezza, in piazza etc. il suono riuscirà rinquartato, con quattro consonanti insieme, ciò che la nostra dolce pronuntia non soffera. [40]E se v’è a cui paia che pur vi sia una non so qual forza maggiore in proferire bellezza che belleza, avvezzo che avvezo, sozzo che sozo; no, dicono, ella non v’è, né, per cercar che si faccia, già mai sarà che vi si truovi, se non imaginandola con cattivar l’orecchio e volere ch’egli pur senta quel che non sente; [41]ond’è il condursi a scriverla, ciò che fan certi semidotti, che per ortografizzare cacografizzano, come altresì mettendo l’h dov’ella non si pronuntia; e si vede chiaro, però che se que’ due z s’havessero a battere per farli intendere, bisognerebbe, leggendo zazzera e zizzania, metter qua-
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druplicato fiato, rompersi una vena nel petto, scoppiare. Così appunto dice un di loro. [42]Ma percioché la sperienza ci mostra che proferendo zazzera, zizzania etc. noi non iscoppiamo, e ciò non per miracolo che si faccia, che altro si vuol dire se non che i due z non si pronuntiano? dunque non si debbono scrivere, peroché la pronuntia è copia al naturale della scrittura. [43]Hor vadansi a far cambiare gli orecchi quegli che scrivono zazzera e fierezza e pozzo e somiglianti altre voci non per servire all’uso, ma perché veramente par loro così doversi a voler esprimere fedelmente il maggior suono che nel doppio z si sente. [44]Ma prima di spiantarci del capo questi orecchi che v’habbiamo con le radici fin dentro al cervello, veggiamo se si può con ragione sodisfare a quegli che cel consigliano. [45]E qui si fa innanzi un gran difenditore del z, e fatto silentio con un maestoso alzar di mano, in prima confessa che le consonanti doppie ragion vuole che non si raddoppino, ma niega che tutti i z sian doppi; e se il paiono ad alcuno, ciò è perché confondono e hanno per un medesimo l’esser composto e l’esser doppio. [46]Ogni z, dunque, aspro e rozzo, è composto di t e d’s, overo di d e d’s, ma non è sempre doppio, e ciò allora ch’egli prende non tutto intero il suono delle due consonanti che il formano, ma una sola metà di ciascuna: così veramente è composto e non è doppio; e se doppio non è, si riman con Dio la ragione allegata di non doverlo raddoppiare. [47]Il sottile poi che si usa ad esprimere il nostro t molle, in gratia, otio etc., non è né doppio né composto, ma una cosa gentile, un terzo semplice non so che, un vel dica chi il sa, non io che non l’intendo: peroché s’egli non è ts, non è z, ma
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un’altra nuova lettera dell’alfabeto. [48]Se già non volessimo filosofar delle lettere come de’ corpi misti, ne’ quali una gran parte de’ savi maestri insegnano trovarsi gli elementi con la sola virtù, non etiandio con l’essere delle lor forme.
[49]Ma che che sia di questa notomistica speculatione de’ z doppi e composti, di che v’havrebbe assai che dire, altri vorrà, e forse più conformemente al vero, che quantunque il z habbia forza di più che una delle altre semplici consonanti, non si debba però filosofarne com’egli fosse due lettere distinte nel suono lor proprio e naturale, e sol confuso nella cifera che le segna, ma rintuzzate, anzi alterate e divenute un terzo e particolar suono, che non è quello delle due parti che il compongono (per concedere che pur di lor si compongano) se si pronuntiassero l’una presso all’altra spiccate. [50]E mi par che ciò sia manifesto a gli orecchi, i quali giudicheranno altro suono essere dsefiro e zefiro, tsappa e zappa, vertsiero e verziero, etiandio pronuntiando l’s in quel suon proprio che a ciascuna di così fatte voci si dee, de’ vari che ne ha più e meno aspri. [51]Hor questo suono così fattamente proprio del z, chi niega che in pratica non si possa pronuntiare con quella maggior forza con che si fa le consonanti doppie, ci dica come egli faccia a proferire accetto, raddoppiare, abbassare, affliggere, sotterrare etc., e creda certo che noi altresì nel medesimo modo spicchiamo il primo z in pozzo, mezzo, bellezza, zazzera, com’egli le prime consonanti delle doppie sopraccennate; [52]e se ciò non può farsi supponendo che due z richieggano quattro suoni di consonanti spiccate, mentre pure i due z al modo detto s’esprimono, si de’ per conseguente dire ch’egli non sono quello ch’essendolo non potrebbono proferirsi. [53]Che poi due consonanti (se voglion che sia) unite nel z producano un suono
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particolare e proprio, differente da amendue, benché senta un non so che di ciascuna, non de’ parere strano, ove pur veggiamo che ciò si fa etiandio in alcune lettere, delle quali, nello scriverle, si ritiene la divisione e la figura lor propria. [54]E siane in esempio la sc, che posta avanti ad i overo ad e non si pronuntia né come s, in verun de’ suoi vari suoni, né come c, etiandio posto innanzi ad i overo e, ma quel che sentiamo in proferire scienza, scilocco, sceleraggine, scemo.
[55]E tanto basti haver detto del z, non per condannare chi l’usa in vece del nostro t, o chi nol raddoppia, ma sol perché qualunque sia che dubiti se anzi all’una o all’altra maniera di scrivere debba appigliarsi, da quel che si è detto e da quant’altro egli medesimo ne potrà ripensare si volga a qual delle due parti gli parrà più doversi, volendo procedere con ragione, non lasciandosi determinare ab estrinseco hor sia da questa hor da quella, e poi schiamazzando senza saperne il perché contro a chi va diversamente.
L’infinito di verbo attivo senza affisso in forza di passivo
xxx. [1]L’infinito, etiandio se de’ verbi semplicemente transitivi, accompagnato d’alcuna prepositione a lui conveniente (avvegnaché tal volta ancora senza es-
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sa), diventa come a maniera d’assoluto, senza richieder pronome affisso che espressamente il dimostri qual è virtualmente, passivo. [2]Questa è forma di dire che habbiam continuo in bocca: bella cosa a vedere, dura a sofferire, e simili; ma ancor facile a condannare, ove altri s’avvenga in alcun simil dire non così trito e in bocca d’ognuno. [3]E tali per avventura parranno i seguenti: N. ant. 36 «Io son costumato di levare a provedere le stelle», cioè ‘di levarmi’; n. 54 «Niuna donna s’osava di rimaritare [cioè ‘di rimaritarsi’] da poi ch’il suo primo marito era morto»; G. Vill. l. 4 c. 30 «Fu condannato ad impiccare», cioè ‘ad essere impiccato’; M. Vill. l. 5 c. 12 «La battaglia fu ordinata e le forche ritte, e ’l figliuolo messovi a piè per impiccare», cioè ‘per impiccarlo’; G. Vill. l. 10 c. 48 «Il detto Giovanni non era degno di scrivere in cronica», cioè ‘d’essere scritto’; l. 12 c. 83 «Si proposono di convertire alla fede di Christo»; [4]Bocc. n. 43 [16] «La quale gli pareva vedere o da orso o da lupo strangolare»; n. 48 tit. [1] «La qual vede questa medesima giovane strangolare»; Fiamm. l. 4 n. 63 «Niuna bestia è a cacciar abile»; l. 5 n. 100 «Chi di consigliar s’affretta, si studia di pentire». [5]Queste, e simili altre a gran numero, non sono punto più strane che le seguenti, agevoli e piane a intendere: G. Vill. l. 1 c. 22 «Sono maravigliose e paurose a riguardare», l. 8 c. 70 «Demonia orribili a vedere»; Bocc. n. 31 [55] «Versò tante lagrime che miracolo furono a riguar-
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dare»; n. 44 [36] «Affrettatasi di vestire»; Cresc. l. 5 c. 19 «Cibo tardo a smaltire»; l. 9 c. 65 «Quando son febbricosi, si conoscono in ciò, che sono caldi al toccare», etc.
Piovere, tonare etc.
xxxi. [1]Il verbo piovere (si come ancora certi altri che chiamano impersonali) si è adoperato tal volta non solamente retto, ma reggente alcun caso a maniera d’attivo; come che molti il nieghino, condannando d’errore il dire «Le stelle piovono influenze», «I nuvoli piovvero sassi», etc. [2]Con nome avanti si vede ne’ seguenti esempi: Petr. son. 20 [24 2] «Quando il gran Giove tona», e son. 33 [41 4-5] «Per rinfrescar l’aspre saette a Giove / il quale hor tona, hor nevica et hor piove»; Fazio, Ditt. l. 2 c. 1 «Che par che toni tutta la foresta»; Fiamm. l. 5 n. 35 «O sommo Giove etc. tuona»; Dante, Par. 23 [99] «Parrebbe nube che squarciata tona»; G. Vill. l. 12 c. 66 «Parea che Iddio tonasse»; F. Vill. c. 89 «Parea che ’l ciel tonasse».
[3]Ne’ seguenti ha dopo sé caso proprio. Dante, Conv. f. 38 «Sue beltà piovon fiammelle di foco / animate d’un spirito gentile», e f. 51 «E però dico che la beltà di quella piove fiammelle di fuoco»; Inf. 33 [108] «Veggendo la cagion che ’l fiato piove», Par. 27 [111] «La virtù ch’ei piove»; Filoc. l. 2 n. 43 «Il saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore, il giorno ch’elli nacquero», etc.
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Del raddoppiare o no le consonanti delle particelle affisse.
xxxii. [1]Le particelle mi, ti, ci, si, lo e altre somiglianti che si aggiungono a voci, hor sian d’una sillaba sola hor di più, haventi l’ultima accentata, raddoppiano la lor consonante pur ch’ella non habbia consonante dopo sé. [2]Come a dire, se in vece di mi dà, ci verrà, ti dirò, le sa etc. posporremo le particelle mi, ci, ti, le, scriveremo dammi, verracci, dirotti, salle etc. Non già faroggli, perché gli ha doppia la consonante. [3]Dante però, hor per bisogno della rima, hor perché così volle, scrisse Par. 13 [33], 24 [103], 26 [123] e Purg. 22 [90] fumi (cioè mi fu), Par. 32 fune (ne fu), Purg. 29 [66] fuci (ci fu), Purg. 25 [42] vane (ne va), Purg. 14 [76] parlòmi, etc.
[4]Ma se la voce alla quale le sopradette particelle s’aggiungono non è intera, ma tronca, la consonante non si vuol raddoppiare. [5]Perciò in vece di la farai, le dirai, ti ricorderai, scriveremo farala, dirale, ricorderati. [6]Così in Dante habbiamo levàmi, vedràmi, entràmi, rendéle etc. che vagliono ‘mi levai’, ‘mi vedrai’, ‘m’entrai’, ‘le rendei’; [7]nel N. ant. domandàlo, vuotu, havrene per ‘lo domandai’, ‘vuoi tu’, ‘ne havrei’; nel Pass. deti, hala per ‘ti dei’, ‘l’hai’; [8]nel Bocc. vuotu, votene, farami, comincerane, fami, ingegnerati per ‘vuoi tu’, ‘te ne voglio’, ‘mi farai’, ‘ne comincerai’, ‘mi fai’, ‘t’ingegnerai’; [9]nel Cresc. terralo e userane, desi, trane per ‘lo terrai’ e ‘ne userai’, ‘si dee’, ‘ne trahi’; e
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altri innumerabili. [10]Questa è regola ferma, né si vuole scrivere altramente, avvegnaché i correttori della Fiammetta l. 4 n. 111 v’habbiano consentito un hattene per ‘te ne hai’.
[11]Hor se in que’ verbi che per loro natura o per l’uso che v’è d’accorciarli han doppia terminatione, come concepé e concepette, die’ e diede e altri simili, la particella che s’aggiunge al tronco e al meno, accentato nell’ultima sillaba, debba doppiar la consonante come unita a voce intera o ritener la semplice come accorciata, perché non v’è chi ne parli, a me parrebbe che alle tronche non si dovesse raddoppiare la consonante, ma ben sì a quelle che quantunque siano d’altra terminatione havente l’accento nella penultima, pur anche l’hanno intera con l’ultima accentata. [12]Per ciò direi concepemmi, per ‘mi concepé’, peroché concepé non è voce accorciata da concepette, e direi dielo per ‘lo die’’, il cui intero è diede. Così G. Vill. l. 7 c. 129 scrisse «Dielo lor per Capitano» (avvegnaché nel l. 10 c. 132 habbia un «Dievvisi fine»). [13]E così anche è scritto N. ant. 7; e nel medesimo, n. 70 «Toti dal pianto» per ‘togliti’; e il Pass. f. 307 disse «Trati in prima la trave»; e l’Omel. d’Orig. [155r] «Trati tanto l’amore»; e F. Vill. c. 69 «Diesi alla fuga». [14]Vero è che Dante non si obligò a questa regola, e scrisse, o come volle per libertà, o come poté per necessità in servigio della rima; per ciò vi si legge Purg. 10 [53] e 31 [89] femmi; Purg. 12 [7] rifemi; e Inf. 18 [87] fene; Purg. 30 [51] diemi; Inf. 9 [13] dienne; Purg. 30 [126] diessi; Inf. 29 [130] trane e poco più sopra [125] tranne.
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Dar mangiare, dar bere.
xxxiii. [1]Gli è vero che da buoni scrittori più volentieri si è detto dar mangiare e dar bere che dar a mangiare e a bere. Ma non è già che ancor queste seconde maniere non habbiano esempio. [2]Il Bocc. che disse n. 19 [44] «Al quale il Soldano, havendo alcuna volta dato magnare»; n. 40 [49] «Gli havea data bere l’acqua adoppiata»; n. 48 [24] «Quel cuor duro etc. con l’altre interiora insieme le caccio di corpo e dolle mangiare a questi cani»; e n. 52 [10] «Gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco»; n. 69 [42] «L’uno gli tagliava innanzi, e l’altro gli dava bere»; n. 76 [49] «Buffalmacco faceva dar bere alla brigata»; anzi ancora: n. 31 princ. [Intr. 28] «Io le darò beccare»; [3]disse altresì n. 39 tit. [1] «Messer Guiglielmo Rossiglione dà a magnare il cuore etc.»; n. 18 [77] «Nella sua casa il menasse e gli facesse dare da mangiar per Dio»; n. 88 [32] «A te sta horamai qual hora tu mi vuogli così ben dare da magnare come facesti et io darò a te così ben da bere come havesti»; n. 21 [17] «Dargli ben da mangiare». [4]Cresc. l. 5 c. 51 «Contr’alla dissenteria vale il sugo delle foglie dato a bere»; e quivi appresso: «Anche la polvere data a bere con l’aceto», l. 6 c. 87 «Si lavino e poi si dieno a mangiare», l. 9 c. 86 «Si dia loro a bere acqua del fiume».
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Ameressimo, amassimo e simili fuor di regola.
xxxiv. [1]Ameressimo, leggeressimo, vederessimo, serviressimo per lo pendente o imperfetto o comunque sel voglian dire amaremus, legeremus etc., ognun grida, e ne ha ragione, esser terminatione barbara, che è quanto dire non italiana; [2]e chi l’usasse e non se ne pentisse come d’errore, almeno all’estremo o sia del ragionamento o del libro, non so se Dante, che scrisse le regole della lingua italiana, si terrebbe pago con metterlo solo nel Purgatorio della sua Commedia. [3]Peroché v’è opinione che questo sia un peccato mortale di lingua. Si de’ scrivere invariabilmente ameremmo, leggeremmo, vederemmo, serviremmo, etc.
xxxv. [1]Molto meno poi amassimo, leggessimo etc. per lo latino amavimus, legimus etc. [2]Vero è che quanto a’ primi il Pass. f. 54, volgarizzando quel testo di San Paolo «Non ex operibus iustitiæ quæ fecimus nos», «non per opere – dice – di giustitia che noi facessimo». [3]Ma questo facessimo, per quanto a me ne pare, non ha forza di fecimus, ma di faceremus, e bene sta nell’italiano quel che nel latino mal sonerebbe; e vale a dir tanto come ‘se ne facessimo’ o ‘quantunque
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ne facessimo’, onde la sentenza non è rigorosamente volgarizzata di parola in parola.
Onde avverbio.
xxxvi. [1]La particella onde si è usata da’ maestri in significationi che, a chi non ne sa la forza, parranno peggio che improprie: peroché vale hor ‘di cui’, hor ‘de’ quali’, hor ‘per dove’, sì come gli esempi dimostrano, e ne son piene massimamente le cronache de’ Villani. [2]G. Vill. l. 1 c. 6 «Nembroth, onde è fatta mentione»; l. 7 c. 26 «Una compagnia di Tedeschi, onde era capitano etc.»; l. 10 c. 124, che sarà più strano a udire a chi non sa l’uso antico di raddoppiare talvolta gli articoli o altre particelle, delle quali una sola bastava, «I Ghibellini della Marca, ond’era loro capitano»; l. 7 c. 31 «I Sanesi, congouiond’era governatore»; e c. 99 «Padre di Cassano, onde innanzi facemmo menzione»; l. 8 c. 16 «Maghinardo, onde addietro havemo fatta menzione»; e quivi pure «La buona cavalleria, onde fu capitano M. Arrigo»; [3]Pass. f. 61
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«Venendo S. Ambrogio da Melano, d’onde era Arcivescovo»; e f. 268 «Nella via, onde io andava»; Cresc. l. 5 c. 48 «L’usciuolo, onde si mette il fuoco».
A mutato in e in alcuni tempi de’ verbi della prima maniera.
XXXVII. [1]I verbi della prima maniera, per una cotal dolcezza, mutano in e l’a precedente l’ultima dell’infinito: talché dicendosi amare, saltare, mirare, non però si dice amarò, saltarai, miraranno etc., nelle quali terminationi, come ognun vede, l’accento non è sopra quell’a primiero dell’infinito, ma trasportato alla sillaba susseguente. [2]Talché in lasciar l’accento di priemer l’a sì fattamente però che passi oltre, l’a si trasforma in e, e si dice amerò, salterai, mireranno etc.
[3]Ben si truovano esempi dell’a ritenuto, ma non si voglion seguire: N. ant. 54 ritornarete e 56 comandarai; Cresc. l. 4 c. 11 innestarai; Dante, Conv. f. 86 cantarebbe; Bocc. n. 16 [59] rivocareste; Lab. n. 44 di-
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mandarei; M. Vill. l. 3 c. 94 passarebbe; l. 10 c. 95 restarebbe etc.; che non mancherà chi voglia che siano scorrettioni della stampa.
Tutti e tre, tutti e quattro etc.
xxxviii. [1]Fosse regola, fosse licenza o vezzo di que’ primi tempi, appena mai si usò di scrivere tutti o tutte avanti alcun certo numero, che fra mezzo non si piantasse una e; [2]tanto ostinata e gelosa di mantenersene in possesso, che havendola i Giunti, nelle prime carte del Decameron che publicarono nel ’73, trascurata una volta, colà dove f. 12 lin. 3 dissero «tutte tre», ella, richiamatasene a’ correttori, fe’ sì che questi condannarono quegli stampatori a inginocchiarsi nell’ultima carta, cioè a’ piè di quel per altro fedelissimo Decamerone, e quivi coram populo protestare che «tutte e tre» volea dirsi, non «tutte tre», che dannavano come errore e fra gli errori il registravano.
[3]Né privilegio è questo o proprietà sol di quel numero determinato, ma per avventura d’ogni altro che vien dietro a tutti o tutte. [4]Eccone in fede alcuni: G. Vill. l. 4 c. 7 «I quali tutti e tre cominciavano»; Bocc. Intr. [79] «Le quali tutte e tre erano», e il N. ant. l’ha tre volte nella n. 82; G. Vill. l. 7 c. 1 «Tutti e quattro fratelli nati della Reina Bianca»; M. Vill. l. 8 c. 14 «Tutti e quattro i maggiori Comuni»; Bocc. n. 78 [35] «Nella miglior pace del mondo tutti e quattro desinarono insieme»; Dante, Purg. 9 [12] «La ’ve già tutt’e cinque sedavamo»; M. Vill. l. 1 c. 52 «Tutte e
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sei le sue galee ruppe»; Bocc. n. 60 fin. [Concl. 30] «Tutte e sette entrarono in esso».
[5]Hor che fa quivi quella e, sì che debba essere non licenza ma obligo il porvela sì fattamente che v’ha chi ci condanna di peccato d’ommessione lasciandola? [6]Ma se il Petrarca scrivendo «tutte tre» e «tutte sette» pur la trascurò, e se M. Villani la trasformò in altra vocale, dicendo l. 3 c. 79 «Levate l’ancore dal mare, con tutte e tre le cocche si dirizzarono», mostra ch’ella non fosse altro che una cotal empitura non per bisogno, ma per leggiadria, secondo il dir di que’ tempi; che n’hebbero di molte altre, le quali oggidì, a volerle usar continuo, e non certe volte dove il buon giudicio il consente, sarebbono affettatione.
Terminatione propria della prima, male usata nelle tre altre maniere de’ verbi.
xxxix. [1]Che alcuno ubbidischi, difendi, habbi, facci, dichi etc. e similmente nel numero del più che ubbidischino, difendino, habbino, faccino, dichino, etc., sono terminationi, secondo la buona regola che ne danno i grammatici, mal trasportate dalla prima maniera de’ verbi alle altre, nelle quali si vuole metter l’a dove è
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l’i nella prima, e dire che quegli ubbidisca, difenda, habbia, faccia, dica etc.; e per conseguente, nel maggior numero, che ubbidiscano, difendano, facciano, habbiano, dicano, etc.
[2]Pur troverete nel Conv. di Dante, f. 21 habbi; e f. 49 e 69 habbino; e nel N. ant. 27 vadino; e ne’ Malespini c. 209 muoino; e c. 211 difendino, ancorché poco appresso si legga difendano; e nel Bocc. n. 98 [22] «Pensando che la fortuna m’habbi condotto in parte che etc.»; e nel Filoc. l. 7 n. 470 «Che Clelia m’habbi conosciuta»; e nel Lab. n. 275 «Non credo che sappi [ella]»; e nella Fiamm. l. 4 n. 40 «Che egli habbi moglie sposata»; e in M. Vill. l. 1 c. 95, l. 3 c. 62, l. 9 c. 6 e 98, l. 10 c. 35 e 67 voglino, debbino, faccino, venghino, incorrino, tenghino, caggino.
Mandare col gerondio.
XL. [1]Il verbo mandare ha privilegio ab immemorabili di ricever se vuole il gerondio in vece dell’infinito; e il farlo gli torna tal volta a commodo e tal altra a leggiadria. [2]Pur comunque altri ne giudichi, percioché
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questa, come ho detto, non è legge ma privilegio, sarà libero a ciascuno il valersene quel poco, o molto, o niente, che più in piacer gli sarà. [3]Bocc. n. 94 [30] «Mandolla pregando che le dovesse piacere etc.»; G. Vill. l. 4 c. 30 «Mandarongli pregando che piacesse loro di venire», in vece di «mandaronli a pregare», e così de gli altri che sieguono; G. Vill. l. 7 c. 60 «Li mandò comandando»; N. ant. 62 «Mandò comandando a Tristano che etc.»; G. Vill. l. 7 c. 66 «Li mandava forte riprendendo»; l. 11 c. 71 «Il Bavero e gli altri allegati mandarono disfidando il Re di Francia»; e c. 84 «Mandollo sfidando in fino a Parigi»; l. 11 c. 138 «Mandato gli fu da Firenze riprendendolo forte»; Bocc. n. 34 [12] «Il Re di Tunisi etc. al Re Guiglielmo mandò significando ciò che fare intendeva etc.» [4]E perché troppi ad allegare sono gli esempi che ne habbiamo nel Novelliere, bastino questi tre della sola n. 88: [14] «Mandavi pregando», [25] «Che zanzeri mi mandi tu dicendo a me?», [28] «Ciò che mandato gli havea dicendo».
Volsi e volli dal verbo volere.
xli. [1]Volsi, volse, volsero sono più propriamente terminationi del verbo volgere che del volere, il quale nel medesimo tempo passato ci dà volli, volle, vollero. [2]Ho detto più propriamente, peroché pure allo stile
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antico par che volere havesse volsi; e l’uso di quei tempi il conferma. Dante, Inf. 2 [118] «E venni a te così com’ella volse»; e Inf. 29 [102] «Et io incominciai poscia ch’ei volse»; e Purg. 8 [66] «Vien a veder che Dio per gratia volse». [3]Né solamente in rima, ma altresì fra mezzo il verso: Par. 11 [115] «E dal su’ grembo l’anima preclara / mover si volse tornando al su’ regno / et al su’ corpo non volse altra bara»; e Par. 32 [114] «Cercar si volse della nostra salma». [4]Né è vero ciò che alcuni hanno scritto, che volse per volle fosse licenza solamente della poesia e di Dante; che, quanto alla poesia, Dante medesimo dimostra il contrario, usandolo nel Convivio almeno dieci volte, e f. 96 in quattro righe il ripeté tre volte: «Avicenna e Algazel volseno», «Plato et altri volseno», «Pitagora volse». [5]Che poi non fosse licenza solo di Dante il pruovano il N. ant. che l’ha n. 23 e 38, 60 e 70; e Brun. nel Tesoretto, nell’Eth. e nella Rett.; e M. Vill. l. 6 c. 47 e l. 3 c. 44 etc.; Petr. canz. 32 [142 10-11] «Tal che temendo dell’ardente lume / non volsi al mio rifugio ombra di poggi»; e canz. 20 e 41 e 48 e son. 269 etc. [6]Ma più che niun altro l’Uberti nel Dittamondo, che mai altramente non dice che volsi, volse, etc.
Lui, lei, loro in primo caso.
xlii. [1]I pronomi lui, lei, loro non sono casi retti ma obliqui, lui d’egli, lei d’ella, loro d’amendue nel plurale; ed è fallo il dire «Se lui vorrà», «Lei m’ha detto», «Quando loro il sapranno» e simili. [2]Questa è regola
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universalmente accettata e dal commun de’ grammatici mantenuta come una delle più sante e immutabili leggi delle dodici tavole della lingua; e mostra che certi di loro, scrivendone, l’habbiano havuta per chiara e diritta come un raggio di luce, onde non si son fatti né ad esaminarne punto la rettitudine, né a chiarirne l’oscurità ch’ella riceve dal contrario uso d’ottimi autori, sì come appresso vedremo. [3]Hor, per ciò che de’ testi che contro di questa regola possono allegarsi altri manifestamente son fuori di regola, né ricevono interpretatione, altri solamente il paiono, e l’intenderne il come dipende dal sapere i privilegi che hanno i gerondi, i participi assoluti, il verbo essere e la particella come, porrò qui in prima i primi, poi gli altri nelle quattro seguenti osservationi, le quali etiandio se non facessero al presente bisogno, pur niente meno sarebbono da sapersi.
[4]Truovasi dunque lui e lei manifestamente in primo caso nelle quattro novelle aggiunte alle cento del Novelliere antico. [5]Ma chi che sia stato l’autore di quella
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giunta, ella non è da haversi in niun pregio di lingua. [6]Le cento novelle, antiche più che il Boccacci, per opera di que’ tempi sono ottima lingua; le quattro aggiunte, allo stile e a gli errori sentono del più moderno, e son quattro palmi di coda appiccata a un bel corpo che se ne disforma; per ciò ella si vuol rendere come cosa sua a quel medesimo da cui nacque.
[7]D’altro peso e valore sono i testi di Ricordan Malespini, di Dante e di Giovanni e Matteo Villani. [8]Il primo, c. 17 della Cronaca: «Dicemmo come fue isconfitto il Re Fiorino, e lui morto e tutta sua gente. Ora diremo etc.»; [9]Dante, Conv. f. 57 «Lui [cioè Iddio] è somma sapienza»; f. 70 «Quello che lui dice è legge»; f. 88 «Se lui [cioè Adamo] fu vile, tutti siamo vili»; [10]G. Vill. l. 7 c. 8 «Fugli detto [al re Manfredi] che era la parte Guelfa che lui [cioè il medesimo Manfredi] havea cacciato di Firenze»; e c. 60 «Lo Re Piero d’Araona, come hebbe fatto il saramento della sopradetta impresa etc. venuto in Cicilia, fece lui di presente apparecchiare galee»; [11]M. Vill. l. 9 c. 46 «Il quale [castello di Troco] era stato privilegiato al Prenze di Taranto, e lui l’havea conceduto a M. Lio-
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nardo di Troco». [12]Aggiunga chi vuole il Bocc. nell’Ameto: «Lei fu nominata Cotola [...] lei mel fe’ palese [...] Medea non se ne poté anche lei difendere». [13]Ma sopra ogni altro, che habbia manifestamente usato lui e lei in caso retto si è Fazio nel Dittamondo: l. 2 c. 5 «E lui sì come bestia fu morto»; c. 19 «Onde lei per dispetto e per disdegno / gli corse addosso»; l. 6 c. 2 «Come lui scrive»; c. 7 «E lui [rispose]: “Come a te piace”»; l. 5 c. 11 «Lei dormì con loro», c. 28 «Ma di cui fie ’l figliol se lei s’impregna, / et colui per cui lei si guida e regge». E simili in troppa gran moltitudine.
[14]Questi sono i testi che a me si presentano in pruova che lui e lei si truovano da’ buoni scrittori usati alcuna volta in caso retto, né mi so far a creder che tutti siano falli de’ copiatori, come pur vorrebbe fra gli altri il Castelvetro, che forse si maraviglia del Bembo, che allega il Convivio di Dante tutto pieno di scorrettioni. [15]G. Villani stampato da’ Giunti nell’87 ha quel primo testo in altra maniera, cioè «La parte guelfa usciti di Firenze». [16]L’Ameto, oltre che non è ricevuto fra le migliori scritture del Boccacci, corretto, riscontrato etc. legge diversamente. [17]Ma che che
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sia dell’essersi o no mai usato da buon autore, voi, per mio avviso, tanto scriverete meglio quanto men l’userete: e vo’ dire che non l’usiate giamai.
[18]Qui pure è luogo da avvertire che come lui e lei casi obliqui si truovano adoperati in retto, così al contrario ello, elli ed ella, di lor natura retti, si sono almen da’ poeti posti in obliquo: [19]Dante, Inf. 3 [27] «Voci alte e fiocche, e suon di man con elle»; e 32 [124] «Non eravam partiti già da ello»; Petr. son. 259 [299 7] «Ove son le bellezze accolte in ella?»; e son. 295 [338 10-11] «Che senz’ella è quasi / senza fior prato etc.»; Ditt. l. 1 c. 19 «Poi si calò e ritornossi ad ello»; l. 5 c. 23 «Tutto che riluce in ello», etc. Hor passiam oltre alle osservationi promesse; e prima a’ gerondi.
Primo e sesto caso dato a’ gerondi assoluti.
xliii. [1]Chi vuol vedere a suo costo la battaglia de’ Lapiti e de’ Centauri, chiami a cenar seco una brigata di grammatici e dia loro a discorrere sopra qual caso vogliano i gerondi posti assolutamente, e simili de’ participi, de’ quali diremo appresso. Non andrà molto avanti il ragionare che si vedrà volar per aria altro che parole e autorità di scrittori.
[2]Chi giura che a’ gerondi assoluti, di qualunque maniera siano i verbi onde nascano, non si può dar per regola altro che il primo caso. Chi dà loro per regola
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il sesto, per licenza il primo. Chi amendue indifferentemente, e chi anche il quarto. Altri distinguono fra verbi intransitivi, che in loro medesimi finiscono l’attione, e transitivi, che in altrui la trasportano e mostrano a’ gerondi di quegli richiedersi una maniera di casi, di questi un’altra. [3]Dar poi a traverso sul capo a’ testi allegati in contrario della propria opinione, o togliendo loro ogni autorità, ogni credito, con giurargli guasti dalle stampe e dalle penne de gl’ignoranti – e ciò perché, se si concedessero esser veri, ve ne ha de’ sì grossi che strozzerebbono a inghiottirli;o sponendoli come si farebbe i geroglifici delle tanto misteriose aguglie d’Egitto, che chi si prende a volerle interpretare, conviene in prima che fermamente a sé medesimo persuada di non errare. [4]Hor chi vuol mettersi ad accordar le discordie di tanti pareri? o dar regole universali e ferme, dove i più sperti maestri in
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quest’arte confessano che v’ha certe, che chiamano occulte proprietà fuor di regola, delle quali mente umana – dicono – speculando ancor non è giunta e ben intendere il perché? come sarebbe il potersi dare al gerondio il sesto caso d’egli e non il sesto d’io: talché dove ben diciamo «dimorando lui», mal si direbbe «dimorando me», che è – dicono – un misterio più oscuro che la notte in cui Ercole fu generato. [5]Ma se l’autorità e l’uso de’ buoni scrittori dà, comunque sia da chiamare, regola o licenza di poter dire quello che del potersi dire non ha altra ragione che l’essersi detto (salvo sempre il suo luogo alla discretione e al giudicio, che non comportano che le stravaganze particolari si facciano regole universali), meglio che discorrere astrattamente sarà far qui una sufficiente allegatione di testi per ciascuna maniera di porre innanzi o dopo i gerondi assoluti il primo caso o il sesto.
[6]E quanto al primo caso, niegano ch’egli mai si possa antiporre al gerondio. Meglio era dire rade volte che mai, peroché pur ve ne ha esempio: G. Vill. l. 7 c. 95 «Corsono alle prigioni dov’erano i Franceschi per ucciderli, ed eglino difendendosi, i Messinesi mison fuoco nella prigione»; M. Vill. l. 10 c. 39 «Egli non fuggendo, l’uccisono»; Bocc. n. 25 tit. [1] «Il Zima dona a M. Francesco Vergellesi un suo pallafreno, e per quello, con licenza di lui, parla alla sua donna, et ella tacendo, egli in persona di lei risponde»; n. 32 [35] «So io bene che vegnendo egli a me, et io havendogli fatta la vostra ambasciata, egli ne portò
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etc.»; Filoc. l. 1 n. 31 «Le quali [folgori] tu gittandole, dimostrano quanta sia la nostra potentia».
[7]Molto più spesso s’incontra il primo caso posposto al gerondio.
Egli. Bocc. n. 31 [18] «E così, dormendo egli, Ghismonda, che per ventura etc.»; n. 87 [5] «Dormendo egli, gli parve in sogno vedere»; n. 47 [28] «Non guardandosene egli, il fece pigliare»; n. 39 [23] «E se io, non sforzandomi egli, l’havea fatto signore»; n. 27 [30] «Di vostra propria volontà il faceste, piacendovi egli»; n. 80 [25] «Accioché, non facendolo egli, quivi non fosse il suo difetto scoperto»; n. 97 [5] «Il vide, correndo egli»; e nella medesima [13] «Me ’l venne, armeggiando egli, in sì forte punto veduto».
[8]Ella. Bocc. n. 35 [10] «Avvenne un giorno che, domandandone ella etc., l’un de’ fratelli le disse»; n. 25 [18] «Cominciò, udendolo ella, a rispondere».
[9]Io. N. 27 [29] «Veggendo io consumare»; Fiamm. l. 4 [n. 56] «Non sapendo io per qual cagione etc.».
[10]Sesto caso avanti il gerondio. G. Vill. l. 1 c. 39
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«E, lui tornando con la vittoria a Roma, li fu negato il trionfo»; l. 5 c. 1 «I quali tutti, lui regnando, morirono»; l. 8 c. 13 «Lo Re Carlo andò in Francia e lui tornando con l’accordo fatto, passò per la città di Firenze».
[11]Sesto caso dopo il gerondio. Dante, Inf. 32 [105] «Latrando lui con gli occhi in giù raccolti»; G. Vill. l. 7 c. 43 «E trovando lui che sì buona città com’era Firenze era guasta». [12]Sesto caso dato al medesimo verbo hor avanti hor dopo il gerondio. G. Vill. l. 8 c. 5 «Accioché, lui vivendo, non si potesse opporre alla sua elezione»; l. 12 c. 84 «Havendosi fatto eleggere Imperadore, lui vivendo, si venne della Magna»; l. 4 c. 16 «Molti Monaci si son vestiti di quest’ordine, vivendo lui»; e quivi appresso: «Vivendo lui [S. G. Gualberti] e poi dopo la sua morte, il detto S. G. Gualberti fece molti miracoli».
[13]Primo e sesto caso dati al medesimo verbo. Andando. Bocc. Filoc. l. 7 n. 202 «Andando io su pe’ salati liti etc. avvenne»; G. Vill. l. 2 c. 13 «In Roma presero Papa Leone Terzo, andando elli alla processione»; l. 4 c. 2 «Avvenne che, andando lui a una caccia per lo bosco, si smarrì»; l. 9 c. 218
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«Andando lui a Corte di Papa etc. si dice che il fecero morire».
[14]Stando. G. Vill. l. 4 c. 21 «Per la qual cosa, stando egli in Italia etc. elessero»; l. 8 c. 80 «Stando egli a sua mensa a magnare, gli venne un giovane etc.»; l. 7 c. 23 «Stando lui in Pisa, raunò moneta»; l. 10 c. 60 «E stando lui in tanta gloria, perdé la città».
[15]Dimorando. Bocc. Fiamm. l. 6 n. 9 «Avvenne che un giorno, dimorando io ne’ pianti usati, la vecchia balia entrò etc.»; G. Vill. l. 3 c. 5 «Ma lui [cioè Otto re] dimorando in Alemagna, il detto Alberto fece fare Papa Ottaviano»; l. 10 c. 221 «Dimorando lui in Bologna, li Aretini hebbeno per patto il detto castello».
[16]Ardendo. Bocc. n. 29 [7] «Ardendo ella etc., le venne sentita una novella»; Petr. canz. 26 [125 11] «Ardendo lei, che come un ghiaccio stassi».
[17]Essendo. Bocc. n. 43 [27] «Se per sciagura, essendoci tu, se ne venisse alcuna etc. ti farebbono dispiacere»; n. 99 [66] «Sendo ella [la galea] vicina di Cicilia, si levò una tramontana»; G. Vill. l. 2 c. 12 «Ma, essendo lui Re parte de’ Baroni di Francia, fecero Re Ruberto»; e quivi appresso: «Essendo lui in prigione, la moglie sua se n’andò a lui»; Omel. Orig. [145r] «Com’ella gli havea lavati i piedi, essendo lui vivo».
[18]Sarebbe un non finir mai se recitar qui volessimo quanti altri passi si truovano per ogni diversa maniera di gerondi, sì come ancor a voler riferire le strane opi-
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nioni e le contese sopra il «latrando lui» di Dante, l’«ardendo lei» del Petrarca e i lui e lei di G. Villani tanto simili a’ primi casi, che a non credere che siano convien farsi più forza coll’intelletto che non colle braccia a torcere una quercia; e si vedrà molto più manifesto nell’osservatione seguente de’ participi. Pur egli è quanto il Boccacci, se non anche più, come certi han voluto, in pregio d’ottima lingua. [19]Hor tragga e formi chi vuole e può, da’ sopradetti esempi, regole universali e senza eccettione, o almeno secondo essi esamini le regole universali che da gli altri si danno, massimamente quelle del non si può che alcuni son tanto presti a proferire, sì come altrettanto arditi a negare che testi legittimi e incorrotti sien quegli che co’ loro detti non si confanno.
Primo e sesto caso dato a’ participi assoluti
xliv. [1]Men v’ha che contendere sopra i participi assoluti haventi appresso il pronome, se non che il buon G. Villani, con quel suo lui e lei che dicevamo tanto simigliante al primo caso, mette ancor qui mezzo i grammatici in confusione e mezzo la grammatica in iscompiglio. [2]Pur nondimeno i valenti huomini, fattagli la maggior riverenza del mondo come a uno de’ primi maestri della bell’arte del dire, gli voltan soavemente le spalle e a’ curiosi della lingua publican sopra cotali participi due regole: 1. che si dia loro il sesto caso d’egli e d’ella, che sono lui e lei; e al con-
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trario, 2. il primo di me e te, che sono io e tu. [3]Vero è che in questa seconda non tutti d’accordo convengono; e con ragione, peroché troppo pochi testi v’ha ne gli antichi scrittori onde far regola coll’autorità, e certa convenienza dello schifare l’ambiguità che allegano per ragione a pieno non sodisfa. Hor vediam quel che ne insegna l’uso, ch’è il più sicuro maestro che sia nel dar regola al favellare.
[4]Il participio assoluto col sesto caso posto avanti: Bocc. n. 18 [46] «Il battimento del polso, lei partita, ristette»; n. 33 [31] «Lei lasciata nella camera morta, se n’andò»; Amet. [f. 41r] «E lei senza compagnia rimasa, triste dimoranza traheva»; Filoc. 7 [n. 339] «Ora conosco etc. perché, lui tolto di mezzo, alla mia casa disdegni venire»; G. Vill. l. 4 c. 22 «E poi lui [cioè Arrigo terzo] mal capitato in Lombardia, se ne andò in Alamagna e di là morìo»; l. 6 c. 42 «E lui morto, il detto Manfredi prese la guardia del reame»; l. 7 c. 4 «E lui eletto e tornato d’oltremare, fu coronato Papa»; l. 8 c. 35 «Il padre l’accettò dove piacesse alla pulcella, e lei domandata, rispose che etc.»; l. 8 c.
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48 «E lui soggiornato alquanti dì, richiese il Comune di volere la signoria»; l. 10 c. 87 «Li sopravenne la malattia, e lui aggravato, ordinò suo testamento»; l. 10 c. 164 «Vivette tre anni e un mese, e lui morto, fu seppellito»; c. 225 «Li venne un quadrello per tal modo che, lui recato al padiglione, morì». Questi, come vedete, sono i lui e lei del Villani che anzi sembrano primo caso che sesto, e simili saranno i seguenti.
[5]Il participio assoluto col sesto caso posposto: Bocc. n. 36 [4] «Le quali, quantunque a colui che dorme, dormendo, paian verissime, e desto lui, alcune vere etc.»; n. 62 [9] «Che etc., uscito lui, egli se n’entrasse»; G. Vill. l. 2 c. 11 «Venne a piede in fino a Roma, e giunto lui, fu fatto patritio di Roma»; l. 7 c. 40 «Giunto lui in Francia etc., si fece coronare»; e c. 43 «Gregorio Decimo da Piagenza, tornato lui dalla legazione d’oltremare, fu consacrato Papa»; e c. 50 «Giunto lui in Arezzo, cadde malato»; l. 9 c. 333 «E tornato lui di pregione, per sua redenzione fu eletto Capitano, e presa lui la signoria, con molta prodezza e sollecitudine si resse». [6]Né vuole ommettersi per istrano che sembri quello degli Am. ant. f. 233 «Perdona al prossimo tuo che nuoce a te, e allora, pregando te, sarai disciolto dalle peccata tue».
[7]Il participio assoluto col primo caso: Bocc. Fiamm. l. 6 n. 45 «Udite io queste cose, il lume fuggì a gli occhi miei»; Filoc. l. 3 n. 241 «Ella partita, l’antico Dio svegliò gl’infiniti figliuoli».
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[8]E col sesto d’io: G. Vill. l. 10 c. 87 «Io mi veggio morire, e morto me, di certo vedrete etc.».
[9]E simile de’ nomi che non son participi: Bocc. n. 37 [16] «Volle, lei presente, vedere il corpo morto»; Petr. Tr. 7 [Tr. mortis ii 149] «Sola i tuoi detti, te presente, accolsi»; son. 46 [60 5] «Poiché, sicuro me, di tali inganni etc.»; G. Vill. l. 12 c. 43 «E poi, lui Imperadore, da’ rettori del Senato fu morto».
Il verbo essere col quarto caso.
xlv. [1]Per lui, lei e loro fanno altresì, come avanti dicemmo, le due seguenti osservationi, altrimenti quegli che veramente sono casi obliqui si crederanno esser retti.
[2]E prima, che il verbo essere, singolarmente colà dove ha forza d’esprimere trasformatione d’uno in altro, accetta dopo sé il quarto caso, così dovendosi per chiarezza alla distintione, che ragion vuol che sia, fra due termini quasi per attione e passione differenti; altrimenti, se amendue fossero in un medesimo caso, non s’intenderebbe qual di loro sia il trasmutato, e quale colui in che si trasmuta. [3]Così ne filosofa un sottile grammatico; e sia vero, che il disputarlo punto
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più non rilieva che il crederlo. [4]Eccone in pruova alcuni pochi testi: Dante, Conv. f. 64 «Poi chi pinge figura, / se non può esser lei non la può porre etc.»; Bocc. n. 67 [43] «Credendo esso che io fossi te»; e forse ancora quell’altro, n. 27 [12] «Maravigliossi che alcuno tanto il somigliasse che fosse creduto lui»; Petr. son. 94 [116 7-8] «E ciò che non è lei / già per antica usanza odia e disprezza». [5]Sopra il qual testo si fa un gran romore da gli spositori, volendo certi, che per avventura non sapevano questa proprietà del verbo essere, che lei stia quivi in vece di colei, ciò che se fosse, potrebbe essere primo caso. Ma sì duro riesce, che appena v’è a cui l’habbiano persuaso. [6]Non che tal volta non si sia da’ poeti usato colui e colei in forma di lui e lei, e per ciò in caso retto: e ’l pruovano manifesto, fra gli altri, que’ due celebri testi, di Dante, Purg. 21 [25] «Ma perché lei, che dì e notte fila», cioè colei, la Parca; e del Petrarca son. 235 [275 12-13]
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«Morte biasmate anzi laudate lui [cioè colui] / che lega e scioglie e in un punto apre e serra».
La particella come col primo e col quarto o sesto caso.
xlvi. [1]L’altra osservatione che fa non poco al bisogno de’ sopradetti pronomi è che la particella come, dove si adopera in forza di similitudine, può indifferentemente accompagnarsi col sesto caso e col primo. [2]Vegga chi vuole, e credala, se gli piace, l’origine di cotal proprietà nell’autor della Giunta alla lvi particella del Bembo. [3]Qui a me non sarebbe mestieri d’allegar testi fuor che col sesto caso, che altri chiamano il quarto, e ciò a fin che mal non si creda lui,
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lei e loro essere casi retti. [4]Ma percioché v’è chi pur anche si crede che al come, né in forza di similitudine né altramente, se altramente s’adopera, può mai soggiungersi il primo caso, eccone in prima sol quanto basta a dimostrarne la falsità: Dante, Par. 22 [31-32] «Se tu vedesti così ben com’io / La carità»; N. ant. 25 «Se io havessi così bella cotta come ella, sarei altresì sguardata come ella», e «Non sono così belle come io»; G. Vill. l. 12 c. 111 «Il quale ha fatto come tu»; Bocc. Intr. [53] «Voi potete, così com’io, molte volte havere udito»; n. 50 [59] «Habbia cenato com’io»; n. 61 [3] «Com’io paurose».
[5]Hor quanto a’ casi obliqui d’egli e d’ella: Bocc. n. 4 [22] «Si vergognò di fare al giovane quello ch’egli, sì come lui, havea meritato»; n. 15 [78] «Costoro, che d’altra parte erano, sì come lui, malitiosi»; n. 43 [12] «Pietro, non essendosi tosto, come lei, de’ fanti che venieno avveduto»; Lab. [150] «Furono così femine come loro» etc.
Il più variamente adoperato.
xlvii. [1]Il più è una delle più licentiose forme che siano nella lingua: hor a maniera d’avverbio, hor d’aggettivo, hor da sé solitario, hor reggendosi a voce con articolo; quando d’uno e quando d’altro signifi-
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cato; e nel mezzo e nel fin de’ periodi, come meglio ne torna al bisogno delle cose o al piacere dello scrittore. [2]Eccone in ogni forma alcuni esempi.
[3]Bocc. n. 2 [8] «Come il più i mercatanti sanno fare»; n. 31 [30] «Come il più le femine fanno»; n. 49 [6] «Come il più de’ gentilhuomini avviene»; Cresc. l. 1 c. 5 «Il più delle acque che ivi sono è salato»; G. Vill. l. 8 c. 60 «Il più di loro gittaron l’armi». [4]Sì come ancora quell’altre: N. antic. 94 «Le più mattine mandava la fante sua a vender frutta»; Bocc. n. 18 [6] «Quanto altro gentilhuomo il più esser potesse»; n. 31 [Intr. 3] «In istilo humile e rimesso, quanto il più si possono»; M. Vill. l. 11 c. 2 «Facessono il più gente potessono», cioè ‘quanta più gente potessono’. [5]E nel medesimo significato (ch’è del più ordinario, ma con certa più gratia): Bocc. n. 42 [24] «Come potrò il più»; M. Vill. l. 11 c. 2 «Conducendo gente quanto poterono il più». E senza la particella il: Dante, Par. 2 [46-47] «Sì divoto / quanto esser posso più».
Iddio in ogni caso. Pater nostri e Ave Marie e Credo in Deo ben detto.
xlviii. [1]Superstitione, non religiosa pietà, è stata quella di chi si è indotto a scrivere non doversi adoperare la voce Iddio altro che in primo caso: peroché
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Iddio, dice, è composto d’il e Dio, dunque ha già seco incorporato l’articolo, e per conseguente non si potrà dargliene un secondo, che tanti non ne soffera una parola; e un secondo ne havrebbe, com’è chiaro a vedere, se all’articolo de’ casi obliqui soggiungessimo Iddio. [2]Hor chi udì mai più sottile e più aguzza teologia di questa? E ne scoppino gl’invidiosi, che van dicendo i grammatici non essere anch’essi come l’aquile, che s’alzano fin sopra la decima regione, delle tre che ne ha l’aria, e veggono di quelle cose che bello sarebbe il tacerle, perché non è di niuno l’intenderle; [3]com’è qui nella voce Iddio, la cui prima sillaba, se è l’articolo il (oltre che si potrebbe adoperare nel quarto caso del numero singolare, che pur è un de gli obliqui), bel solecismo che sarebbe il dire nel maggior numero gl’iddii, de gl’iddii, etc., dando al plurale dii l’articolo il, ch’è sol del numero singolare. [4]Ma senza straccarsi a notomizzare Iddio e trovar compositione dove non sono parti, il Boccacci e ’l Passavanti, quegli filosofo, questi anche teologo, togliono in ciò ogni scrupolo dalla coscienza a chi ve l’havesse, peroché in tutti i sei casi adoperan cento volte la voce Iddio senza niuna eccettuatione.
xlix. [1]Similmente, lo scrivere in amendue i numeri invariabilmente Pater noster e Ave maria è troppa eccessiva divotione. In adoperarsi queste voci a maniera di nomi, come nomi si vogliono declinare. [2]E l’uso de’ buoni il conferma: Dante, Purg. 26 [130] ha Pater
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nostro; Cresc. l. 4 c. 19 Ave Marie; Bocc. Intr. [52] Pater nostri; e n. 24 [19] «Cinquanta Pater nostri e altrettante Ave Marie»; e quivi appresso [24] «Cento Pater nostri»; e accioché habbiate il Credo in Deo da aggiungervi, vel dà Alb. Giud. Tratt. 1 c. 4.
[3]E così va di certe altre voci latine che usiamo. Elle, potendosi, si volgarizzano alcun poco, e quel medesimo guastarle, sì che non sono interamente né dell’una lingua né dell’altra, è una non so qual gratia ch’elle ricevono. [4]In tal maniera diciamo ab antico, ab esperto, Domin per Domine, che similmente si usò, ed ista notte ecc. [5]Che se non si possono alterare, sì che il farlo torni loro a qualche più leggiadria che lasciandoli pure nel loro originale latino, sì vi si lasciano. [6]Così «Miserere di me» che disse Dante; e il Petrarca «Miserere del mio non degno affanno»; e ’l Boccaccio ex proposito e ista notte e «Domine aiutaci»; e G. Vill. e converso e «Di notte tempore» e «Il die giudicio»; e M. Vill. immediate, ipso fatto e subbrevità; e
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il Cresc. per singulo e respettive; e una moltitudine d’altri.
Aggettivi ben framezzati dal sustantivo.
l. [1]Framezzar gli aggettivi col sustantivo non è cosa nuova, molto meno sconcia, anzi alcuna volta un non so che più vaga che unirli; [2]e ’l Boccacci l’usò, e delle volte assai: n. 40 [30] «Di tanta maraviglia e di così nuova fur piene»; n. 77 [45] «I medici con grandissimi argomenti e con presti aiutandolo»; n. 32 [8] «Un huomo di scelerata vita e di corrotta»; n. 31 princ. [Intr. 8] «Da così atroci denti e da così aguti»; n. 36 [12] «A piè d’una bellissima fontana e chiara»; n. 38 [5] «Fu nella nostra città un grandissimo mercatante e ricco»; n. 41 [40] «Con così fatti lamenti e con maggiori»; n. 16 [15] «Due cavriuoli, i quali le parevano la più dolce cosa del mondo e la più vezzosa»; Cresc. l. 2 c. 23 «Ancora quegli [rampolli] che sono occhiuti di molte e grosse gemme e spesse».
La particella con, come si unisca coll’articolo.
li. [1]Con il, con li o con i e coi oramai più non servono alla lingua, e in lor vece nel primo numero usiamo
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col, o collo se la voce seguente incomincia da s havente appresso altra consonante: «col corpo», «con lo spirito» o «collo spirito». [2]Nel numero maggiore co’ o con gli: «co’ corpi», «con gli huomini», «con gli spiriti». Dell’altro modo v’ha non pochi esempi nelle scritture antiche.
[3]Con il. G. Vill. l. 8 c. 95 «Con il suggello»; M. Vill. l. 1 c. 40 «Con il Duca Guernieri»; e c. 47 «Con il volonteroso popolo»; l. 10 c. 60 «S’acconciò con il Re»; e c. 72, 89, 100 etc.; Bocc. Vis. c. 28 «Con il tuo stuolo» e c. 32 «Con il cuor rubello».
[4]Con li e con i. Dante, Conv. f. 72 «Con li quali»; Inf. 9 [126] «Con i sospiri dolenti»; Bocc. Fiamm. l. 1 c. 43 «Con li venti»; G. Vill. l. 1 c. 16 «Con i suoi»; l. 2 c. 4 «Con i Vandali»; l. 4 c. 16 «Con i suoi vicini»; M. Vill. l. 1 c. 47 «Con i Cittadini»; l. 2 c. 32 «Con i più rinomati»; Bocc. Fiamm. l. 7 n. 50 «Con i loro affetti».
[5]Coi. Dante, Inf. 10 [12] «Coi corpi», e 22 [14-15] «Coi santi», «Coi ghiottoni»; Purg. 13 [116] «Coi loro avversari».
[6]Similmente alli huomini, dalli animali etc., che quasi sempre usò di scrivere G. Vill., dai, che si truova nel Decamerone, elli, che pur è d’alcun buono scrittore, già più non si mettono in opera, massimamente i due primi; ma in loro vece dagli, egli e da’ accorciato.
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Perse e morse preteriti di perdere e morire.
lii. [1]Perdere non ci dà persi, perse e perso ma perdei, perdé o perdette e perduto; avvegnaché Dante, Par. 3 [125] e 8 [126] dicesse perse in vece di perdé, e Par. 3 [12] persi in vece di perduti, e ciò sempre in rima; e F. Vill. c. 90 «Persono tempo».
[2]Sperdere e disperdere ci danno sperse e disperse: G. Vill. l. 6 c. 74 «Tutta sua gente si sperse»; l. 9 c. 325 «Quasi tutti li sperse»; Bocc. n. 17 [79] «E fu nella battaglia il suo esercito rotto e disperso».
[3]Similmente morire non ci dà morse ma morì: morse è tempo passato del verbo mordere.
Navilio, vascello, sdrucire.
liii. [1]Navilio o navile non m’è avvenuto di trovarlo appresso scrittore d’autorità usato a significare una sola nave determinata, ma alcun numero di legni da navigare o da combattere, di qualunque forma o grandezza siano: [2]G. Vill. l. 11 c. 18 «Arsono di loro
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navilio 250 legni grossi»; e c. 127 «Tra galee, uscieri e più altro navilio grosso e minuto»; e dove il medesimo autore, l. 7 c. 89 tit., dice «Come i Genovesi presono certo navilio de’ Pisani carico d’argento»; e c. 106 tit. «Come i Pisani presono certo navile de’ Genovesi», dal racconto dell’uno e dell’altro fatto si vede che il navilio de’ Pisani erano cinque navi e cinque galee, il navile de’ Genovesi cinque navi grosse. [3]E così in più altri luoghi e autori, nel medesimo significato. [4]Pur mi sono scontrato in un testo del medesimo G. Villani, l. 11 c. 130, nel quale par ch’egli dia nome di navile a una sola galea, dicendo: «Mandò a loro per navile che ’l levasse di Marsiglia, e gli mandaro una lor galea armata». [5]Ma o il Postierla, di cui quivi parla l’autore, domandò a’ Pisani più che da essi non hebbe, o la voce navile è posta universalmente a comprendere qualunque legno da navigare, il quale poi determinato in particolare non è più navilio, ma nave, galea, barca o che altro si nomini. [6]Così il medesimo disse, l. 8 c. 12, «Andò con gran navilio di galee». [7]Più s’accosta, quanto a me pare, M. Villani ad havere per altrettanto navilio che vascello, colà dove nel numero maggiore disse, l. 1 c. 83: «I loro navili grossi», e l. 2 c. 59 «Con le loro galee e co’ loro navili armati». L’Ariosto ha sempre navilio per ‘nave’, e così altri che parlano più moderno.
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liv. [1]Vascello è voce moderna, ma non per ciò rea, talché s’habbia a muovere fortuna per metterlo in fondo adoperato in vece di vasello, che si truova appresso gli antichi ed è, dicono, voce diminuita da vaso, male acconcia al gran corpo d’una di quelle navi che chiamano vascelli. [2]Nel Davanzati truovo hor vasselli hor vascelli, e credo che bene e sicuramente si navighi hor sia su quegli hor su questi.
lv. [1]Come poi v’ha di quegli che s’adirano contra chi nella sopradetta voce vasello aggiunge all’s un c, così altri il fanno contra chi aggiunge al c un s in camicia, baciare, bruciare, sdrucire etc. [2]Ma mettano l’ira nel fodero e si dian pace, che i primi maestri dell’arte usarono pur anche tal volta di scrivere camiscia, basciare e simili. [3]Né sono errori di stampa, come che pur il voglia, a dispetto del mondo nuovo e vecchio, un certo, non mi si raccorda del nome: ma egli è quel medesimo che non hebbe vergogna di dire che le ducento volte che in più autori del buon secolo leggiamo l’habituro e gli habituri, elle sono ducento scorret-
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tioni della stampa da volersi tutte, per ben della lingua, emendare, scrivendo l’habitare e gli habitari. [4]Tanto stravede un huomo che si lascia mettere al naso gli occhiali dalla sua propria fantasia. Hor camiscia l’ha Dante, Inf. 23 [42], N. ant. 93, G. Vill. l. 12 c. 95; basciare, Inf. 5 [36] e 10, Purg. 26 [32] e 32 [153], N. ant. 97, Fiamm. l. 3 n. 39; brusciato, Inf. 16 [49], Purg. 25 [137], e quivi pure nel fine ricuscia in rima d’abbruscia; sdruscire, Inf. 22 [57], Bocc. n. 60 [23] etc.
lvi. [1]Sopra questo verbo, sdruscire o sdrucire, come più loro aggrada, da raccordarsi è il bel motto, come a lui ne parve, con che un sottile grammatico pugliese punse, e poco men che non forasse la lingua a un predicatore lombardo, che d’una nave data a traverso
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disse ch’ella sdrucì, e poco appresso la chiamò sdrucita, che tutto è del Bocc. n. 17. [2]Ma quegli, percioché sdrucire in proprio significato vale ‘scucire’, al primo avvenirsi in lui, cominciatosi da lontano a lisciare la barba, il domandò se veramente in suo paese i calzolai cucivan le navi, onde poi nelle tempeste s’havessero a scucire. [3]Al che l’altro, incontanente: «E sì strano – disse – vi sembra che una nave che nella forma (se ben l’havete considerata) tanto assomiglia una scarpa, sia cucita? [4]Altro maggior miracolo vedrete in Firenze cucirsi i campanili; e ciò non crediate esser inventione moderna, ma fin da ducencinquanta e più anni addietro, se appresso voi punto di fede ha l’ultimo de’ tre Villani, che del suo tempo scrisse (al c. 80) che cadde una saetta, e “Percosse nel campanile de’ Frati predicatori e quello in più parti sdrucì”». [5]Così messer lo Grammatico, senza né pur dire addio, se ne andò con al naso appiccato lo spago del suo calzolaio.
Devo, devi, deve etc. per debbo etc.
lvii. [1]Il verbo dovere si varia in più maniere nel presente dimostrativo, dicendosi debbo e deggio, debbi e
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dei, debbe (della qual voce ragioneremo a parte innanzi), dee o de’ accorciato, e deggiono e debbono etc.
[2]Se anche in questo medesimo primo tempo si possa dir bene devo, devi, deve etc., n’è contesa fra’ dotti, e molti in fine s’accordano a darlo per mal usato, avvegnaché ne gli altri tempi, passato e avvenire, e ne gli altri modi, si dica solo doveva, dovevi, dovrebbono, dovrò, dovuto etc. [3]Ma contra ogni dover di giustitia è condannar all’esilio etiandio una parola senza prima udir sua ragione. [4]E tragga innanzi a difender sé in un medesimo, e lei il Boccacci, che l’adoperò: Fiamm. l. 2 n. 38 «Non ti deve esser grave»; l. 4 n. 49 «Tuo padre già di te deve esser sazio»; l. 5 n. 73 «Te deve amare»; e n. 83 «Si deve pigliare etc.»; Filoc. l. 1 n. 128 «La quale tu mai non devi rivedere»; l. 6 n. 63 «Sì come tu devi»; n. 102 «Quella fede che tu devi a gl’Iddii»; n. 299 «Del mio fallo parte a te si deve opporre»; e l. 7 n. 151 «Si puote e devesi credere» e «Sperimen-
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tar la deve»; n. 152 «Devi sperar bene»; n. 157 «Niuno segreto deve essere ascoso»; n. 311 «Deve potere»; n. 380 «Se alcuno deve di me nascere»; n. 543 «La faccia del Principe deve esser lieta» e «deve esser magnanima», etc.; [5]e Alb. Giud. Tratt. 3 «Devi pensare»; Cresc. l. 11 c. 30 doviamo.
Massime avverbio.
lviii. [1]Massime avverbio in senso di ‘massimamente’ non si truova, dicono, in buon autore, perciò il Vocabolario della Crusca non ne cita esempio. [2]E ben ha fatto a non curarsi di quegli che nella seconda e nella quarta delle quattro novelle aggiunte al N. ant. si truovano. [3]Pur massime avverbio si legge in G. Vill. l. 6 c. 93 «Per gli antichi autori, massime per Istatio poeta»; e in M. Vill. l. 9 c. 93 «E come huomo sagacissimo e astuto in tutte sue cose e massime in fare il danaro»; e nella Coltiv. del Davanzati.
Che tu sii e tu sia ugualmente ben detto.
lix. [1]Tu sii e tu sia si dice ugualmente bene ne’ tempi che cotal terminatione ricevono. [2]E simile delle al-
tre maniere de’ verbi che ’l soffrono, avvegnaché alcuni scrittori, e infra gli altri il Boccacci, habbiano più volentieri finiti così fatti tempi delle seconde persone in i che in a, onde alcuni si son fatti a credere che non si possa altramente; [3]ma si convincono a centinaia di testi: Bocc. n. 1 [40] «O benedetto sia tu da Dio»; e quivi appresso [52] «Hor mi di’, figliuol mio, che benedetto sia tu da Dio»; n. 62 [11] «O Iddio, lodato sia tu sempre»; n. 77 [37] «Hor io vo, aspettati, e sia di buon cuore»; n. 100 [43] «Io intendo che tu più mia moglie non sia»; N. ant. 68 «Per Dio dunque sia savio, che quando tu gli darai bere, strigni la bocca etc.». [4]E così de gli altri, come a dire Bocc. n. 32 [19] «Io ti perdono per tale conveniente, che tu a lei vada come prima potrai e facciti perdonare»; n. 46 [38] «Et io voglio che tu li conosca, accioché tu veggi quanto discretamente etc.»; n. 93 [35] «Ti prego che tu la prenda e te medesimo ne sodisfaccia»; e quivi stesso [23] «Accioché tu possa»; e n. 95 [16] «Voglio che tu a lui vada»; n. 81 [16] «Senza dire alcuna parola di cosa che tu oda o senta»; [5]Fr. Barb. f. 340 «Che tu ti faccia tale che etc.»; f. 341 «Come tu ti possa tale adivenire / che tu non oda dire etc.»; Pass. f. 11 «Ti possa pentere»; Alb. Giud. Tratt. 2 c. 18
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«Considerare quel che tu a te medesimo paia»; [6]Bocc. n. 4 [10] «Trovar modo come tu esca di qua entro»; n. 15 [60] «Come che tu habbia perduti i tuoi danari»; n. 24 [12] «Mi par che tu vada per longa via»; Fiamm. l. 5 n. 54 «Così ne possa tu rimaner contenta» etc.
Presto avverbio.
lx. [1]Presto in buono scrittore, dicono, non si truova in forma d’avverbio. [2]Il Vocabolario ne allega tre esempi: «Mise uno strido grandissimo, e presto dall’arca si gittò fuori»; «Andreuccio presto senza alcuna cosa dir nell’albergo, disse»; «Scemando la virtù, che ’l fea gir presto». [3]Ma questi non si può convincere che siano più tosto avverbi che aggettivi, potendo quivi il presto essere ugualmente l’uno e l’altro. [4]Ben altri esempi v’ha, benché pochi, da non potersene dubitare, peroché non s’accordano, come i nomi aggettivi, né in genere né in numero; sì come appar manifesto colà in Dante, Par. 27 [61] «Ma l’alta providenza che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo, /
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soccorrà presto sì com’io concipio»; Bocc. Vis. c. 9 «Se io più saggia alquanto fossi stata, / né vinta fossi sì presto da amore»; M. Vill. l. 8 c. 74 «Come il più presto poterono»; e l. 9 c. 17 «Quella gente d’arme che più presto poterono accogliere»; F. Vill. c. 90 «Vennono presto a rimedio». [5]Aggiunga chi vuole de’ moderni il Davanzati, l. 3 trad. di Tacito: «Ammazzati troppo presto»; e nella Coltiv. «Presto si seccherieno», «Fruttan presto», «Cor l’uve presto», «Presto vengono e presto se ne vanno».
Non per tanto.
lxi. [1]Non per tanto adoperato da un valente huomo in sentimento di ‘non per ciò’, e recatogli a gran fallo da chi vuol ch’egli non si truovi usato da buon autore fuor che per ‘nondimeno’, diede assai che dire all’una parte e all’altra. [2]Io per me tanto, a quel che ne ho osservato con qualche curiosità ne’ maestri della lingua, mi credo poter dire:
[3]1. ch’egli alcune volte (e sono senza dubbio le più) è sì chiaramente l’ordinario nondimeno che non può in verun modo intendersi per ‘non per ciò’: «Fue soldato a piede, ma nonpertanto prode e ardito maravigliosamente», che è testo d’un’antica traduttione di
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Livio, dove manifesto si vede che se il valore di non per tanto fosse ‘non per ciò’, il soldato ch’era prode e ardito riuscirebbe timido e codardo;
[4]2. che v’ha alcuni testi de’ quali si può più facilmente disputare, che convincere a qual de’ due sensi più tosto si debbano aggiudicare; e questi, come poco utili al bisogno, per non multiplicare, in parole tralascio;
[5]3. che alcuno ve ne ha che sì chiaramente significa ‘non per ciò’ che non si vede come possa prendersi per nondimeno. [6]E tal per avventura è quello della novella 97, colà dove leggiamo «Et quello che intorno a ciò più l’offendeva era il conoscimento della sua infima conditione, il quale niuna speranza appena le lasciava pigliare di lieto fine; ma non per tanto da amare il Re indietro si voleva tirare, e per paura di maggior noia a manifestar non l’ardiva»: parla di Lisa ciciliana verso il re Piero di Raona; se qui non per tanto valesse ‘nondimeno’, come non ne seguirebbe il contrario di quello che l’autore intendeva e la novella stessa, tanto sol che si legga, manifestamente dimostra? [7]Altresì nel seguente esempio, che pur è del Bocc. nella Fiamm. l. 1 n. 105: «Non per tanto niego che ciò e hora e allora non mi fosse carissimo»: qui non per tanto è ‘non per ciò’ manifesto.
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[8]Né di legger peso a provare che non per tanto vaglia alcuna volta il medesimo che non per ciò è il vedere che né per tanto si è indubitatamente usato in sentimento di ‘né per ciò’, e ne fa in più luoghi fede Matteo Villani; come colà, l. 9 c. 94 «Né per tanto i gentili huomini non vollono abbandonare il Duca»; e quivi appresso «Né per tanto il Duca fidò sua persona nella forza del Re»; l. 10 c. 83 «Né per tanto si rimanieno li Pisani di seguire la mala regola presa».
Costruttione de’ verbi convenire, divenire e penare; e d’essere col participio.
lxii. [1]Per non recare a fallo dello scrittore quella ch’è proprietà del verbo convenire e convenirsi, è da sapere ch’egli si può accordare nel numero con le cose che si dicono convenire, e nondimeno riceverà dopo sé alcun verbo in quel modo che chiamano indefinito. [2]Così appresso Dante, Conv. f. 111 leggiamo «Sì come a fare una massa bianca, convengono vincere i grani bianchi»; e Bocc. Fiamm. l. 7 [ma Concl.] n. 73 «O generatione ingrata e deriditrice delle semplici, non si convengono a voi di veder le cose pie»; nov. 24 [16] «Conviensi l’huomo confessare»; [3]Cresc. l. 9 c. 78 «Si convengono [i cani] apparecchiare»; e quivi appresso «Si convengono elegger quelli che vorrai»; e c. 79 «Alle maggiori torme di pecore di necessità [i
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pastori] convengono essere huomini d’età compiuta»; e c. 97 «Al comperarle [le pecchie] il comperator veder le conviene»; [4]Dante, Purg. 1 [97-99] «Che non si converria l’occhio sorpriso / d’alcuna nebbia andar d’avanti al Primo / Ministro».
lxiii. [1]Non meno stranamente s’adopera il verbo divenire, accordandolo col suggetto a cui si dà in questo modo: Bocc. n. 54 [10] «Dimandollo che fosse divenuta l’altra coscia della gru», cioè ‘che fosse avvenuto dell’altra coscia’; e n. 77 [132] «Io mi credeva stamane trovarla dove hier sera me l’era paruta vedere, ma io non la trovai né quivi né altrove, né so che si sia divenuta».
lxiv. [1]Penare ha egli altresì la costruttione simile a convenire quanto all’accordarsi alcuna volta nel numero con le cose. [2]G. Vill. l. 8 c. 97 «Le case etc. penaronsi molti anni a rifare»; e c. 54 «Più di tre dì li penarono a sotterrare»; Bocc. n. 40 [10] «La quale [acqua] l’havesse, bevendola, tanto a far dormire quanto esso avvisava di doverlo poter penare a cura-
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re»; Cresc. l. 6 c. 22 «Benché [le piante] più si penino ad apprendere, tutta volta diventeranno più forti»; M. Vill. l. 5 c. 76 «Mentre che le [paghe] si penassero ad havere»; l. 6 c. 12 «La luna per spazio d’un’altra hora si penò a liberare».
lxv. [1]Pur anche è da conoscere una cotal virtù propria del verbo essere, per non ismarrire o scandalezzarsi avvenendosi in certe forme di dire nelle quali egli sostiene il participio. [2]G. Vill. l. 2 c. 2 «Eran stati discesi di Fiesole»; l. 4 c. 3 «Questi hebbe per moglie la Contessa di Ciarte, la quale fu discesa del lignaggio di Carlo Magno, imperoché fu nata della casa di Normandia»; [3]e Vita di Maom. «Questi fu disceso della schiatta delli Smalieni»; Malespini c. 28 «Fu stato morto»; [4]Bocc. n. 1 [26] «Questi Lombardi cani, i quali a chiesa non sono voluti ricevere»; n. 99 [108] «Né mai dal suo collo fu potuta levare»; Filoc. l. 2 [n. 214] «Io sono stato voluto avvelenare»; Fiamm. l. 4 n. 53 «Sarei stata potuta ingannare»; Bocc. n. 1 [86] «Da tutti fu andato a baciargli i piedi»; [5]Pass. f. 311 «Non è voluta udire la verità»; M. Vill. l. 3 c. 25 «Non furono voluti ricevere»; e c. 87 «Non ostante che per lui non fosse voluto ricevere».
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I cognomi.
lxvi. [1]I cognomi delle famiglie amano d’essere terminati in i: Gherardo Spinoli, Giovan Visconti, Rinier Frescobaldi, Gentile Orsini etc. che disse G. Villani; il quale così quasi sempre usò di finirli. E ciò perché par che si sottintenda un de’ o degli: de gli Spinoli, de’ Visconti.
[2]Questa regola, se non è ben intesa e adoperata con discretione, può mettere in rischio di pericolare tutta una famiglia, stroppiandola per ridurla a una forma grammaticale che naturalmente non le si confà. [3]Imperoché, se il cognome d’una casa sarà preso dal nome proprio d’alcuna di quelle cose che nel numero maggiore hanno la loro terminatione in altra vocale, volendole pur finire in i, malamente si stroppieranno. Come a dire Pietra, Rosa, Borsa e simili, che più volentieri si sentono nella natural loro terminatione del numero singolare che non dell’altro, che ci darebbe Pietri, Rosi, Borsi, che offende un poco a sentirlo. [4]Anzi il Boccacci, per tacer de gli altri, etiandio fuor di tal convenienza, usò di scrivere i cognomi come me-
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glio gliene pareva, non si obligando alla regola d’aguzzare a tutti la punta, come certi sogliono, finendoli sempre in i. [5]Così in varie sue novelle leggiamo Landolfo Zuffolo, Arrighetto Capece, Beritola Caracciola, Guglielmo Rossiglione, Marin Bolgaro, Michele Scalza, Amerigo Abate, Paolo Traversaro, etc.
[6]Ancora è da avvertire che, volendo nominare alcuno per lo solo cognome della famiglia, il potrem fare valendoci del numero maggiore, come a dire il Visconti, il Frescobaldi, l’Orsini etc.: G. Vill. l. 10 c. 190 «Uno Doria era ammiraglio di quello di Cicilia e uno Spinoli del Re Ruberto».
[7]E se alla general voce casa aggiungeremo la speciale della famiglia, potrem farlo o accordandole amendue nel medesimo genere e numero, come in G. Vill. l. 11 c. 24 «Uno di Casa Oria, e uno di Casa Spinola»; [8]o ponendo il cognome nel numero maggiore e seco l’articolo, come pure in G. Vill. l. 6 c. 51 «A Casa i Frescobaldi», l. 9 c. 8 «A Casa i Peruzi», e 32 «A Casa i Cavalcanti», l. 8 c. 59 «Certi caporali di Casa li Abati», l. 10 c. 229 «Quegli di Casa i Pii»; Bocc. n. 41 [15] «Di quindi ne andò a casa il padre», n. 42 [9]
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«Uscita una notte di casa il padre», n. 40 [38] «Se n’andarono di concordia a casa i prestatori», e quivi appresso [49] «In casa il medico menato l’havea»: cioè ‘di suo padre’, ‘de’ prestatori’, ‘del medico’; o senza articolo: «S’apprese il fuoco a Casa Toschi», che disse G. Vill. l. 11 c. 52; Bocc. n. 16 [31] «In casa messer Guasparrino».
Ancora, anco, anche.
lxvii. [1]Fra gli avverbi ancora, anco e anche si sono fatti misteri da non credere e date regole da non osservare. E così è loro avvenuto. [2]Se a voi quello se ne parrà che a me, elle sono tutte e tre voci buone e da potersi usare indifferentemente, se non che, se l’orecchio vi dice «qui suona meglio l’una che l’altra», quella vi ponete ch’ella per cotal luogo è l’ottima. [3]Quanto all’uso antico, chi ne vuole un saggio legga il più brieve de’ dodici libri di Pier Crescenzi, ch’è l’ultimo, e in men di cinque carte vi conterà presso d’un centinaio di volte ancora e anche. [4]L’anco non m’è avvenuto di scontrarlo in iscrittore antico (non parlo de’ poeti) se non molto di rado e quasi appena: come
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a dire nel Bocc. n. 30 [3] «Potrete ancho conoscere», e M. Vill. l. 2 c. 74 «Havendo ancho speranza»; [5]onde non so come si fuggisse della penna a quel valente autore delle Osservationi etc. che anco è voce più regolata d’anche, sì come tronca da ancora, che è l’intera e perfetta. [6]Pur, che che sia di ciò, il vero si è che se il Casa, scrittore regolatissimo, e a cui per andar di pari con gli antichi non manca altro che l’antichità, non si ricoglieva in casa per pietà di lui quest’anco, usandol continuo nel suo pulitissimo Galateo, egli si rimaneva poco men che deserto. [7]Hora, come che egli non sia di così fina nobiltà come ancora e anche, pur senza niun risguardo s’ammette in ogni anche più sublime maniera di componimento.
Puote preterito.
lxviii. [1]Puote non è tempo passato, cioè il potuit latino: che in tal senso non m’è avvenuto mai di trovarlo appresso scrittore che sappia, se non per avventura nella Visione del Bocc., c. 11 «Conoscere non puote ne’ sembianti»; ma è tempo presente e vale solo per potest. Puotero per ‘poterono’ è nel Davanzati Annali l. 14, se ben detto altri ne giudichi. [2]Né è vero ch’ella sia parola del verso e non altresì
della prosa, come altri ha voluto dire; né fa bisogno allegarne esempi, che ve ne sono in tutti i prosatori a migliaia, e per tacer degli altri, la Fiammetta n’è piena.
Dentro e di fuori.
lxix. [1]Regola da non trascurarsi, sì come osservata da chi ci ha date le forme di ben parlare, è adoperare gli avverbi dentro e fuori sì che al primo, solo che sia o accompagnato, non s’aggiunga la particella di, come si fa al secondo: [2]G. Vill. l. 11 c. 37 «Quelli dentro», e quivi appresso «Dentro e di fuori», e c. 51 e 111 «Tra quelli dentro e quelli di fuori»; [3]e simili in moltitudine: Dante, Conv. f. 1 «Dentro all’huomo e di fuori da esso»; Pass. f. 356 «È da sapere che le cagioni de’ sogni possono essere in due modi, o dentro della persona o di fuori. Le cagioni dentro sono in due modi»; e f. 166 «Guai a voi che lavate quello di fuori rimanendo brutto quello ch’è dentro. Voi siete simili a’ sepolcri imbiancati di fuori, e dentro sono pieni di puzzolenti
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carnami»; Petr. canz. 31 [135 59] «Tutto dentro e di fuor sento cangiarme», etc.
[4]Ciò nasce per avventura dall’essere questa voce, dentro, composta di di e d’entro, ond’è che assai delle volte ella si truova sciolta: «Quelli d’entro», «D’entro alla terra», etc.; avvegnaché nondimeno dentro s’adoperi a significare termine di movimento ad alcun luogo, o entrata in esso, che par repugnare alla forza di quella di di che sembra composto; e pur diciamo entrar dentro, passar dentro etc.; anzi ancora v’aggiungiamo la particella in e ne formiamo in dentro.
[5]Ma che che sia, non è che non si truovi appresso autori di nome scritto dentro col di e fuori senza di: Pass. f. 368 «O dalla parte di dentro e dalla parte di fuori», e quivi appresso «Saranno più, e dalla parte di dentro e dalla parte di fuori»; G. Vill. l. 8 c. 55 «Quelli di dentro non potean vedere»; l. 12 c. 58 «Que’ di dentro»; [6]M. Vill. l. 2 c. 32 «Que’ di dentro usciron fuori»; l. 11 c. 6 «Impaurirono quelli di dentro»; l. 10 c. 4 «Que’ di dentro scorrieno fino alle porte di Bologna»; l. 2 c. 47 «La città dentro piena di malfattori e fuori per tutto si rubava»; [7]Cresc. l. 5 c. 19 «Alle parti di dentro»; l. 9 c. 10 «Nella parte di dentro delle cosce»; Dante, Inf. 34 [63] «Che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena».
Con tutto che, con tutto, tutto e tuttoché.
lxx. [1]L’avverbio con tutto che sembra a guisa delle bisce, o di quegli che Dante chiamò alla grechesca di entomata, cioè ‘insetti’, che a tagliarne dall’un capo o
dall’altro un pezzo, pur nondimeno han vita e moto. [2]Peroché troncata da contuttoché la prima o l’ultima particella, anzi ancor l’una e l’altra, quel di mezzo si riman vivo e ha senso.
[3]Dell’intero contuttoché è da avvertire che mal si è creduto ch’egli non s’accoppi co’ tempi del dimostrativo. [4]Anzi, per avventura con questo più frequentemente che col congiuntivo si troverà: G. Vill. l. 1 c. 44 «Con tutto che furono sconfitti»; e c. 48 «Con tutto che era di molte genti abitata»; e c. 61 «Con tutto che la maggior parte si morirono»; l. 7 c. 102 «Con tutto che vivette poco»; l. 8 c. 6 «Con tutto che per molti savi si disse»; e c. 69 «Contuttoché alla prima mostrò d’haver buona intenzione»; etc.
[5]Tutto che vale il medesimo, cioè ‘avvegnaché, quantunque, benché etc.’, e similmente s’accoppia: N. ant. 38 «Tutto che elli confessavano bene che etc.»; G. Vill. l. 6 c. 34 «Tutto che parte de’ Figli erano Ghibellini»; Dante, Inf. 15 [11-12] «Tutto che né sì
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alti né sì grossi / (qual che si fosse) lo maestro felli». [6]Ha questa particella ancora il valere per quasi, come ben avvisò il Vocabolario, ma essa a me non fa bisogno nel proposito di che parlo.
[7]Con tutto significa quel che suona: G. Vill. l. 7 c. 44 «Con tutto fosse di basso lignaggio»; c. 61 «Con tutto fosse amico»; l. 10 c. 214 «Con tutto l’onta e vergogna e danno ricevuto». [8]E a maniera d’aggettivo: G. Vill. l. 8 c. 72 «Con tutta la parata de’ Bolognesi»; e c. 118 «Con tutta la vittoria, fu tenuta folle andata».
[9]Tutto finalmente vale altrettanto che contuttoché, ma non serve volentieri al dimostrativo: G. Vill. l. 1 c. 32 «Tutto fossero pochi»; l. 2 c. 7 «Il quale tutto fosse barbaro»; l. 7 c. 43 «Tutto fosse di piccola potenza»; l. 8 c. 1 «Ve n’havea de’ buoni huomini, tutto fossono de’ potenti»; e c. 48 «Tutto fossero a parte Bianca»; l. 10 c. 126 «I quali, tutto fossono congiunti e stretti»; e c. 173 «Ed io autore, tutto non fossi degno etc.»; l. 11 c. 137 «Tutto non cessassono allora etc»; [10]M. Vill. l. 9 c. 51 «Quello che siegue, tutto paia da’ principi suoi da poco curare etc.».
Ardire, osare e credere con di e senza.
lxxi. [1]Sopra i due verbi ardire e osare, che hanno un medesimo significato, corre fra alcuni grammatici
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questa regola ferma, che ardire richiegga dopo sé la particella di overo a; al contrario, osare l’una e l’altra costantemente rifiuti: ardisco di fare, non m’ardisco a dire, oso dire, oso fare; e par loro un grande ardimento lo scrivere ardisco dire, oso di fare, peroché, dicono, in buon autore non se ne troverà esempio. [2]Io non niego che osare non si sia adoperato più volentieri senza la particella di che con essa, avvegnaché pur il Boccacci dicesse, Filoc. l. 7 n. 444, «Osante di dire»; e M. Vill. l. 9 c. 81 «Niuno osasse d’andare a Bologna»; e il medesimo l. 10 c. 59 «Non osando di tornare a Bologna». [3]Ardire no, che non ha così stretta legge d’essere adoperato con la giunta dell’a o del di, e ve n’ha di molti esempi: [4]Bocc. n. 18 [41] «Non ardiva addomandarla», e n. 51 [Intr. 7] «Vedi bestia d’huom che ardisce, dove io sia, parlare prima di me»; Dante, Par. 31 [137-138] «Non ardirei / lo minimo tentar di sua delitia»; [5]G. Vill. l. 1 c. 32 «Non ardirono tornare»; l. 3 «Non ardirono uscire»; l. 6 c. 88 «Nullo gli s’ardia appressare»; l. 10 c. 6 «Non s’ardirono ascendere»; l. 10 c. 49 «Non ardirono imporne cinquemila»; [6]M. Vill. l. 5 c. 20 «Non ardivano in palese comparire»; e similmente l. 6 c. 16 «Non havendo havuto ardire farlo»; Pass. f[f]. 255[-256] «Sì che non ardisca comparire tra la gente». [7]Il Davanzati, nella sua traduttione, l’usa senza punto guardarsene.
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[8]Più rari per avventura si troveranno gli esempi della particella di aggiunta al verbo credere, usato dagli autori della lingua non altramente che il verbo osare. [9]Pur nondimeno il Bocc. disse n. 19 [20] «Crederei di recarlo a quello etc.»; Fiamm. l. 2 n. 28 «Tu credi di poter dimorare»; l. 5 n. 105 «Di vivere crederei»; Pass. f. 158 «Credere d’havere etc.». [10]Un certo, che in finezza di lingua toscana non si credeva haver pari al mondo, havendo stampato un suo libro che diceva potersi allegare come testo altrettanto che qualunque sia degli antichi, preso da non so quale scrupolo, fra le scorrettioni della stampa che a’ piè de’ libri si sogliono registrare, pose un lungo catalogo di verbi che si pentiva havere nel decorso di tutta l’opera usati senza di; e come huomo ch’era di buona e dilicata coscienza, quivi fe’ a ciascun d’essi la restitutione di quella sillaba che credeva loro per ragione doversi. [11]Ma error fu il correggere come fosse errore quel che errore non era, peroché quant’ho potuto avvertire, osservandone in particolare un grandissimo numero, non so che vi sia verbo che non si truovi appresso gli antichi indifferentemente usato con la particella di e senza. [12]Anzi alcuni d’essi, come piacere, sperare, parere, l’ammettono rade volte, sì come (al contrario di quello che altri ha creduto) bisognare l’accetta: onde il Bocc. n. 21 [16] «Non vi bisognerebbe d’haver pensiero»; n. 93 [30] «Non bisogna di domandare»; Pass. f. 206 «Né
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bisogna di sapere». [13]E altresì giovare, come si vede n. 15 [Dec. ii 5 60] «Non giova di piangere etc.»
Dove stia male adoperato il pronome gli.
lxxii. [1]Gli pronome non vuol mai darsi al terzo caso del numero plurale. E qui è dove tanto sovente inciampano i poco pratichi della lingua, che diranno «Christo elesse dodici apostoli e gli diede facoltà etc.»; «Le vergini pazze si volsero alle sagge compagne e gli porsero le lucerne, pregandole etc.»; «Il Capitano chiamò i soldati e gli disse»; «I servidori fan ciò che il padrone gli comanda etc.». [2]Nell’uno e nell’altro genere si dee scrivere loro, terzo caso del numero plurale, e ciò invariabilmente, comunque poi si vogliano intendere Fazio nel Ditt. l. 5 c. 9 «Di giugno copre l’uova col sabbione. / Il sol le cova, e nati li nutrica / col fiso sguardo che addosso gli pone»; l. 6 c. 2 «Tolse le terre sante a’ Christiani / vincendo quegli e dandogli di piglio»; [3]G. Vil. l. 12 c. 73 «La fallace fortuna, come dà loro [a’ tiranni] con larga mano, co-
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sì gli toglie»; e più chiaramente M. Vill. l. 3 c. 12 «I Fiorentini per queste due terre non si mossono, benché grave gli fosse l’oltraggio de’ Pisani»; [4]N. ant. 83 «Li rivestian di panni nuovi e davanli mangiare»; Cresc. l. 9 c. 69 «Altri sono che gli lasciano [i montoni] a lor volontade coprire, accioché non gli manchi il parto per tutto l’anno».
[5]Similmente non si vuol fare che gli serva al terzo caso del singolare, parlandosi di cosa che sia in genere feminile: «La virtù è forte sì che niun pericolo gli mette spavento»; «Il padre, veduto piangere la figliuola, gli domandò del perché»; «Chi vuol bene all’anima sua, gli procura l’amicitia e la gratia di Dio». [6]Dee scriversi le, ch’è proprio del genere feminile, sì come gli si dà nel medesimo numero a’ maschi. [7]Né a volere altramente ha da muoverci Dante, che disse Inf. 33 [129-130] «Sappi che tosto che l’anima trade, / come fec’io, il corpo suo gli è tolto»; e Fazio, Ditt. l. 6 c. 10 «A Sara sposa gli dicea sorella»; e Ricordan Malespini che, ragionando di donna, lasciò scritto c. 18 «Però gli dite per mia parte» e quivi pure «Andonne per Teverina e dissegli»; [8]né M.Vill. l. 2 c. 24, dicendo della Reina Giovanna, «Per forza di malie o fatture che gli erano state fatte»; e l. 14 c. 18 «Ma o che fosse affatturato o occupato nella mente d’altro peccato, la mattina per tempo gli si levò da lato»: il re di Spagna alla reina Bianca sua moglie; [9]e gli Am. ant. f. 522 «La lussuriosa mente con più ardore perseguita le disoneste cose, e quello che gli è lecito pensa che più dolce sia»; e f. 255 «La bestia, se per ragione non si regge, ae [cioè ha] scusa di natura, dalla quale questa dignità gli è negata».
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[10]Avvertasi ancora che si è posto certe poche volte gli per vi: Dante, Conv. f. 84 «Il buon caminatore giunge a termine et a posa, e lo erroneo mai non gli giunge»; e Purg. 13 [7] «Ombra non gli è»; [11]e Fazio, Ditt. l. 5 c. 21 «Cercato noi quel paese selvaggio, / e visto ch’altro da notar non gli era»; c. 28 «E giunti su la ripa d’un bel fiume, / gli era una barca»; [12]e Bocc. Fiamm. l. 5 n. 110 «O casa male a me felice, rimanti eterna, e la mia caduta fa manifesta al mio amico se gli torna»: se pur qui tornare non havesse altro sentimento che di redire.
Fussi e fossi.
lxxiii. [1]Fussi, fusse, fussero etc. è contro alla regola di quegli che han prescritto al verbo essere il non accettare avanti all’s altra vocale che l’o, concedendo all’u d’entrar solo vicino all’altre, comunque sieno vocali o consonanti. [2]Per ciò, come ben si dice fui, fummo, furono e non altramente, così mal si dice altro
che fossi, fosse, fossero etc. Così essi. [3]Ma se ciò fosse, il tersissimo Specchio della penitenza di frate Iacopo Passavanti sarebbe in più di mille luoghi macchiato: peroché appena è mai ch’egli scriva altramente che fussi e fussero etc. [4]E gli altri del miglior tempo, se loro è venuto alla penna (e a tutti è venuto, benché a qual più e a qual meno), sì l’hanno scritto come leggendone l’opere si può vedere.
Ortografia di gli, ci e ogni.
lxxiv. [1]Gl, in mezzo e in fine di parola dove habbia immediatamente dopo sé la vocale i (trattone negligenza e se altra ve n’è a lei somigliante), ha un suono tenue e molle, sì come è in pigliano, cogliere, spoglio, fogliuto. [2]Congiunto all’altre vocali l’ha più ruvido e forte, come in glauco e gloria etc. [3]Hor quel che avviene al gl dentro alle parole vogliono che altresì siegua quando egli è innanzi ad esse; onde formano questa regola: che la particella gli può gittar la vocale scrivendosi avanti qualunque voce incomincia da i e nondimeno sonerà dolce, percioché incorporandosi con la parola seguente, e perciò unendosi all’i, con esso s’attempera e addolcisce. Così scriveremo gl’innocenti, gl’idolatri, gl’indiani etc. [4]Che se la parola incomincia da qualunque sia altra vocale, le si dovrà scrivere avanti gli intero, non apostrofato:
altramente sonerà duro, come di lui e della tal parola si formasse una sola voce. [5]E ciò dicono alcuni perché l’apostrofo non è segno d’accorciamento, ma avviso che la voce apostrofata e la susseguente si proferiscono come fossero una sola. [6]Per tal cagione tanto sarà dire gl’animi, gl’eloquenti, gl’operai, gl’ulivi, quanto glanimi gleloquenti gloperai glulivi, nelle quali parole, s’elle vi fossero, certo è che il gl si pronuntierebbe duro. Dunque dee scriversi gli animi, gli eloquenti etc.
[7]Questa non è regola che si tragga da alcun uso che ne sia stato invariabile negli antichi, peroché G. Villani ha frequentissimamente questo gl apostrofato avanti di qualche vocale; e così altri autori della lingua non riformati dalle stampe moderne. [8]Anzi, ne’ Malespini, nel Novelliere antico e in più altri così fatti autori, leggiamo figlo, mogle, spoglo, consiglo, glene, togleva e simili in gran numero. [9]Ma non che siano da imitarsi dove il gl è parte d’alcuna parola che né pur dove è pronome, e va innanzi a quelle voci che non incominciano dalla vocale i, si dovrà apostrofare. [10]E ciò perché, tolta a gli l’unica vocale che havea, il gl si rimane senza potersi esprimere con altro suono che quello della vocale che ’l siegue; il perché, s’ella sarà un’a, un’o etc., prenderà il suono che gl innanzi ad a e ad o suol havere, ch’è qual dicevamo in glauco e gloria. [11]Quanto si è scritto di gli chiaro è che si de’ intendere di qualunque altra voce ha gl avanti la vocale in cui termina.
lxxv. [1]Hor si ha a vedere se questo medesimo siegue ancora nella particella ci. Imperoché havendo il c al-
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tro suono accompagnato con le vocali i ed e, come appare in ciccione, Cecilia etc., altro con l’a, o, u, come si vede in capo, conca, cuculo etc., ove altri voglia scrivere per esempio dico io accorciato, facendone dic’io, converrà pronuntiarlo sì come s’ella fosse una parola, dicìo, mutando il suon naturale del c qual è innanzi all’o in dico con l’altro ch’egli ha congiunto all’i. [2]Perciò alcuni v’aggiungono l’h e ne forman dich’io; e ve n’ha esempi nel Bocc. n. 79 [83] «Ma infino ad hora, se voi ricordaste o Dio o Santi, o haveste paura, vi dich’io ch’ella vi potrebbe gittare etc.»; e nel Lab. n. 193 «A questa parola dich’io che etc.»; e n. 281 «Ma che dich’io?» [3]Altri scrivono semplicemente dic’io, e per avventura diranno che il c, gittatone l’o, pur nondimeno ritiene la medesima forza di prima, sì come lettera non indifferente all’uno o all’altro de’ suoni ch’ella può havere, ma obligata all’o, toltole accidentalmente. [4]Così nel Bocc. alcuna volta, e molte volte nella Commedia di Dante, e più spesso ancora in Giovanni e Matteo Villani, e in altri di quel medesimo tempo leggiamo c’hebbi, c’hebbero etc. per che hebbi, che hebbero. [5]Se non volessimo dire che rimanendo quel c senza vocale, e venendogli dietro una voce che incomincia da h, questo communica al c quella medesima durezza che sentiremmo in chebbe, messa la particella e il verbo tutto in una parola.
[6]Ma se ciò fosse, secondo l’insegnar di chi vuole che l’apostrofo non sia segno di troncamento, ma di doversi congiungere la voce tronca con la susse-
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guente, avvegnaché con ciò ben si salvi il proferir duro il c apostrofato in chebbe, non così in dic’io, il quale per conseguente s’havrà a proferire sì come se fosse dicìo.
[7]Hor, a dire il vero, o si scriva dich’io o dic’io, l’una e l’altra maniera ha un non so che che non appaga del tutto, e pur è necessario o fare una strana legge che non si possa mai scrivere altramente che dico io intero, o adoperar l’una o l’altra.
lxxvi. [1]Io non so già da qual buona ragione indotti, alcuni vogliano obligarci a scrivere alla medesima maniera ogni che gli, talché non possa accorciarsi avanti altra vocale che i. [2]L’uso de gli antichi nol pruova, onde, per tacere de gli altri, leggiam molte volte nelle novelle 31, 41 e 100 «Ogn’altra cosa», «Ogn’hora» etc. [3]Né v’è ragione che il voglia, conciosia cosa che la n, etiandio dopo il g, non ha suono diverso avanti all’i che a qualunque altra vocale; altrimenti converrebbe scrivere, come fecero i Malespini ed altri antichi, ingegnio, degnio, Romagnia, sognio e simili.
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Del replicare l’articolo a ciascun nome.
lxxvii. [1]Né articoli, né prepositioni, né qualunque altra delle particelle che si usa mettere innanzi a’ nomi o a’ verbi fa bisogno ripetere a ciascuno d’essi, comunque siano pochi o molti insieme; e gli esempi che se ne possono allegare, e d’ogni autore e d’ogni specie di particelle, sono tanti che sarebbe fatica non che scriverli, ma contarli. [2]Ciò però non si vuole intendere sì ampiamente che ci prendiamo licenza di tacere massimamente gli articoli dovunque ci torna in piacere di farlo. [3]Che chi sarà sì ardito che si faccia a dire per esempio «La terra e acqua sono elementi freddi», «Il sole e fuoco riscaldano» e simili. [4]Ma si dice solo che non sempre, come certi han dato per regola da strettamente osservarsi, fa bisogno ripetere la medesima particella, ma con una sola si possono regger più voci, sottintendendo a ciascuna la sua; e il dove e il come stia bene farlo, l’hanno a mostrare più che altro la discretione e ’l giudicio. [5]Bocc. n. 31 [33] «E ricordar ti dovevi e dei, quantunque tu hora sii vecchio etc.»; n. 41 [68] «Da’ compagni di Lisimaco e Cimone feriti»; [6]G. Vill. l. 7 c. 79 «Annullarono il detto ufficio de’ quattordici e criossi e fece nuovo ufficio»; l. 8 c. 12 «Dall’una parte e l’altra»; l. 10 c. 2 «Né per amor né fede che havessero»; e c. 114 «Le torri, e case, e palazzi, e chiese»; [7]Pass. prol. «Questa è la penitenza alla quale conviene che accortamente s’appigli
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e fortemente tenga»; e f. 27 «Com’è il digiuno, il cilicio, lagrime, discipline, simili cose»; [8]Cresc. l. 6 c. 35 «Nasce il più ne’ monti e luoghi ombrosi»; e 58 «Ha virtù di far dormire, costringere, e di mondificare»; l. 9 c. 99 «Scacciansi le lucertole e rane e tutti altri animali»; l. 12 c. 2 «Nelle corti, campi, vigne e orti»; e c. 4 «Anche si seminano le zucche, i citriuoli, i cocomeri, i melloni, l’appio, l’ozzimo, cappari, serpillo, lattuga, biettola, le cipolle e gli artepici»; e [l. 10] c. 8 «Questo uccello è di mirabil volato nel principio, mezzo e fine, e dove vede l’anitra, oca o gru».
Carcere in amendue i generi.
lxxviii. [1]Un povero disavventurato, perché in certo suo libro usò la carcere feminile, fu condannato in quanto vale un Vocabolario della Crusca, in cui non si legge altro che il carcere maschio. Né gli valse appello né scusa. [2]Ma io havrei condannato il giudice in quanto vagliono le Cronache di Giovanni e di Matteo Villani, appresso i quali la carcere e le carceri si
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leggono assai delle volte: [3]G. Vill. l. 12 c. 16 «Combattero la carcere delle Stinche»; e quivi appresso «Rotta la carcere della Volognana»; e c. 57 «Fulli tolta e disfatta la carcere datali per lo Comune, ove tenea i suoi presi, e cui per lo ’nnanzi facesse prendere, gli mettesse nelle carcere del Comune»; e c. 100 «In istretta carcere»; [4]M. Vill. l. 2 c. 3 «Condannato a perpetua carcere»; l. 9 c. 55 «Mettere in perpetua carcere»; l. 3 c. 22 «Fuori della carcere»; [5]Alb. Giud. Tratt. 1 c. 18 «Nella tua carcere rinchiuso». [6]Le carceri, poi, o le carcere come pur si è detto, si truova in G. Vill. l. 1 c. 30, l. 6 c. 21, l. 8 c. 48 e 72, l. 9 c. 103, e per non tenervi tanto tempo in carcere, tre volte nel c. 8 del l. 12.
Se debba dirsi tu sei o tu se.
lxxix. [1]Al verbo essere non consentono la terminatione in i nella seconda persona del presente dimostrativo, e vogliono che sia fallo lo scrivere tu sei in vece di tu se. [2]Ragione non ce ne danno, né credo che ve n’habbia, sì che volendo possano dimostrarlo. [3]Dunque converrà stare all’autorità de’ buoni scrittori,
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ma questa è sì varia che non se ne può veramente formar buona regola, né per lo se né per lo sei: talché, chi adopera l’uno possa farsi a correggere chi si vale dell’altro.
[4]Il Decameron del ’73 ha mille volte se’ coll’apostrofo, dunque l’intero è sei. [5]Così ancora la Commedia di Dante che suo figliuolo copiò dal testo originale per la metà delle volte ha se’ apostrofato. [6]Hallo altresì G. Vill. l. 8 c. 81 e altri di quei primi tempi. [7]Né mancano esempi di sei disteso: N. ant. 6 «Tu sei stato»; n. 35 «A qual donna sei tu?»; n. 67 «Tu mi sei debitore»; n. 78 «Hor sei tu ancor qui?»; [8]Dante, Par. 22 [7] «Tu sei in Ciel»; Bocc. Fiamm. l. 2 n. 27 «Suo padre di cui tu sei hora pietoso»; Petr. ne’ Tr. « – Dimmi ti priego se sei morta o viva. / – Viva son io, e tu sei morto ancora?»; e son. 234 [274 7] «E sei fatto consorte»; e ne’ son. aggiunti «Anima dove sei?»; [9]G. Vill. l. 6 c. 92 «Sei contro a me poco grato»; e nella giunta «Tu sei fragello di Dio»; il Pass. del 1586 «Tu sei il compagno mio». [10]A’ quali esempi si può aggiungere per ragione una tal convenenza, di schifare l’equivocatione tra se quando significa il latino si e quando vale per lo verbo es.
[11]Per lo se v’è che dire altresì. E prima, che così si truova scritto moltissime volte ne’ medesimi libri che hanno il se’ e il sei. [12]Poi, che i due testi di Dante e del Passavanti dove si legge sei, in altri libri antichi hanno se. [13]Terzo, che il Bocc. n. 65 [57] (che è il geloso), havendo scritto poco avanti due volte se’, poscia
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scrisse così: «Et setti stato in casa a far la notte la guardia all’uscio». [14]Dunque egli non poté voler dire ti se’ o ti sei, altrimenti non havrebbe raddoppiata la t, secondo la regola che di sopra fu data al n. XXXII; ma come il Passavanti e Pier Crescenzi scrissero deti per ti dei, così egli havrebbe scritto seti per ti sei.
[15]Questo è quanto truovo a dire per l’una parte e per l’altra, e mi par tanto che basti a non potersi condannare né il se né il sei, avvegnaché usi quello anzi che questo.
Delle parole disusate e della congiuntione e ed ed.
lxxx. [1]Le parole antiche e i modi di dire che sono già per nuovo uso dimessi, trovandoli ne’ vecchi scrittori come sante reliquie dell’antichità, si voglion mirare con veneratione ma non toccarsi; o almen si debbono havere come quelle tanto famose ghiande del secol d’oro «le qua’ fuggendo tutto il mondo honora». [2]Chi volesse oggidì comparire in publico col cappuccio o col vaio di messer Dante, belle risa che metterebbe di sé a tutto il popolo, che trarrebbe a vederlo come già i Viniziani quell’Alberto re delle fate (o che che altro si fosse) unto di mele e coperto di
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penna matta. [3]Altrettanto sarebbe di chi, comparso a dire o a scrivere in publico, s’empiesse tutto di parole e di forme de gli Enni e de’ Pacuvi della nostra lingua. [4]E pur v’ha di quegli che con istudio particolare ne fanno incetta, scegliendo dal Vocabolario della Crusca, che ne ha ben di molte, postevi, come saviamente avvisano que’ valenti huomini che il compilarono, non perché i moderni scrivendo le adoprino, ma perché leggendo gli antichi le intendano. [5]E di questi altri sono che più vogliosamente s’appigliano alle più rancide e barbogie, e da non usarsi se non se in iscena parlassimo col re Enzo, o nell’inferno col Tegghiaio e col Farinata. [6]Altri, con più riserbo in iscegliere, adunano le non conosciute volgarmente sì
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come non volgarmente usate, se non se alcune pochissime volte ove elle danno qualche gratia, qualche forza, qualche convenevole varietà al dire; ma da essi non solamente ricevute ove elle vengon da sé, ma tirate dalla lungi e, mal grado che se ne habbiano, costrette a entrare dov’elle non vogliono, perché quivi non han buon luogo e non vi si adattano bene: il giudicio le repugna e l’orecchio a udirle si contorce e ne mormora. [7]E come questa va fra i generi delle pazzie, a chi l’ha par essere il più toscanissimo Toscano che sia dalle fonti alle foci dell’Arno; e chi fa professione di lingua e vuole anzi il dir corrente, ma proprio e netto, che un cotal altro che non ha il suo bello nella sceltezza e proprietà delle maniere, ma nella stravaganza delle parole, il mirano come i grossi di fantasia fanno gli antipodi, i quali par loro che stiano stravolti e col capo dov’essi tengono i piedi. [8]Anzi, come quegli che torcevano il collo piegando il capo in su una spalla per così parere Alessandro Magno, contrafacendolo etiandio in quel natural vitio ch’era suo proprio, similmente questi, se v’è alcun error popolare dove si parla più finamente italiano, perché non manchi loro nulla a parer di quegli, sì prestamente sel prendono. [9]Oltre a ciò, qualunque sia il genere del componimento in che scrivono, in tutti parlano una
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medesima lingua, e così in una lettera famigliare come in un panegirico, in un affetto di spirito come in una profana descrittione, vogliono danteggiare. [10]E poco men che non istampino al margine una mano havente il dito steso verso quelle antiche e stranie parole che con isquisitissimo studio vanno incassando nelle lor dicerie, come oggidì si fa delle croste de’ marmi nero orientale, giallo antico, mischio africano, porfido (ch’essi diran profferito) e simili altri, de’ quali le vene o son vuote già da molti secoli o perdute. [11]Chi potrà o non isdegnare o non ridere in udendo alcun di questi antiquari dire (per tacer delle voci più disusate e da non intenderne il significato, se non si porta lo spirito di Mercurio interprete delle lingue legato in un anello e messo come pendente all’orecchio): «Chi non fa le piacimenta della divina maestà, uopo è che vadia alle luogora dello scuro nabisso del ninferno, e quivi colle dimonia pruovi le gastigamenta dovute alle sua peccata». [12]Io non so de gli al-
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tri, so ben che i natii e savi Toscani se ne riderebbono a cento bocche, se cento ne havessero. [13]Tanto più che non poche volte avviene di sentire una parola all’antica e dopo essa un barberismo alla moderna: effetto del cercare più lo strano che il proprio, l’insolito che il regolato.
[14]Questo suol esser esser vitio di quegli che, nati e cresciuti in paese dove le lingue sono o spuntate o grosse o storpie, imparano a ben parlare su’ libri e non han giudicio da cernervi il buono dal reo, e quel che si è detto in un tempo da quel che si vuol dire in un altro. [15]Non che per ciò si debba curar tanto di servire all’orecchio di quali che siano gli uditori, che del tutto si voglia astenere da que’ leciti e provati modi di dire che il buon giudicio detta potersi adoperare; peroché v’ha gente di favella tanto materiale e rozza che, se odono una proprietà di verbo o una forma di dire
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non usata fra loro, se ne risentono come un santo farebbe a una gran bestemmia, e la chiamano affettatione. [16]Pur come ognuno a cui si parla ha fino a un cotal segno ragion di volere che il parlar sia qual egli possa intenderlo senza interprete, e senza havere ogni quattro periodi ad aprire il Vocabolario della Crusca, che non è il libro da chiudere in un pugno (altrimenti il ragionare sarebbe – disse Plutarco – come la cena della gru e della volpe d’Esopo, che tutta era per quel solo che la faceva), egli si vuole astenere da quelle parole che non corrono a’ nostri tempi; [17]e simile dico ne’ libri; e dove alcuna pur se ne adoperi non così usata, si vegga che l’altra commune non era tanto propria, tanto vaga, tanto sonora, se il componimento il richiede; o conveniva usarla per variare; in fine, che si è posta qui con ragione, non per mostrar di sapere più che gli altri, con quel grosso errore di certi i quali, percioché Platone concedeva il rallegrarsi una volta l’anno beendo alquanto più largamente che l’ordinario d’ogni dì, essi, per essere ogni dì in questa maniera platonici, ogni dì erano ubbriachi: che è, in proposito della lingua, usar continuo quello che sol certe poche volte,e non senza haverne ragione, è conceduto. [18]«Vive igitur – disse Favorino appresso Gellio – moribus præteritis, loquere verbis præsentibus. Et tanquam scopulum, sic fuge inauditum atque insolens verbum».
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[19]Per ciò anche convien sapere che, oltre alle parole de gli antichi autori, habbiam quelle dell’uso presente. [20]E mal per la lingua se peccato fosse ogni parola che non ha il conio di Dante, del Boccacci, del Petrarca, de’ Villani, di Crescentio, del Passavanti. [21]Ma di questo scriveremo più distintamente in altro luogo da sé. [22]Hor mi basti il dire che io non sarei di quegli che volessero far segare per man del carnefice, come il maestrato di Sparta, le due corde che un valentissimo ceterista havea aggiunte alle sette della lira antica, non perché elle non rendessero l’armonia in miglior essere, più perfetta, ma sol perché erano cosa nuova. [23]Né sarei sì scrupoloso come Tiberio (quella santa anima), che havendo a nominare in Senato il monopolio, perch’ella è voce greca e il latino non ha la propria rispondente, non s’ardì a farlo senza prima domandarne licenza a’ padri, «quod peregrino verbo uteretur». [24]Credo per quello, che Marcello gramma-
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tico in altra simile occasione gli havea denuntiato che «imperator civitatem romanam dare potest hominibus, verbis non potest».
lxxxi. [1]Hor per finire con qualche avvertimento particolare, eccovi un maestro di prima catedra in buona lingua che v’obliga a rimettere in uso certe maniere dismesse contra il costante esempio de gli anti-
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chi, i quali dissero sanza e noi leggiavamo, noi salavamo, e credavamo, e havavamo, e sedavamo etc., e le in vece di la e di lo parlandosi di cosa d’amendue i generi: [2]Bocc. n. 11 «Glie le contò [parla d’un sogno]»; n. 42 [26] «Mostrandogliele esse, il lor linguaggio apparò»; n. 43 [41] «Volle sapere come quivi arrivata fosse; la giovine glie le contò»; n. 49 [31] «Se io non glie le porto [parla d’un falcone]»; e d’una borsa, n. 11 [26] «L’un diceva che glie le havea tagliata etc.»; e simili di che son piene le scritture de’ vecchi. [3]Ma indarno è voler, come Diogene, entrare solo per la porta onde tutti escono, e presumer non tanto di rompere la calca, ma di voltarla indietro. [4]Il mondo è fermo di voler dire senza, non sanza, leggevamo, salivamo
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etc., non leggiavamo, salavamo; e «glie lo contò», «glie lo portò», «glie la havea tagliata»; o come più leggiadramente diciamo, «gliel contò», «gliel portò», «glie l’havea tagliata», non altramente.
lxxxii. [1]Sopra la congiuntione et sono state e durano tuttavia contrarissime opinioni. [2]Tutti i testi de gli antichi maestri della lingua l’hanno infinite volte, né solamente avanti a vocale, ma altresì a consonante, e ciò quasi continuo; e benché il proferirla riesca un non so che duro, nondimeno la maggiore e miglior parte di quegli che ad imitation de gli antichi hanno scritto regolatamente, non si sono arditi a prendersi questa licenza d’usare l’e più dolce in vece dell’et innanzi a voce cominciata da consonante. [3]Così andava il mondo e così andando credevasi non errare. [4]Fin che improviso si è udita una voce avvisante che tornino addietro, che tutti son fuori di strada; gli antichi non haver usato di scrivere et ma e etiandio innanzi a vocale. [5]E se tutte le stampe antiche e moderne (fuor che sol certe riformate a questa regola) hanno constantissimamente et? Elle hanno tanti errori quanti et. [6]E se gli stampatori hebbero testi a penna copiati da gli originali de’ propri autori? Fu ignoranza de’ copiatori, che non intesero quella cifera con che si esprimeva l’e, ed essi la credettero et. [7]E se ella era
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non una cifera equivoca, ma un e e un t formatissimi quanto il sia l’et che hora usiamo di scrivere? Chi ne vuol la risposta, si fermi qui ad aspettarla. [8]A me convien passar oltre, per dire che:
Quanto all’uso dell’et, egli oramai più non si pone innanzi a parola cominciata da consonante. [9]Coll’altre è lecito adoperarlo dove l’orecchio dice ch’egli rende buon suono, altrimenti si prende l’e o l’ed, oggidì molto usato; che per esser di suono alquanto più pieno che l’et, meglio starà dove la vocale della parola seguente è di picciolo e debil suono. [10]Né è molto da faticare provando che il Boccacci non usasse questo ed (avvegnaché una stampa moderna ve n’habbia messi per entro quanti è piaciuto a chi v’ha posta la mano), peroché l’uso il fa buono, oltre che pur si legge in altri autori del medesimo secolo che il Boccacci.
Ciascheduno.
lxxxiii. [1]Ciascheduno è ributtato da alcuni, perciochè, dicono, il Boccacci mai non usandolo il ripruovò e sempre scrisse ciascuno. [2]Nondimeno ella è voce
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buona, adoperata più volte da Dante e dal Passavanti e da altri del buon secolo. [3]Né è vero ch’ella non si truovi nel Boccacci, se non da chi non ve la cerca. [4]Veggansi le n. 1 [Intr. rubr.], 46 [v 6 8], 55 [vi 5 10], 98 [x 8 18] e 100 e il Lab. n. 103, 148, 346 etc. De gli altri basti dire che gli Ammaestramenti de gli Antichi, purgatissima lingua, l’usano quasi continuo.
Per tutto avverbio e nome, salvo, salvo che e salvo se.
lxxxiv. [1]Per tutto, non ci vogliono dar licenza d’usarlo, fuorché in forma d’avverbio: tal che non possiam dire per tutta Roma, per tutta la terra e simili, ma sol per tutto Roma, per tutto la terra etc. [2]Così certi hanno ad assai meno fare una regola che alla terra un fungo. [3]Egli v’è delle volte assai più di cento ne’ buoni scrittori: Bocc. n. 39 [25] «Per tutta la contrada»; G. Vill. l. 7 c. 44 «Per tutta la christianità»; c. 50 «Per tutta la nostra cittade»; l. 11 c. 113 «Andò per tutta la terra»; l. 12 c. 52 «Per tutta Toscana»; c. 83 «Alla Tana e Trabisonda, e per tutti que’ paesi»; [4]M. Vill. l. 1 c. 8 «Piuvicarono lo studio per tutta Italia»; l. 2 c. 25 «Per tutta la loro riviera»; Cresc. l. 1 c. 6 «Per tutta la corte»; Dante, Purg. 8 [123] «Per tutta Europa». [5]E per non andar per tutto aggirando, se
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dieci volte si truova per tutto a maniera d’avverbio, si truova cinquanta aggettivo e accordato. [6]E ancor da questo si vede quanto sia da fidarsi di certi che han formate regole universali su quel che hanno osservato in quattro carte d’un autor solo.
lxxxv. [1]Con la medesima varietà d’avverbio e d’aggettivo si è usata la voce salvo e salve etc.: G. Vill. l. 11 c.1 «Salvo una pila»; e quivi appresso «Salvo due pile»; e c. 25, 59, 81 etc. «Salvo la rocca»; e c. 38 «Salvo la fortezza»; e l. 9 c. 189 «Salvo le persone»; G. Vill. l. 11 c. 25 e M. Vill. l. 11 c. 6 e 18 etc. «Salve le persone»; e il simile con ogni altra voce in amendue i generi e i numeri.
[2]Vuolsi ancora avvertire sopra questa medesima voce, salvo, che usandola avverbio, ella si può metter sola o accompagnata da che o da se: [3]G. Vill. l. 8 c. 35 «Salvo volea esser libera di potere adorare etc.»; l. 9 c. 46 «Salvo da quella parte etc.»; l. 11 c. 84 «Vicario dello ’mperio, salvo in Italia»; M. Vill. l. 3 c. 99 «Salvo coloro di cui s’era fidato». [4]E col che nel medesimo significato: G. Vill. l. 1 c. 57 «Salvo che un sol ponte»; l. 4 c. 12 «Salvo che n’ha in Bologna». [5]E col se, dove si adopera conditionalmente: Bocc. n. 17 [24] «A niuna persona manifestassero chi fossero, salvo se in parte si trovassero dove aiuto manifesto alla lor libertà conoscessero»; n. 100 [32] «Non la lasciar per modo che le bestie e gli uccelli la divorino, salvo se egli nol ti comandasse».
Dell’i doppio in fine d’alcuni preteriti e d’alcuni nomi.
lxxxvi. [1]La terminatione propria della prima persona de’ verbi della quarta maniera nel preterito, insegnano alcuni ch’ella è d’un semplice i, e che dee scriversi io udì, io sentì, io fuggì etc. e non altramente, avvegnaché ella faccia una pericolosa equivocatione con la terza persona del medesimo tempo. [2]Altri vogliono che l’uso sia di finire i verbi di quella maniera e tempo in un semplice i, dove riguardando alla ragione dovrebbon finirsi in due, e scriversi io udii, sentii, fuggii. [3]In pruova di che io recherò due testi di Dante, colà ove disse Purg. 17 [67] «Sentimi presso quasi un mover d’ala», e Par. 3 [103-104] «Dal mondo per seguir la giovinetta / fuggimi»: hor se la natural terminatione fosse un solo i, dovea raddoppiarsi la m e scriversi sentimmi e fuggimmi, secondo la regola che innanzi se n’è data.
[4]Quanto poi all’uso, egli non è in possesso d’un i solo sì che n’habbia fatto legge e schivine i due. [5]Partii e sentii sono di Dante, Inf. 22 [66] e Purg. 21 [68], né vi si può leggere altramente, peroché il primo è rima di desii e rii, l’altro di pii e invii. [6]Bocc. Lab. n. 54
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«Dico che com’io queste parole dallo spirito udii, conoscendo il mio pericolo e la benignità del mandatore, io mi sentii venire nell’animo etc.»; similmente nell’Intr. e n. 5, 23, 41, 45 etc., e nel Lab. n. 83, e nella Fiamm. l. 1 n. 19 e 31, schernii, sentii e così altri in gran numero.
[7]Il medesimo dubbio del semplice o doppio i può nascere nella formatione delle seconde persone di qualunque maniera di que’ verbi che hanno la prima lor voce in io: cambio, sconcio, vario etc. [8]E mi par possa dirsi che se quell’io finale sono due sillabe, le seconde voci richieggano o ammettano due i: io vario, tu varii, io allevio, tu allevii, io spatio, tu spatii. Se è una sola, in un solo i si finiscono: io acconcio, tu acconci, io cambio, tu cambi, io compio, tu compi etc.
[9]Alla medesima strettezza d’un solo i finale un cert’altro ha voluto che soggiacciano nel numero maggiore i nomi, o siano aggettivi o sustantivi, che nel primo caso singolare finiscono in io: misterio, diluvio, studio, dubbio, che misteri, non misterii, diluvi, non diluvii etc. vuol che si dica. [10]Ma di volerlo così universalmente come insegna non ha veramente ra-
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gione: incendii, desiderii, micidii, naufragii, spatii, varii, contrarii, rimedii e così fatti altri s’incontrano in ottimi testi che lungo sarebbe trascrivere. [11]Non che non si possa dire altrettanto bene (ed io ho preso a scriver così perché mi va più al verso) incendi, desideri etc. ove non ne siegua equivocatione, con dubbio se siano nomi o verbi, che in tal caso parrà più ragionevole usargli stesi e interi. [12]Sì come ancora non mi pare che siano da finirsi in due i quei nomi che nel primo caso del singolare hanno l’io finale d’una sillaba sola, come vecchio, cerchio, consiglio, empio, uscio, dubbio, scoglio, specchio etc.; né scriverei come M. Vill. l. 9 c. 15 occhii, ma come il Bocc. n. 81 varii dubbi, e così de gli altri. [13]Quei nomi poi che han l’accento posato su l’i immediatamente vicino all’o finale nel numero singolare, certo è che nel plurale non si voglion finire altramente che in doppio i: così natio, restio, desio, mormorio, oblio etc. ci danno natii, restii etc.; e simile i nomi di sol due sillabe, come rio, pio, dio etc., che diventano rii, pii, dii etc.
Semo, havemo, dovemo e simili, se siano ben terminati.
lxxxvii. [1]La terminatione in emo nel dimostrativo presente de’ verbi della seconda maniera non è della lingua, dice il Bembo, ancorché il Petrarca e ’l Boc-
cacci l’usassero in havemo e semo. [2]Un altro l’intitola terminatione lombarda. Miracolo se non verrà anche un terzo che per farla parere più peregrina ne tragga l’origine fin di Castiglia, dove dicono nos otros semos, havemos, podemos. [3]Ma se è lecito dir sua ragion sotto voce o almen fra sé medesimo, io domando perché una tale sia maniera di dir toscano, che le bisogna? Ha ella per avventura a passar per concilio o definirsi per bolla? [4]L’usarono tutti i maestri della lingua da che v’è memoria che si parli italiano. [5]Dante, nelle prose del Convivio, che scrisse dopo la Commedia, continuo adopera semo, havemo, vedemo, volemo, dovemo ed etiandio vivemo, conoscemo etc., che sono verbi della terza maniera; Giovanni e Matteo Villani ne sono pieni; Pier Crescenzi l’ha delle volte assai, etc. [6]Hor che le manca ad essere terminatione toscana? Se non se per avventura il formarsi ella, come ne pare a’ grammatici, dall’infinito del verbo, mutato re in mo (dovere, dovemo), non dalla seconda persona
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del suo singolare, aggiuntole amo (ami, amiamo). [7]Ma ciò punto non vale a provar che questa sia formatione legittima e quella bastarda, che cotali regole non han prodotta la lingua, ma se le han pensate i grammatici per insegnarla. [8]Oltre che ben sappiamo che più communemente usata è la terminatione in amo che in emo, ma se l’una sia nata prima dell’altra, e se l’una in Toscana e l’altra altrove, si cerchin le cronache della division delle lingue sotto Babel per fino a’ nostri dì, egli non vi si troverà. [9]Non vo’ io dir che si lasci per questa, come fe’ Dante nel sopradetto Convivio, quasi del tutto l’ordinaria terminatione di siamo, habbiamo, vogliamo etc., ma ove ci torni meglio alcuna volta scrivere havemo, semo e dovemo, che sono i più usati (e tal luogo vi può essere dove questa terminatione suoni all’orecchio più dolcemente che l’altra), crediam certo ch’egli è ottimamente detto. [10]E siaci cotal terminatione venuta di Calecut non che di Lombardia, ella, alla più trista, è per privilegio, se non per nascimento, toscana.
I participi preteriti retti da havere e da essere, come s’accordin col nome.
lxxxviii. [1]Questo è un laberinto di cui è paruto ad alcuni che non si possa uscire senza far cento miglia, girando e avvolgendosi dentro uno spatio di cento
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passi; e ciò perché appena si può mettere avanti un piè che non si dia di petto in un qualche verbo per cui bisogni torcere e voltare facendo nuova regola, o alla vecchia regola una nuova eccettione.
[2]I participi preteriti, dicono (che sol di questi parliamo), o si guidano col verbo havere o con l’essere; questi a una maniera, quegli a un’altra finiscono, e le maniere del finire sono o semplicemente o, senza niun riguardo a genere di persona o numero di cose, o come aggettivi che prendono la qualità del genere e la quantità del numero, e loro regolatamente si adattano; benché non tutti a un medesimo modo, come più avanti vedremo.
[3]I participi preteriti guidati dal verbo havere vogliono che s’accordino non con l’havente, ma con la cosa havuta, e da lei prendano la terminatione secondo il genere e ’l numero; come a dire «San Giovanni ha
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scritta l’Apocalisse», «San Paolo ha scritte quattordici lettere», «San Luca ha scritti gli Atti degli apostoli». [4]Così dicono haver usato il Boccacci, e che dove parlò altramente hebbe l’occhio a sei diverse maniere di collocare i participi, le quali per non iscriverle non me le raccordo. [5]Sì perché il Boccacci, se ben fosse l’ottimo e havesse vinti i participi con quelle tante riflessioni che certo mai non gli vennero in capo, non però è l’unico regolatore del ben parlare e scrivere in italiano, talché non si possa altramente da quel ch’egli usò; e sì ancora perché le sopradette eccettioni si sono formate su due o tre soli esempi del Decamerone, co’ quali si è fatta regola universale; [6]e il peggio è che, percioché v’ha molti altri testi del Boccacci medesimo in contrario, il valente osservatore tagliò a tutti insieme la gola, dicendo che sono testimoni falsi e da non udire in giudicio contra lui, peroché sono scorrettioni di scrittori o falli di stampe non emendate.
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[7]Che se i participi si guidan coll’essere, o si traggon da’ verbi transitivi o da’ intransitivi, e sono adoperati o in prosa o in verso, e secondo questi vari modi variamente s’accordano. Il come si vedrà da gli esempi che qui appresso daremo contrari alle lor regole, più tosto che dalle lor regole contrarie a gli esempi de’ buoni scrittori.
[8]Hor cominciando da’ participi preteriti che si guidano col verbo havere, egli si son più communemente accordati in genere e in numero con la cosa havuta. [9]Come a dire Bocc. n. 49 [34] «In assai cose [dice Federigo Alberighi] m’ho reputata la fortuna contraria»; n. 41 [56] «Essi [gl’iddii] hanno dalla tua virtù voluta più esperienza»; n. 51 [Intr. 2] «Havea la luna perduti i raggi suoi»; n. 33 [12] «Carissimi giovani, la vostra usanza vi può haver renduti certi»; n. 26 [15] «Le quali [ambasciate] io ho tutte da lei risapute, et ella ha fatte le risposte secondo che etc.». E simili in ogni altra maniera di genere e numero.
[10]Nondimeno il finire questa sorte di participio in o, maschio o femina che sia l’havente e la cosa havuta, etiandio se in numero plurale, ha in sì gran moltitudine esempi, che l’haverli più communemente accordati sembra anzi fatto per un certo natural correre della penna che per osservatione di regola. [11]E veggansi, de’ mille testi che se ne possono allegare d’ogni autor del buon secolo, questi pochi che sieguono, e basteranno spero a dimostrare che non sono, come altri vor-
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rebbe, eccettioni, ma libera facoltà d’usar così questo modo a cui piace come l’altro, salvo se il farlo offendesse l’orecchio con qualche durezza, o generasse alcun dubbio e ambiguità onde il senso riuscisse men chiaro.
[12]E prima, quanto al genere. Il Boccacci, che n. 41 [64] disse «Lisimaco, ogni cosa opportuna havendo apprestata», disse anche n. 15 [60] «Come havrò loro ogni cosa dato». [13]E così del participio fatto: G. Vill. l. 1 c. 12 «Havea fatta loro onta», il medesimo l. 8 c. 86 «Havea fatto guerra». Il Boccacci, dove il participio fatto è posto in vece del verbo antecedente, usò di finirlo in o: così leggiamo n. 32 [8] «Pensò di trovare altra maniera che fatto [cioè ‘trovata’] non havea»; n. 84 [13] «Et ecco venir Fortarrigo, il quale, per torre i panni come fatto [cioè ‘tolti’] havea i danari». [14]E sopra ciò sì è ferma, da chi l’osservò il primo, regola universale, che dove fatto sta in vece del verbo non si accordi con la cosa, ma si termini in o. Pur G. Vill. l. 7 c. 104 disse «Andò sopra lo Re d’Araona con più potenza che mai suo antecessoro havesse fatta».
[15]Il medesimo osservatore vuole che, dove il participio va innanzi all’infinito, egli sempre si termini in o: Bocc. n. 1 [41] «Molte fiate havea desiderato d’havere cotali insalatuzze» (benché qui per avventura sia altra ragione, cioè la particella fra ’l participio e ’l verbo: come n. 76 [46] «Non havendo Bruno anco-
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ra compiuto di darle etc.», n. 83 [33] «Contenti d’haver con ingegni saputo schernire l’avaritia di Calandrino»); G. Vill. l. 8 c. 91 «La quinta cosa che s’havea fatto promettere»; M. Vill. l. 1 c. 14 «Havendo fatto armare una sottile galea». [16]Pur il medesimo Boccacci disse n. 17 [80] «Alla quale parecchi anni a guisa di sorda e mutola era convenuta vivere»; n. 31 prol. [Intr. 28] «Quanto a me non è ancora paruta vedere alcuna cosa così bella». [17]E se diran che qui il participio è guidato dall’essere, non dall’havere, onde converrà loro far nuova regola, ecco G. Vill. l. 8 c. 6 «Si disse che haveano fatta tagliar la testa a M. Betto», M. Vill. l. 4 c. 36 «Il Papa non v’interpose come havrebbe potuta la sua autorità». [18]Ma senza attendere alle altrui regole, né osservare i misteri che di lor fantasia van facendo quando il medesimo verbo del participio si soggiunge, o il verbo e il nome paiono una cosa medesima, o se altro è venuto loro in mente di scrivere, poniam qui altri esempi di vari participi discordanti in genere con l’havuto.
[19]N. ant. 3 «Ha rifiutato la nobile città di Giadre»; n. 66 «Io ho veduto cosa che mi dispiace»; n. 80 «Quando hebbero rifatto Troia».
[20]Bocc. n. 27 [87] «Né havendo havuto in quello [convito] cosa alcuna altro che laudevole»; n. 31 [4] «Havendo ella avanzato l’età etc.»; n. 42 [30] «Ho
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alla maniera che tenete nelle vostre battaglie posto mente»; n. 77 [93] «Col quale ho dato via al tuo desiderio»; e nella stessa [48] «Se lo scolare saputo havesse nigromantia»; n. 78 [3] «Donne, percioché mi pare che trafitto v’habbia la severità»; n. 94 [32] «Assai ve n’erano che lei havrebbon detto colei ch’ella era»; Fiamm. l. 6 n. 2 «Zeffiro havea l’impetuosa guerra di Borea posto in pace»; e n. 28 «A chi m’ha detto alcuna cosa», etc.
[21]G. Vill. l. 7 c. 27 «I quali haveano seguito la caccia de’ Proenzali»; c. 68 «Dappoiché non havea voluto la terra a patti»; l. 8 c. 64 «Questa materia ha hauto sua fine»; c. 87 «Parendogli che i grandi havessero preso forza»; c. 119 «Dissesi che la terra s’havrebbe havuto per forza»; l. 10 c. 166 «N’havemo fatto memoria», etc.
[22]M. Vill. l. 1 c. 58 «Parendo al Papa haver perduto la Signoria di Romagna»; c. 97 «A cui i Signori haveano commesso la bisogna»; l. 2 c.8 «Non havendo prima annuntiato la guerra»; c. 50 «Gli havea tolto la rocca»; l. 3 c. 101 «Havea rubbellato Verona»; c. 67 «Havendo fatto gran vergogna a’ Viniziani»; l. 6 c. 24 «Il Re Giovanni di Francia havea renduto pace al
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Re di Navarra e perdonatogli la morte del Conestabile etc. et essendo loro commesso dal Re la provisione etc.».
[23]Dante, Inf. 9 [94-96] «Quella voglia etc. / che più volte v’ha cresciuto doglia»; Inf. 24 [13] «Veggendo il mondo haver cangiato faccia». Cresc. l. 1 c. 10 «Quando havranno preso similitudine».
[24]Petr. canz. 4 [23 43] «Di quella fronde / di che sperato havea già la corona»; canz. 29 [128 38] «Al corpo sano ha procurato scabbia»; canz. 40 [268 15-16] «Ad uno scoglio / havem rotto la nave»; canz. 47 [359 27-28] «Come Dio e natura havrebbon messo / in un cuor giovanil tanta virtute»; son. 89 [11 7-8] «Havrebbe a Giove nel maggior furore / tolto l’arme di mano e l’ira morta».
[25]Detto della discordanza dal genere; siegue a dire dell’altra dal numero.
[26]N. ant. 3 «Ha preso li marchi»; n. 65 «I dieci tornesi d’oro che il Re v’havea fatto mettere»; n. 83 «Li havea imbolato ciriegie»; [27]Bocc. n. 93 [28] «Iddio gli occhi m’ha aperto dell’intelletto»; n. 39 [13] «Se non havessi in quella conosciuto cose che etc.»; Fiamm. l. 1 n. 3 «Il cibo, il sonno, i lieti tempi etc. hanno da me tolto via»; [28]G. Vill. l. 1 c. 12 «Havea fatta loro onta e volutoli prendere»; l. 8 c. 56 «Con un bastone havrebbe atteso due a cavallo»; [29]M. Vill. l. 1 c. 89
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«Sentendo che la sua gente havea sconfitto i Baroni del Re»; l. 4 c. 78 «Hanno lasciato nelle città Vicari Imperiali»; c. 85 «Gli Ambasciadori del Comune d’Arezzo, havendo sostenuto molte battaglie»; e quivi appresso «E havendo gli Ambasciadori convintogli per ragione»; l. 11 c. 3 «Che prima felici auguri non havessono cerco e veduti»; [30]Cresc. l. 9 c. 65 «Quelle cose che ho potuto con verità sapere ho messo in iscritto»; [31]Petr. son. 136 [168 5-6] «Io che tal hor menzogna e tal hor vero / ho ritrovato le parole sue»; son. 285 [328 1-2] «De’ miei giorni allegri / che pochi ho visto in questo viver breve»; [32]Dante, Par. 19 [92] «Poiché ha pasciuto la cicogna i figli etc.».
[33]Passiamo hora a’ participi col verbo essere. E prima, eccoli accordati col nome, come vogliono che sempre si faccia almen nelle prose: Bocc. n. 39 [18] « – Donna, chente v’è paruta questa vivanda? La donna rispose: – Monsignore, in buona fé ella m’è piaciuta molto»; n. 61 [Intr. 2] «Ogni stella era già fuggita»; n. 100 [9] «Erano a Gualtieri piaciuti i costumi etc.».
[34]Eccoli discordanti: N. ant. 4 «Tutta la guisa si fue contato»; Bocc. n. 12 [37] «M’è venuto stasera voglia»; n. 36 [17] «Né per ciò cosa del mondo più né meno me n’è intervenuto»; [35]G. Vill. l. 7 c. 9 «A piè del ponte di Benevento fu seppellito, e sopra la sua fossa per ciascuno dell’oste gittato una pietra»; c. 36 «Fu abbattuto [il castello] e toltogli ogni giurisdittio-
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ne»; c. 57 «Avvenne che fu sturbato la detta impresa»; c. 68 «Al fallo della guerra si è incontanente apparecchiato la disciplina e penitenza»; c. 80 «Al quale fu dato per tradimento la Città di Faenza»; l. 8 c. 95 «Sì che a quello [suggello] non fosse dato fede»; c. 103 «A chi desse aiuto alla Chiesa fu fatto grande indulgenza»; [36]M. Vill. l. 1 c. 2 «In quella tempesta fu abbattuto parte del Tempio di Maometto»; c. 25 «Per trattato fu dato loro la Signoria di Vigiano»; c. 61 «Furono presi e rubato loro armi e cavagli»; l. 2 c. 11 «A cui era commesso la provisione»; l. 3 c. 90 «Fu dato loro larghezza di case etc.».
lxxxix. [1]Rimane hora a dire per giunta come s’accordino i participi assoluti non retti né da havere né da essere, benché veramente i loro gerondi, essendo e havendo, vi s’habbiano per sottintesi. [2]Al che, per non tenervi lungamente in parole cercando quel che altri ne può havere insegnato, lascerò che Maestro l’Uso degli antichi risponda, mostrandovi da’ lor testi che niuno, quantunque il voglia, vi può costringere ad accordarli col nome né in genere né in numero, ma il farlo o no, e in un luogo anzi che in altro, e col participio di questo più che di quel verbo, si lascia al buon vostro giudicio, che solo è regola universale dove altra non ve ne ha, come nella materia di che ragioniamo. [3]E percioché dell’accrodarli appena v’è
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disparere, non farà bisogno diffondersi in molti esempi.
[4]Bocc. n. 19 [35] «Giunto il famigliare a Genova e date le lettere e fatta l’ambasciata etc.»; G. Vill. l. 7 c. 9 «Ordinate le Schiere de’ due Re e ciascuno de’ detti Signori ammonita sua gente e dato il nome per lo Re Carlo etc.»; l. 8 c. 92 «Rotto il sermone e non compiuta di dire la sentenza, si partirono i Cardinali etc.».
[5]Discordan nel genere i seguenti: N. ant. 54 «Venuto la sera, il rimisero dentro»; G. Vill. l. 8 c. 23 «I Colonnesi, trovandosi ingannati di ciò ch’era stato loro promesso, e disfatto sotto il detto inganno la nobil Fortezza di Pilestrino etc., si rubellaro»; l. 8 c. 114 «I detti usciti, fatto lega e compagnia insieme etc.»; [6]M. Vill. l. 1 c. 22 «Fatto triegua dall’un Re all’altro etc. posò la guerra»; c. 52 «Commendatola della sua venuta»; l. 2 c. 15 «Messer Giovanni etc. veduto la gente rinfrescata»; l. 3 c. 8 «Religato la corona, montò a cavallo»; c. 10 «Levato la terra a romore»; c. 70 «Fattogli tagliar la testa»; c. 82 «Fatto far pace tra loro»; c. 102 «Udito la sagacità» e «havuto gente d’arme etc.»; l. 8 c. 21 «Dibattuto lungamente la guerra»; l. 9 c. 95 «Preso cagioni honeste»; e quivi appresso «Preso scusabili cagioni»; e simili altri a migliaia.
[7]I seguenti nel numero: Bocc. n. 14 [24] «Le mani dalla cassa sviluppatogli»; e più sotto [27] «In alcuni
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stracci ravvoltole»; n. 41 [69] «Sopra la quale [nave] messe le donne e saliti essi e dato de’ remi in acqua, lieti andaron pe’ fatti loro»; [8]G. Vill. l. 7 c. 69 «Fu consigliato che cavalcasse a Palermo, e saputo a Palermo novelle del Re Carlo, prenderebbe consiglio»; l. 8 c. 92 «Sopra ciò fatto dar per lo Re certe pruove, li fece tormentare»; l. 10 c. 34 «E mandato il Bavero suoi Ambasciadori, non li lasciarono entrare in Pisa»; [9]M. Vill. l. 1 c. 42 «Currado Lupo una notte vi cavalcò, e trovato le porte aperte, etc.»; c. 58 «Rafforzata la bastia e messovi le guardie»; c. 67 «Tornato M. Giovanni a Bologna e lasciato a’ soldati della Chiesa gli stadichi»; l. 2 c. 59 «Dato le prode contro a’ nemici, feciono testa»; l. 3 c. 3 «Commendato i loro Communi»; e 6 «Fattone solenni stipulazioni e carte»; c. 35 «Tolto l’arme e i cavagli, gli lasciarono»; c. 82 «Alla quale [torre] accostato il Conte suoi edifici, la faceva tagliare etc.»; l. 5 c. 23 «Fattogli ricchi presenti e domandatosi per lui cose indiscretamente etc.».
Avverbi come aggettivi e aggettivi come avverbi.
xc. [1]Certi avverbi che han forza di significare quantità, come sono tanto, molto, poco, troppo ecc., si è tal-
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volta usato di sciorli e farne aggettivi accordati, e pur nondimeno serbando, se si vuole, le particelle che loro come ad avverbi si danno.
[2]Tanto e quanto. G. Vill. l. 7 c. 132 «Tanta poca gente»; M. Vill. l. 3 c. 14 «Con tanta furiosa tempesta»; e 11 c. 48 «Io non credo che per altrettante di gente etc.»; Bocc. Lab. n. 160 «Dei tu assai ben comprendere in quanta cieca prigione etc.»
[3]Molto. Bocc. n. 43 [14] «Veggendosi molti meno de gli assalitori»; G. Vill. l. 2 c. 1 «Con molti larghi patti»; c. 11 «Li volle donare molti grandissimi tesori»; l. 12 c. 20 «I Bardi erano molti forti»; l. 8 c. 9 «La quale [chiesa] era di molta grossa forma»; l. 2 c. 15 «Molti pochi ne ritornarono in Affrica»; l. 2 c. 7 «Era la città molta piena di paura»; c. 15 «S’ordinarono a molta sollecita guardia»; N. ant. 54 «Parea loro molta grande novità».
[4]Poco. Bocc. n. 77 [103] «Quella poca di bella apparenza»; G. Vill. l. 7 c. 8, 9 etc. «In poca d’hora»; l.
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5 c. 35 «Fuggì con poca di sua gente»; F. Vill. c. 78 «I pochi honesti costumi».
[5]Troppo. G. Vill. l. 10 c. 109 «Voleano troppo larghi patti»; Bocc. n. 13 [19] «La troppa giovane età»; n. 100 [Concl. 6] «Per troppa lunga consuetudine»; Dante, Purg. 9 [124-125] «Vuol troppa / d’arte».
[6]Mezzo. Bocc. n. 65 [13] «Io sarei mezza fornita etc.».
xci. [1]Al contrario, si è usato di por gli aggettivi a maniera d’avverbi non variandoli avanti a voci di qualunque genere o numero siano. [2]Pass. f. 39 «I quali, somigliante al diavolo»; Dante, Purg. 12 [88-89] «A noi venia la creatura bella, / bianco vestita»; G. Vill. l. 6 c. 77 «Un carro tutto dipinto vermiglio»; l. 4 c. 12 «E simile i Greci»; l. 8 c. 75 «I quali, veggendosi improvviso assalire»; l. 12 c. 50 «Palese si dicea»; [3]M. Vill. l. 8 c. 69 «Se volemo più honesto parlare»; F. Vill. c. 8 «Tonò smisurato più volte»; [4]Cresc. l. 2 c. 17 «Nelle terre fredde si conviene seminar primaticcio», ch’è quello stesso che da poi disse più avanti, nel medesimo capo, «Seminar primaticciamente»; l. 9 c. 55 «Sì come nel capitolo precedente aperto si narra»; c. 92 «Continuo si tenga netto i loro abitacoli»; [5]Petr. son. 207 [244 11] «Mirar torto»; canz. 35 [207 87] «E fia s’io dritto estimo»; Pass. f. 109 «Io dico troppo lungo»; f. 304
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«Per iscriver breve»; Filoc. l. 7 n. 545 «I cibi presi superfluo»; Am. ant. f. 71 «Le picciole cose se rado intervengono»; f. 86, 119, 383 «Malagevole ride», «Malagevole si dispera» etc.; f. 149 «Coloro a’ quali bugiardo promettono»; Barb. f. 146 «Ed ogni cosa che leve soggiunge»; Dante, Par. 15 [39] «Ch’io non intesi, sì parlò profondo». [6]Così alto, basso, piano, forte, etc.
Di certi gerondi che si pongono senza affisso.
xcii. [1]Proprietà dicono essere del gerondio il potersi gittar d’addosso qualunque sia delle particelle affisse che al verbo, in ogni altro tempo fuor che nel gerondio, si dovrebbe. [2]Così il Bocc. n. 37 [7] disse: «Forte desiderando e non attentando di fare più avanti»; dove poi n. 47 [8] scrisse: «E non attentan-
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dosi di dir l’uno all’altro cosa alcuna». Così n. 97 [20] «Temendo e vergognando», dove n. 46 [29] havea detto «Amendue vergognandosi forte». E di simili ve ne ha molti.
[3]Ma questa a me non pare licenza propria del gerondio, ma del verbo, che può essere hor semplice neutro hor neutro passivo, e perciò prendere o lasciar l’affisso. [4]Che se non trovassimo di così fatti verbi altro che il gerondio senza mi, ti, si, ci e simili particelle, potremmo sicuramente dire questa essere sua proprietà; ma il vero si è che appena si troverà niun di così fatti gerondi i cui verbi, in altri tempi, non siano liberi dall’affisso, e ne darò qui alcuni pochi esempi per non fare un vocabolario. [5]E il primo sarà del gerondio, il seguente del medesimo verbo in altro tempo, senza accompagnamento d’affisso.
[6]Bocc. n. 37 «Desiderando e non attentando», Pass. f. 221 «A fare imprese che non fanno e che non attentano di fare gli altri»; [7]Dante, Purg. 2 [69] «L’anime etc. / maravigliando diventaro smorte», G. Vill. l. 10 c. 166 «Ma di ciò non è da maravigliare» e Fiamm. l. 6 n. 16 «Con tutto il maravigliare n’eran lietissimi»; [8]N. ant. 56 «Una donna in pianto scapigliata e scinta e forte lamentando etc.», Petr. son. 236 [276 5] «Giusto duol certo a lamentar mi mena»; [9]Dante, Inf. 31 [38-39] «Più e più appressando in ver la sponda / fuggemi error etc.», Inf. 24 [108] «Quando il cinquecentesimo anno appressa»; [10]Cresc. l. 10 c. 8 «Su rotando sale», Dante, Par. 12 [3] «A rotar cominciò la santa mola»; [11]Dante, Purg. 5 [55-56] «Sì che pentendo e perdonando, fora / di vita uscimmo», Inf. 27 [118-119] «Assolver non si può chi non si
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pente, / né pentere e volere insieme puossi»; [12]Bocc. Fiamm. l. 1 n. 64 «Ella allora sdegnando», G. Vill. l. 11 c. 58 «Onde i Fiorentini sdegnarono molto»; [13]Petr. canz. 9 [50 66] «Per iscolpirlo imaginando in parte», Bocc. n. 21 [12] «Molte cose divisate seco imaginò»; e in forma di neutro passivo: n. 43 [45] «Imaginossi di non dovere etc.» e Filoc. l. 1 n. 15 «Quello che già s’imaginava». [14]Così vergognando, sbigottendo etc. in gran moltitudine.
Della forza che ha il trasporre l’accento.
xciii. [1]L’accento in alcune voci (oltre a quel che ne fu detto più avanti) ha una tal forza, che passando d’una in altra sillaba caccia quella vocale onde si partì, e un’altra in sua vece ivi ne ripone. [2]A tal cambiamento suggetti sono i verbi esco e debbo, i quali, mentre l’accento posa loro su la prima sillaba, si ritengono la vocale e, dicendosi esco, esci, esce, escono, debbo, debbi o dei, debbe o dee, debbono etc.; in passar dalla prima a qualunque altra delle susseguenti, l’e nel verbo uscire si cambia in u, in dovere hor in o hor in ov; e si dice uscire, uscì, uscivano, uscirò, usciranno etc., dovere, doveano, dovrò, dovrebbe, dovranno e conseguentemente dobbiamo, che nel Pass. f. 105 e 213 mal si legge debbiamo.
[3]Con la medesima regola il verbo udire, dove hab-
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bia l’accento su la prima sillaba, ritiene l’o: odo, odi, odono, odano; in passar oltre l’accento, l’o si trasmuta in u: udivano, udiranno, udirò, etc.
[4]La medesima forza ha l’accento in dissolvere alcuni dittonghi, quando di sopra essi passi ad alcun’altra delle sillabe che vengono dietro. [5]Questi sono singolarmente uo ed ie. Suona dunque e suonano, cuopre e cuoprono, siede e siedono, gielo e gielano etc. così ben si pronuntia e scrive nelle prose mentre l’accento prieme il dittongo; ma portandosi oltre, egli perde la prima vocale e diciamo non suonare, cuoprire, siedere, gielare etc., ma sonare, coprire, sedere, gelare, e di così fatti ve ne ha fra’ verbi gran moltitudine. [6]Che se il dittongo è di tre vocali, non v’ha regola che si osservi ugualmente, peroché giuoco allo stile antico perde l’o, e figliuolo l’u, scrivendosi giucare e figlioletto; avvegnaché nel N. ant. 20 si legga giuocasse; e in giochevole, giocolare, giocoso etc. si ritenga l’o; e nel Bocc. n. 16 [74], 29 [60], 30 [4] etc. figliuoletti.
[7]Questa è regola ottima ma non universale, anzi né pur regolata nel dittongo ie, trovandosi falsa una cotal eccettione che le fu data. [8]Peroché diciamo fiero, fierezza e fieramente, siepe e siepare, tiepido e tiepi-
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dità, mietere e mietitore e altri simili che dal latino non portano l’i o l’l, come pietà, pietoso, pieno, pienamente. [9]Lieto poi, parte va a regola e parte no, perché diciamo lietissimo ma non lietitia; e similmente certi altri.
[10]Fuori di regola si ritruova in Dante, Conv. f. 101 suonato e suonare, e f. 81 pruovare, e Bocc. n. 1 [17] riscuoterai, n. 13 [19] e 77 [93] nuovamente, n. 73 [22] e 79 [19] truovare e ritruovare, n. 18 [59] brievissimo; e nel Pass. f. 245 e in più altri luoghi brievemente; n. 92 altierezza, n. 98 leggierissimamente; e di così fatti altri in gran numero.
Medesimo, stesso.
xciv. [1]Fra medesimo e stesso insegnano essere la differenza ch’è nel latino fra idem ed ipse posposto, sì fattamente che dove error sarebbe il dire «non modo rex, sed neque deus idem illi in pretio erat», così il dire «non che il re, ma Iddio medesimo non gli era in pregio», dovendosi dire «deus ipse» e «Iddio stesso». [2]E universalmente vogliono che la voce medesimo non s’adoperi fuorché a significar quello di che già si è ragionato avanti.
[3]Ma primieramente, dove altri parli di sé o di cose sue, certo è per mille esempi che ben può usare l’uno e l’altro indifferentemente, e dire io stesso, io medesimo, seco stessa, seco medesima, il mio cuore medesimo,
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etc., avvegnaché non habbia fatta mentione veruna di sé prima d’allora. [4]Poi, quanto a gli altri, eccovi adoperato il medesimo dove pareva convenirsi solamente lo stesso: Bocc. n. 60 [7] «Havrebbe detto esser Tullio medesimo o Quintiliano», e Intr. [45] «I bovi, gli asini etc. e i cani medesimi cacciati dalle case»; Filoc. l. 6 n. 43 «Che vi posso più di questo dire? se non che in sino il pavimento medesimo è d’oro»; e n. 126 «Tu porgi più ardire che la natura medesima»; Fiamm. l. 1 n. 72 «Giove medesimo [di cui non havea ragionato avanti], costrignendolo costui etc.», e l. 4 n. 132 «Non che gli altri animali, ma i venti medesimi di dietro correndo si lasceriano»; Pass. f. 130 «E’ Preti parrocchiani medesimi etc.».
Egli ed eglino.
xcv. [1]Eglino, usato non poche volte dagli antichi, è continuamente in bocca d’alcuni, i quali credono che ragionandosi di più sia manifesto fallo il dire egli o ei. [2]Leggano Dante, e ve li troveranno amendue in gran numero; [3]e nelle prose forse altrettanti egli come egli-
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no: N. ant. 92 «Il più studiosamente ch’egli unqua poterono», «Quando egli l’hebbero armato etc.», «Elli tornarono a dietro»; n. 97 «Colui cui elli aspettavano», «Aspettiamo ch’elli si sveglino»; [4]Omel. d’Orig., ove la Maddalena parla degli angioli: [149v] «Se egli mi volessero consolare, egli saprebbero la cagione per la quale io piango e mi lamento. O s’egli sanno la cagione del mio pianto etc.»; [4]Bocc. n. 71 [2] «Da cui egli credono, son beffati»; n. 79 [79] «Desinato ch’egli hebbero»; Filoc. l. 2 n. 43 «Il giorno ch’elli nacquero»; Pass. f. 36 «Egli son ciechi»; e f. 127 «Etiandio s’egli il contraddicessero»; [5]G. Vill. l. 8 c. 23 «Volle ch’ei li rendessono la città»; M. Vill. l. 2 c. 36 «Con cui egli si tenieno»; l. 1 c. 75 «Scrivessono, ed egli affermerebbono»; l. 3 c. 79 «Gli scorsono ch’egli erano troppo più che egli non estimavano»; Dante, Purg. 2 [127] «Se cosa appar ond’egli habbian paura etc.». [6]E il simile è d’elle: Bocc. n. 21 [11] «Elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono elleno stesse».
Protestare.
xcvi. [1]Protestare sta bene da sé, senza pronomi obliqui, né sciolti, né affissi, dicendosi io protesto, quegli protestano, etc.; non mi protesto o protestomi, si protestano o protestansi etc. [2]E così s’unirà col verbo havere, non con l’essere: ho protestato, non mi son protestato. [3]Avvegnaché il Davanzati nella Scisma dicesse si protestò.
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Che articoli si diano a’ sustantivi de’ quali l’uno è cosa dell’altro.
xcvii. [1]Se due sustantivi si leghino sì che l’uno sia come cosa dell’altro, vogliono che se al primo si dà l’articolo il o la, al secondo non si dia di, ma del o della. [2]Come a dire «Il fiume del Po», «Il corso dell’Arno e della fortuna», «L’acqua del Tevere», «L’hora del vespro», «Il vitio della lussuria», «Il diluvio dell’acqua», «La pianeta del Saturno», «La gente dell’arme». [3]Ma percioché ad ogni passo s’incontrano ne’ buoni scrittori esempi contrari a cotal regola, com’è de’ sopracitati: G. Vill. l. 1 c. 32 «Il fiume d’Arno»; l. 11 c. 1 «Il corso d’Arno»; l. 12 c. 40 «Il corso di fortuna»; Purg. 2 [101] «L’acqua di Tevere»; G. Vill. l. 10 c. 161 «L’hora di vespro»; Inf. 5 [55] «Il vitio di lussuria»; G. Vill. l. 10 ult. «Il diluvio d’acqua»; l. 12 c. 83 «Il pianeto di Mercurio» e «di Giove»; M. Vill.
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l. 1 c. 82 «La gente d’arme», etc.; [4]perciò si è ristretta da altri la regola, obligando all’articolo del o della i secondi casi sol di quelle voci che sono materia della prima, come a dire «La corona del ferro», «L’imagine della cera», «Le chiome dell’oro», «La statua del marmo», «La moneta dell’argento», «La berriuola dello scarlatto», «Il fiorin dell’oro», «La spada dell’acciaio», «La coperta del marmo», «La ’nsegna dell’oro», etc. [5]E v’ha di quegli a’ quali, parendo questo essere un de’ segreti della nostra lingua, oltre che per tutto l’oro del mondo non parlerebbono altrimenti, van cercando come usar cotal forma le più volte che possano, così parendo loro esser creduti finissimi parlatori. [6]Più saviamente fan quegli che in ciò si governano col buon giudicio degli orecchi, fuggendo l’affettatione e valendosi della libertà che v’è d’usare il del o il di comunque si vuole. [7]Non che sempre si possa: che chi vorrà hoggi dire «La rotondità di terra» e non «della terra»? «Le stelle di cielo» e non «del cielo»? «La luce di sole» e non «del sole»? [8]Non ch’error fosse il dirlo, se non errò G. Vill. dicendo l. 7 c. 34 «Fu sì gran piova da Cielo che etc.»; e c. 38 «Piovendo acqua da Cielo»; e quivi pure «Levò gli occhi a Cielo e disse»; Pass. f. 244 «Per la superbia fu cacciato di Cielo»; e f.
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325 «Peccando e rovinando di Cielo»; Dante, Inf. 8 [83] «Da ciel piovuti»; e somigliante a questi Pass. f. 22 «L’anima gli fosse schiantata di corpo», che sta ottimamente detto; e f. 88 «La città celestiale di paradiso»; e G. Vill. l. 9 c. 218 «A corte di Papa» e «dell’avvenimento d’Antichristo», etc. [9]Ben è in uso il dire «L’hora di cena» e «della cena», «L’acqua di Tevere» e «del Tevere», ma non «Il pianeta del Saturno», avvegnaché si truovi più volte in G. Villani. [10]Ma quali siano le voci che senza l’articolo del e della suonano un non so che barbaramente e quelle che no, altra regola non se ne può, per quanto io vegga, prescrivere fuor che l’uso e il giudicio. [11]Quanto poi a’ secondi casi che sono propriamente materia, eccone quasi i medesimi esempi apportati di sopra non con del o con della, ma con di: Petr. son. 252 [292 5] «Le crespe chiome d’or puro lucente»; G. Vill. l. 9 c. 14 «La corona d’oro»; Dante, Conv. f. 110 «La statua di marmo, o di legno, o di metallo»; G. Vill. l. 6 c. 54 «Fornire la moneta d’oro»; l. 12 c. 52 «Tutte le monete d’argento»; e l. 8 c. 68, l. 10 c. 196, l. 12 c. 96; [12]e M. Vill. l. 1 c. 56 «Il fiorin d’oro»; Filoc. l. 1 [n. 157] «Il cappello d’acciaio»; Cresc. l. 1 c. 91 «Il coltello di legno»; G. Vill. l. 12 c. 45 «La coperta di marmo»; c. 85 «La ’nsegna d’oro»; c. 89 «L’aguglia d’oro», etc.; M. Vill. l. 10 c. 101 «Il ponte del castello di legname», e quivi appresso «Col castello di legname», etc.
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Dovria, saria e simili sono ben terminati.
xcviii. [1]La terminatione in ia de’ tempi passati, tanto assoluti come conditionati – servia, seguia, vorria, ameria, etc. – che che altri si dica, fu molto usata da’ prosatori, massimamente nella terza persona, ché nella prima rade volte s’incontra. [2]Saria è del Bocc. n. 16 [54] e Lab. n. 28, 34, 55, 111, 126 etc.; salia, n. 30 [Concl. 19]; verria, Filoc. l. 6 n. 14; venia, n. 13 [17] e M. Vill. l. 8 c. 88; dormia, n. 22 [14] e G. Vill. l. 7 c. 50; poria, cioè ‘potria’ o ‘potrebbe’, Lab. n. 55, 126, 136 etc.; havria, Lab. n. 121 e n. 151; dovria, sen-
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tia, n. 18 [43] e Lab. n. 24; seguia, G. Vill. l. 4 c. 18 e l. 5 c. 9; e M. Vill. copria; e così altri.
Quello il quale posto a guisa di neutro.
xcix. [1]Par dura cosa a udire quello il quale in significato del neutro latino illud quod, che dovrebbe voltarsi quello che. [2]Pur non si può dire non trovarsene esempio, se autori da recarne esempi sono il Bocc. e il Pass. [3]Quegli dunque, Filoc. l. 7 n. 80 «Seguitarono [dice] il suono, il quale, essendo da loro, quanto più andavano, più chiaro udito, gli facea certi non deviare di pervenire a quello al quale dopo non gran quantità di passi lieti pervennero; e videro alquanti pastori etc.»; Pass. f. 85 «Rispose il morto: – Guai a me, che mi mancò quello che più m’era bisogno e senza il quale niuna altra cosa vale, cioè la contrizione del cuore».
Bisognevole.
c. [1]Bisognevole non si dice di chi ha bisogno: «Io son bisognevole di riposo, di tempo etc.»; ma della cosa che ci abbisogna: «Il tempo, il riposo mi son bisognevoli». Bisognoso ha l’uno e l’altro significato.
Uscire col secondo caso e col sesto.
ci. [1]Al verbo uscire certo è che si è sempre dato più volentieri il secondo che il sesto caso: uscir di sé, uscir della città, etc. [2]Pur alcuna volta s’incontra col
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sesto: Bocc. n. 3 [17] «Uscire dal laccio»; n. 65 [12] «Fino a tanto che il fistolo uscisse da dosso al suo marito»; Filoc. l. 5 n. 48 «Più tosto dalla sepoltura risuscitati parevano uscire che dalla nave»; l. 2 n. 41 «Uscire dalla memoria»; l. 6 n. 290 «Uscirono dalla città»; l. 7 n. 47 «L’animale uscito dalla terra»; Fiamm. l. 3 n. 46 «Dalla tua bocca uscire»; [2]M. Vill. l. 1 c. 80 «Uscendo dal palagio»; l. 5 c. 16 «Fece uscire dall’hostiere tutta sua famiglia»; l. 11 c. 10 «Chi entrasse o uscisse dal porto di Talamone»; Dante, Inf. 13 [26-27] «Che tante voci uscisser fra que’ boschi / da gente»; Par. 1 [38-41] «Ma da quella etc. / esce congiunta»; Petr. son. 63 [83 9] «Lagrime omai dagli occhi uscir non ponno», etc.
Accrescimento a’ superlativi.
cii. [1]I superlativi con alcuna giunta di crescimento furono appresso gli antichi in uso; hora appena v’è chi gli adoperi, se non se qualche volta ad arte dove stia bene il farlo: N. ant. 8 «Molta novissima cosa»; n.
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43 «Molto bellissimo»; n. 54 «Molto ricchissima»; n. 67 «Molto giustissimo»; n. 94 «Era sì scarsissimo e sfidato»; n. 100 «Molto grandissimo desiderio»; [2]Bocc. n. 19 [20] «Così santissima donna»; n. 60 [7] «Così ottimo parlatore»; G. Vill. l. 12 c. 72 «Non fu sì pessima ricolta»; c. 104 «Rimase in più pessimo stato»; Filoc. l. 2 [n. 228] «Sì turpissima»; l. 7 n. 454 «Tanto bellissima»; G. Vill. l. 7 c. 100 «Terra molto fortissima»; c. 101 «Montagne molto altissime».
Suo e suoi per loro.
ciii. [1]Quella regola che ci danno per tanto certa e, se non pochissime volte – dicono – rotta da’ buoni scrittori, che dove si parla di più persone o cose non si adoperi il suo, che serve solamente al numero singolare, ma il loro, che è proprio del plurale, ha tanti esempi in contrario che appena è che possa dirsi regola. [2]Vogliono che il dire «gli apostoli col suo maestro», «gli arbori co’ suoi fiori», in vece di «lor maestro» e «lor fiori», perché si parla di più, sia un grossissimo solecismo. [3]Io per me non l’userei, ma più per volontà che per debito che ve ne sia. [4]Chi volgarizzò Pier Crescenzi adoperò tante volte suo e suoi, ragionando di molti, che citarne gli esempi sarebbe un gran consumo di carta e di tempo. [5]Leggasene per saggio de gli altri il quinto libro; e così ancora altri maestri di ben parlare. [6]Ne addurrò qui
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alcuni pochi, e prima del sue e suoi, poi del suo e sua.
[7]Bocc. Intr. [32] «Co’ suoi prossimi, si ragunavano i suoi vicini»; n. 61 tit. [Intr. 1] «Le beffi che le donne hanno fatte a’ suoi mariti»; Fiamm. l. 1 n. 77 «Le nostre colombe a’ suoi colombi vanno dietro»; Dante, Purg. 8 [26-27] «Due spade / tronche e private delle punte sue»; Purg. 22 [5-6] «Detto n’havean beati in le sue voci»; M. Vill. l. 1 c. 23 «I Fiorentini mandarono i suoi soldati»; [8]Cresc. l. 5 c. 23 «I frutti de’ datteri non per li picciuoli pendono da’ rami suoi»; c. 24, parlando de’ pinocchi, «Affermano che co’ suoi gusci si conservano»; c. 27 «Altri sono che co’ suoi picciuoli le colgono verdi etc.» E tanto basti del suoi. [9]Del suo eccone altrettanto.
Bocc. n. 24 [3] «Persone sono che mentre si sforzano di conseguire qualche suo intento»; n. 42 [33] «Poi che gli arcieri del vostro nemico havranno il suo saettamento saettato, e i vostri il suo»; Lab. n. 119 «I quali non s’accorgono tutte quelle essere armi a combattere la sua signoria e vincerla» – parla de’ mariti; [10]Dante, Inf. 10 [13-14] «Suo cimitero da questa parte hanno / con Epicuro tutti i suoi seguaci»; Par. 28 [106-108] «E dei saper che tutti hanno diletto / quanto la sua veduta si profonda / nel ver»; Par. 29 [44-45] «Che motori / senza sua perfettion fosser cotanto»; Conv. f. 89 «Sono molti tanto di suo ingegno, che credono col suo intelletto poter misurare tutte le cose»; [11]Petr. son. 311 [362 3] «C’hanno ivi il suo tesoro»; M. Vill. l. 1 c. 74 «In perpetuo furono legati alla sua giurisdittione [de’ Fiorentini]»; l. 9 c. 64 «I Fiorentini,
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sperando potere havere la guardia di quel luogo a sua difesa»; [12]Cresc. l. 2 c. 6 «I fiori escono fuori per la sottilità della sua sustanza»; l. 4 c. 3 «Alcune [viti] sono che molto il frutto suo nel fiore perdono; alcune che il frutto suo dal melume perdono»; c. 8 «Allora i rami del suo calor naturale privati sono»; c. 12 «I tralci il suo frutto difendono»; l. 9 c. 67 «È mestiere che [le pecore] habbiano il suo ventre piloso»; e c. 99 «De’ parpaglioni, che del suo sterco vermini fanno», etc.
Questi e quegli primi casi del numero singolare.
civ. [1]Questo in caso retto, posto assolutamente in senso di ‘costui’ o ‘colui’, si dà concordemente per fallo dovendosi dire questi: «questi fu figliuolo di re», «questi fu che vinse la battaglia», etc., non questo, che serve a quello che chiamano neutro.
[2]Pur v’è nel N. ant. 68 «Aspettava sollecitamente che venisse quello che havea meritato questa pena»; e Dante, Inf. 16 di Guido Guerra disse: [34-35] «Questo, l’orme di cui calcar mi vedi etc.»; sì come al contrario il medesimo, Par. 1, adoperò questi in vece di questo,
ragionando dell’istinto naturale: [115-117] «Questi ne porta ’l fuoco in ver la luna, / questi ne’ cor mortali è promotore, / questi la terra in sé strinse et aduna»; e nell’Inf. c. 1, d’un leone che gli apparì disse: [46] «Questi parea che contra me venisse»; [3]e Fazio nel Ditt. l. 5 c. 16, descrivendo la serpe Anfisbena: «Questi ha due teste»; e Bocc. n. 31 [29] «Quegli [amore] vuole ch’io ti perdoni, questi [sdegno] vuole etc.». [4]Ma ritornando al quello adoperato in vece di quegli, hallo ancora Dante nel Conv. f. 97 «Male trahe al segno quello che non lo vede»; e f. 102 «Quello che mai non fosse stato in una città», e di nuovo f. 103; [5]e Bocc. Amet. f. 101 «O quanto si può dir felice quello / che sé in libertà tutto possiede», ed è in rima di bello e d’ostello, tal che non vi può esser intervenuto errore di stampa; [6]Brun. Rett. [5v] «Ma quello il quale s’arma d’eloquenza etc., questo mi pare huomo etc.»; e appresso [9r] «Parendo che quello che havea impresa sola eloquenza fosse più innanzi che quello che etc.». [7]Veggasi ancora il Pass. f. 267 e il Barberino, che appena mai adopera altro che quel dove parrebbe da scriversi quegli, il qual medesimo stile tenne ancor l’Ariosto, e tanto prima il Petrarca.
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[8]Quegli è caso retto del singolare e serve al maschio, avvegnaché appresso buoni autori si legga alcune volte adoperato in casi obliqui: N. ant. 65 «L’altro pane desse a quegli che diceva etc.»; e n. 67 «Messere, fammi diritto di quegli che a torto m’hae morto lo mio figliuolo»; G. Vill. l. 12 c. 13 «Si erano ribellati da quegli che tenea la Cicilia»; e c. 42 «I parenti da quegli c’havesse fatta la ’mpetragione»; e Bocc. n. 97 [21] «A quegli che mi tien tanto affannata»; [9]Pass. f. 51 «A questo medesimo ammaestramento si può recare quello che è detto di sopra del Cavalier d’Inghilterra e del Conte di Matiscona e di quegli che domandava indugio etc.»; e f. 90 «La confessione per la quale altri si rappresenta per lo comandamento della Chiesa a quegli che Vicario di Christo è nella Chiesa»; e f. 217 «Fa Iddio scarso venditore della sua gratia, quegli che n’è larghissimo e liberalissimo donatore»; [10]Cresc. l. 6 c. 13 «Sì che si dice che, se la radice sua s’appicchi al collo di quegli che ha le scrofole, che gli vale»; G. Vill. l. 8 c. 37
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«Per haver concordia mandaro quegli che havea fatta l’offerta»; l. 11 c. 69 «Cacciarono di Bologna M. Brandalis Goggiadini, quelli proprio che fu il principale»; Fazio, Ditt. l. 5 c. 24 «L’auro è buono a quegli che sel gode etc.». [11]Parecchi altri esempi ve ne ha ne’ quali a me par vedere che il quelli o quegli si accordi più tosto col che susseguente (nel qual modo è caso retto) che con quello che gli va innanzi e per cui sarebbe caso obliquo.
Della formation de’ preteriti.
cv. [1]In quasi tutte le lingue la parte più malagevole a regolare sono i verbi, non solamente per le tante anomalie che sogliono havere una gran parte d’essi, ma etiandio per l’universal formatione delle persone e de’ numeri e de’ tempi di quegli che ordinatamente procedono. [2]Perciò valenti maestri vi si sono adoperati intorno facendone canoni e leggi per trarre successivamente l’un tempo dell’altro, con non piccola maraviglia di chi vede la pianta d’un verbo preso dalla sua prima radice, diramato e steso come si suole degli
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alberi della consanguinità e dell’affinità, per trovare le generationi prossime e le lontane, e i gradi della parentela di qualunque persona e in qualunque tempo si vuole; accioché non avvenga com’è venuto ad alcuno, di formare il preterito dal futuro, cioè di far generar l’avolo dal nipote con un orribil paracronismo. [3]Chi in ciò habbia più sottilmente adoperato, per quanto io ne sappia, è stato il Castelvetro nella sua Giunta al Bembo, e dopo lui, ma incomparabilmente meglio, il p. Marco Antonio Mambelli, quel medesimo ch’è l’autore del libro delle particelle della lingua italiana che va sotto il nome d’Osservationi del Cinonio, Academico Filergita; [4]vero è che questa sua opera de’ verbi, in cui è steso per ordine e largamente provato quanto può desiderarsi in così difficil materia, morto già da alquanti anni l’autore, aspetta chi le sia secondo padre mettendola alla luce; il che, quando avverrà che sia, la lingua nostra havrà questa parte secondo ogni suo essere interamente perfetta.
[5]D’altro parere, quanto alla formatione de’ tempi, sono stati alcuni buoni scrittori che nelle lor grammatiche han trattato questo medesimo argomento, peroché parendo loro poco utile, molto incerto e troppo faticoso il produrre i tempi de’ verbi traendone l’un dall’altro con torre, mutare, aggiugnere spesse volte delle lettere a tanto numero che appena rimangono le parti primigenie del seme che li generò, han creduto
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far più utilmente al bisogno di chi vuol apprendere a ben usare i verbi mettendo per isteso l’un presso all’altro quegli ch’escon di regola, comunque simili o no siano gli uni a gli altri. [6]Anch’essi ottimamente, e legga o gli uni o gli altri chi vuol saperne, o ne’ secondi, direm così, il che, o ne’ primi ancora il perché. [7]Io qui mi prenderò a dire alcuna cosa della formation de’ preteriti, che sono la più ampia e la più sregolata parte de’ verbi, e porrò brevemente alcune regole, che ne prenderanno qual una parte e qual altra di quegli che del tutto non escon di regola. [8]E parliam qui de’ verbi dela seconda e della terza maniera, che soli son quegli che svariano, peroché quegli della prima finiscono costantemente in ai: amai, cantai, studiai; quegli della quarta in ii: udii, sentii, servii, o come altri vuole udì, sentì, servì, di che altrove è ragionato.
1. [9]Primieramente dunque si vuol sapere che v’ha de’ verbi della quarta che anticamente erano altresì della seconda o della terza maniera, e oggidì ritengono in buon uso alcuni lor tempi, massimamente il preterito. [10]Ciò che non avvertito da alcuni, che ne consideran l’infinito, usato sol nella quarta maniera, fa lor credere che sia errore il terminarli nel preterito altramente che in i. [11]Di questi sono aprire, offerire,
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proferire, coprire, convertire, disparire, apparire etc., i quali anticamente hebbero nel primo lor tempo apergo, offergo, profergo, copergo, convergo, dispargo, appargo etc. [12]Di qui è che ne’ preteriti hanno doppia terminatione, hor come della quarta: io aprì, offerì, apparì etc.; hor altramente: apersi, offersi, profersi, copersi, conversi, disparsi – che più communemente si è detto disparvi – apparvi etc., e di ciò non ha mestiero recar qui esempi, peroché in tutti gli autori della lingua se ne leggono nell’uno e nell’altro modo a migliaia. [13]Bastimi solo accennare che non è, come altri ha scritto, licenza sol della poesia il terminare o tutti o alcuni di così fatti verbi all’uso della quarta maniera in i. [14]E percioché chi publicò questa regola riprovò
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nominatamente aprì e coprì, dicendo non trovarsene esempio in prosa d’autorità, di lor due soli ci basterà dire. Aprì dunque è nel Bocc. n. 39 [13], 40, 48 [30], 62 [14], 65 [15], 68 [16]; Filoc. l. 3 n. 194; Pass. f. 62 e 230; M. Vill. l. 1 c. 81, l. 10 c. 25 etc.; coprì è nel Filoc. l. 6 n. 123, M. Vill. l. 8 c. 1 e 47; e scoprì disse il Bocc. n. 60, Fiamm. l. 4 e M. Vill. l. 4 c. 54.
[15]2. V’ha de’ verbi che per alcun lor tempo sembrano essere d’una, e veramente sono d’un’altra maniera, ond’è che hanno il preterito differente da quello che parrebbe regolatamente doversi. [16]Tal è venire, che non è della quarta, traendosi da venere antico, non so ben se della terza o anzi della seconda maniera, e ci dà nel preterito venni, come altresì tenere ci da tenni. Fare non è della prima, ma della terza, facere. [17]Del verbo soffero v’è fra’ grammatici una gran lite, volendo alcuni ch’egli sia della prima, altri della terza e altri della quarta maniera. Egli veramente ha di ciascuna d’esse alcuni tempi, peroché ben si dice sofferare e sofferire o soffrire: «A me non soffera il cuore» disse Bocc. n. 77 [122], e n. 62 [14] «Credi tu che io sofferi», che sono tempi della prima maniera; soffrire poi è del
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medesimo, n. 23 e 44, e d’altri communemente. [18]Il suo preterito più usato è come di quegli della terza che poco avanti habbiam posti, cioè soffersi, non però così strettamente che soffrii s’habbia a condannare per fallo; [19]e chi, per mal che voleva al Tasso, sì malamente gli morse quel «molto soffrì» che si legge nella prima stanza della sua Gerusalemme, dovea prima cacciare dal Paradiso di Dante, come un angiolo nero, quel soffriro ch’egli pur vi pose, dicendo c. 14 [76-78] «O vero sfavillar del Santo Spiro, / come si fece subito et candente / a gli occhi miei, che vinti nol soffriro»; e dal c. 16 [10] «Dal voi che prima Roma sofferie»; e dal Ditt. l. 3 c. 13 «Che qui soffrio la gente etc.»; e dalla canzona che habbiamo d’Antonio da Ferrara amico del Petrarca, «Deh pensa figliuol mio ’l grave dolore / che soffrì l’alma mia presso la croce».
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[20]3. Alcuni verbi della seconda e della terza maniera han nel preterito la terminatione in ei, altri in etti, e altri han l’una e l’altra indifferentemente; né a distinguerli v’è altra regola ferma che l’uso de gli scrittori. [21]De’ primi sono empiei, adempiei, riempiei, godei, pentei dall’antico pentere, che poi si è detto pentire e quindi pentii, piaciei e compiacei, facei e fei da facere disusato, conoscei, discernei, fendei, difendei, nascei, vendei, pascei, prendei, provedei, chiudei, pendei, ricevei, rompei, solvei e risolvei, splendei, stendei, tacei, tendei, vedei etc.
[22]De’ secondi sono persuadetti, combattetti, seguetti da seguere antico, uscetti da uscere o escere disusato, cedetti e concedetti, credetti, discendetti, procedetti, opprimetti, presumetti, stetti da staggere disusato, ristetti, resistetti, provedetti, vivetti etc.
[23]Doppia terminatione in ei e in etti hanno dove-
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re, cadere, concepere, possedere, potere, sedere, temere, tacere, battere, dare o daggere che fa diei e detti, premere, succedere, solvere co’ suoi composti, assolvere, risolvere, dissolvere, ricevere, rendere e arrendere, procedere, perdere etc.
[24]Per ciò troviamo usato variamente, etiandio in fra poche linee, il medesimo verbo finito hor nell’uno hor nell’altro di questi due modi: concepei e concepetti, possedei e possedetti, rendei e rendetti etc. [25]Si de’ avvertire che, avvegnaché de’ preteriti di tutti i verbi qui avanti registrati (e ve ne saranno per avventura non pochi altri) si truovino esempi in buoni autori, non si vuol però adoperarli indifferentemente tutti, ma quei soli che veggiamo esser più in uso, che non hanno altra terminatione, secondo la regola che qui appresso soggiungerò. [26]E ben del poco savio havrebbe chi usasse pentei, nascei, piacei, e seguetti, e battetti, in vece di pentì, nacqui etc. che diciamo oggidì. [27]Pur chi senza alcuna particolar ragione s’inducesse ad usarli, non potrebbe esser condannato d’error nella lingua, se altro è errar nella lingua, ch’è
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dell’arte, altro nell’uso, che più tosto appartiene al giudicio.
[28]4. I preteriti che finiscono in ei ci danno é accentato nella terza persona del numero minore, e nell’altra del maggiore erono; e quegli che finiscono in etti, nelle medesime terze persone vanno in ette e in ettero. [29]Queste sole si mutano, le altre son le medesime in amendue le terminationi. Rendei, rendesti, rendé, rendemmo, rendeste, renderono; e in ettero: sedetti, sedesti, sedette, sedemmo, sedeste, sedettero; e così de gli altri. [30]Usarono etiandio i prosatori di troncar le terze del numero maggiore, sì di questa e sì delle altre maniere, comunque escano in arono, erono, irono, e farne aro, ero, iro: amaro, potero, fuggiro; e chi vuol che ciò sia conceduto solamente a’ poeti, mostra di non haver letto punto altro che poeti, altrimenti ne havrebbe incontrati ne’ prosatori migliaia d’esempi. [31]Similmente le terze del numero maggiore, in una gran parte de’ verbi, mutano l’ultimo ro in no, e si dice,
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in vece di piansero, risero, sedettero, temettero etc., pianseno, riseno, sedetteno, temetteno etc., o come meglio si usò da gli antichi – e i moderni l’han ricevuto più volentieri – piansono, risono, sedettono, temettono etc.; di che anche più avanti si parlerà.
[32]5. In si finiscono molte maniere di verbi. [33]Se la prima lor voce termina in do puro (cioè che avanti a sé habbia vocale), la prima del preterito va in si puro. [34]Di questi sono chiedo, assido, conquido, divido, recido, rido, uccido, rodo, chiudo, intrido, che ne’ preteriti fanno chiesi, assisi, conquisi, divisi, recisi, risi, uccisi, rosi, chiusi, intrisi. [35]E si de’ anche contare fra questi credo, che appresso Dante e il Boccacci nella Visione si truova col preterito cresi, allora in poco e hora in niun uso de gli scrittori. [36]Escon di regola cado, godo, siedo, possiedo, procedo, succedo, che non finiscono in si.
[37]Se la prima voce del verbo termina in ndo, tto, lgo, la prima del preterito termina in si. [38]De’ primi sono accendo, attendo, ascendo, discendo, comprendo, in-
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tendo, prendo, riprendo, offendo, tendo, stendo, distendo, sospendo, nascondo, fondo, rispondo, fra’ quali però non han luogo vendo, pendo, fendo, risplendo. [39]De’ secondi metto, prometto, ma non già batto e combatto. De gli ultimi algo, salgo, scelgo, svelgo, divelgo, colgo, raccolgo, dolgo, volgo, svolgo, rivolgo, tolgo e per privilegio caglio e vaglio. [40]Questi altresì ci danno il preterito in si: accesi, appresi, posi, rimasi, misi, promisi, che sono delle tre prime maniere, dalle quali la quarta è differente in ciò, che avanti il si finale riceve la l che havea nella prima persona, dicendosi alsi, scelsi, colsi, calsi, valsi etc.
[41]6. Se la prima voce del verbo termina in ngo (trattone tengo e i suoi composti astengo, mantengo, etc.), la prima del preterito termina in nsi: piango, frango, infrango, spengo, cingo, fingo, dipingo, estinguo, giungo, pungo, mungo; che ne’ preteriti fanno piansi, finsi, giunsi, estinsi etc.; fra’ quali entran per gratia vinco, consumo e presumo, che anch’essi hanno consunsi e presunsi. [42]Ma pongo e i composti d’esso, e rimango, finiscono in si puro: posi, opposi, composi rimasi.
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[43]7. Se la prima voce del verbo termina in ro, havente fra mezzo l’r e l’o alcuna consonante, la prima del preterito, fuor che sol nel verbo discerno, termina in rsi: torco, ardo, perdo, mordo, spargo, aspergo, sommergo, accorgo, scorgo, sorgo o surgo, corro, converto. [44]E gli antichi pargo, appargo, dispargo, apergo, copergo, offergo, profergo, soffergo, che ne’ preteriti fanno torsi, arsi, aspersi, offersi etc. [45]Di persi da perdo si è ragionato altrove.
[46]8. Se la prima voce del verbo termina in ggo, la prima del preterito cade in ssi: traggo, leggo, eleggo, reggo, figgo, affliggo, struggo, distruggo, che (trattone veggo) ne’ preteriti fanno trassi, ressi, strussi etc. [47]Trovasi alcuna volta messi in vece di misi, dal verbo mettere: sia scorrettione de’ testi, come altri vuole, sia licenza de gli autori, sia privilegio di questo verbo, non è da usarsi.
[48]Parimente in ssi finiscono i preteriti de’ verbi dico, cuoco, conduco, riluco, opprimo, scuoto, percuoto, riscuoto, scrivo, vivo, muovo, anzi ancora concedo, procedo e succedo, avvegnaché certi il nieghino, perciò che oggidì diciamo più volentieri concedei o concedetti, procedei etc.
[49]9. Se la prima voce del verbo va in ccio, la prima del preterito termina in cqui, trattone faccio che usa-
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rono i poeti. [50]Per ciò giaccio, piaccio, taccio, nuoccio etc. fanno giacqui, piacqui, tacqui, nocqui etc.
[51]Queste sono le regole che ci danno per formare i preteriti non già di tutti i verbi, che non v’ha a qual d’esse ridur si possano caddi, bevvi, volli, crebbi, conobbi, hebbi, nacqui, empiei, parvi, potei, piovvi, seppi, ruppi, tenni, venni, diedi, dovei etc., ridotti da alcuni a terminatione latina; [52]ma quanto meno s’accosta caddi a cecidi, bevvi a bibi, conobbi a cognovi, hebbi ad habui etc., che finsi a finxi, dissi a dixi, scrissi a scripsi, percossi a percussi, anzi arsi ad arsi, aspersi ad aspersi, sparsi a sparsi etc. [53]Ma questi pochi verbi che non si son potuti stringere sotto regola, non toglion la lode d’haverne ordinato il rimanente il più strettamente che si è potuto in tanta moltitudine e varietà di formationi, proprie sol della seconda e della terza maniera de’ verbi.
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Quantunque avverbio.
cvi. [1]Certi credono, e ne citano autore un cotal grammatico, che quantunque già mai non sia stato avverbio in senso d’‘avvegnaché’, ‘benché’, ‘ancora che’ etc., ma sempre nome aggettivo. [2]Ma l’una delle due convien che sia, o che il maestro habbia mal insegnato, o che i discepoli l’habbiano mal inteso, sì chiaro è in ogni buon autore che quantunque è così ben avverbiocome nome, e ve ne ha a gran moltitudine testi che in pruova di ciò potrebbono allegarsi. [3]Ma il solo Boccacci sodisfarà al bisogno, se v’è chi pur anche ne dubiti: Intr. [16] «Quantunque da fede degno udito l’havessi»; n. 15 [38] «Quantunque alquanto cadesse d’alto»; n. 36 [7] «Quantunque i sogni paiano favorevoli, niuno se ne vuol credere»; n. 37 [4] «Quantunque volentieri le case de’ nobili huomini habiti»; n. 98 [27] «Quantunque tu ciò non esprimi»; [4]Lab. n. 134 «Quantunque il ver dicono», e n. 333 «Ogni gravissimo peccato, quantunque da perfida iniquità di cuore proceda, toglie via»; Fiamm. l. 5 n. 38 «Le cose liberamente possedute so-
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gliono esser reputate vili, quantunque elle sieno molto care» etc.
Fallire e fallare.
cvii. [1]Fra’ due verbi, fallare della prima e fallire della quarta maniera, si è notata una tal differenza, che fallare habbia sempre significato di ‘mancare’ e non mai d’‘errare’, fallire l’habbia d’‘errare’ e tal volta ancora di ‘mancare’. [2]Altri vuole che l’uno e l’altro significhino di lor natura ‘mancare’, e che quando s’adoperano in sentimento di ‘errare’ si debba sottindere al dovere, al debito, al che so io. [3]Ma che che sia di ciò detto, certo è che si è usato fallare per ‘peccare’, ‘errare’ e simili: Dante, Conv. f. 104 «A questa età è necessario esser penitente del fallo, sì che non s’ausi a fallare»; e quivi appresso: «Sì come vediamo nelle vergini e nelle donne buone e nelli adolescenti, che tanto sono pudici, che non solamente là dove richiesti o tentati sono di fallare etc.»; e f. 72 «E Mutio, la sua mano propria incendere perché fallato havea il colpo»; e Purg. 9 [121-123] «Quandunque l’una d’este chiavi falla, / che non si volga dritta per la toppa, / – diss’egli a noi, – non s’apre questa calla»; [4]G. Vill. l. 11 c. 3 «Figliuol mio, non gittar la disciplina del Signore e non fallare quando da lui se’ corretto»; Bocc. Fiamm. l. 5 n. 81 «Chi tratta altrui secondo ch’egli è trattato forse non falla di soverchio»; Pass. f. 338 «Fallano in voler sapere che non debbono».
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Varie osservationi per accordare dove ha voci di più generi e numeri.
cviii. [1]Ponendosi due voci, l’una di femina, l’altra di maschio, vogliono che il nome o il verbo che siegue si accordi nel genere col maschio, hor sia egli più vicino hor più lontano: Bocc. n. 16 [77] «Convitati le donne e gli huomini alle tavole»; n. 50 [27] «Essendosi la donna col giovane posti a tavola»; n. 63 [23] «Egli con la donna che il fanciullin suo havea per mano se n’entrarono nella camera, e dentro serratisi etc.». Il che sia detto parlandosi di persone. [2]Ma di cose v’ha molti esempi in contrario: Bocc. n. 54 [18] «Havrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor mandata [parla della gru]»; Lab. n. 7 «Ritornatomi alle lagrime e al primiero rammarichio, tanto in esse multiplicai»; G. Vill. l. 8 c. 89 «Lasciando la Città e il contado interdetta»; l. 9 c. 305 «Elli medesimo e sua oste era mancata molto»; M. Vill. l. 7 c. 72 «Fece stare nel porto quattro galee armate e due legni, le quali assediavano la città per mare»; [3]anzi dove il medesimo l. 3 c. 77 disse «Molti micidii, incendii, violenze e prede avvenuti in quello», havrebbe per avventura servito più all’orecchio e alla natura dicendo avvenute.
cix. [1]Che se si porranno insieme suggetti di numero l’un minore, l’altro maggiore, il nome o il verbo che siegue potrà accordarsi come si vorrà col primo numero o col secondo: Bocc. Lab. n. 176 «Non so se per lo mio peccato o per celesti forze ch’el si facesse»; nov. 60 [Concl. 17] «Essendosi Dioneo con altri giovani messo a giucare a tavole»; n. 96 [23] «Il Re co’
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suoi compagni rimontati a cavallo etc.». [2]Anzi ancora, se due cotali nomi o verbi si aggiungano, potrà secondo il bisogno darsene l’uno all’un numero, l’altro all’altro: n. 47 [11] «La donna con la sua compagnia, accioché il malvagio tempo non la cogliesse quivi, si misero in via e andavanne ratti quanto potevano».
cx. [1]Èvvi ancora una tal maniera di dire propria della lingua e molto usata, ch’è d’accordare in diversi numeri i nomi e i verbi, come questi fossero assolutamente posti: Bocc. Filoc. l. 7 n. 389 «Ne avanzò dodici sporte»; Fiamm. l. 5 n. 123 «Corsevi il caro marito, corsevi le sorelle»; [2]Dante, Conv. f. 94 «Riluce in essa le intellettuali e le morali virtù, riluce in essa le buone dispositioni da natura date, riluce in essa le corporali bontadi»; G. Vill. l. 8 c. 2 «Alla detta pace fu i Lucchesi e Sanesi»; e quivi appresso «A chiunque fosse per a dietro occupate possessioni»; [3]Cresc. l. 3 c. 2 «Per ciascuno di questi si corrompe le biade»; l. 4 c. 62 «Nel tino le nere [uve] si ponga prima»; l. 9 c. 69 «Si de’ cercare il luogo dove spiri i venti australi»; c. 92 «Continuo si tenga netto i loro abitacoli»; c. 97 «I tempi che questo far si possa è da ragguardare, e i luoghi dove si trasportano è da provedere»; e quivi appresso «Aspettisi che v’entri dentro le pecchie, e
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come ve ne sarà entrate etc.»; l. 10 c. 26 «Ficchisi in terra due o tre verghe», e c. seguente «Sia spazi piani»; [4]M. Vill. l. 2 c. 62 tit. «Come fu in Firenze tagliate le teste a’ più de’ Guazzalotri»; l. 5 c. 1 «Al qual [nome imperiale] solea ubbidire tutte le nationi del mondo»; l. 8 c. 87 «Ne fu morti oltre a trecento»; l. 10 c. 75 «Era nella città di Perugia molti cittadini e gentil huomini»; l. 8 c. 58 «S’abbatté i palazzi etc.». [5]Queste medesime forme usò mille volte Fazio nel Ditt.: l. 1 c. 17 «Diverse opinion ne fu sentito»; c. 18 «Ben de’ come qui Tullo esser accorti / i gran signor»; l. 5 c. 1 «Dodici stelle ne i lor membri luce»; c. 5 «Liso la nominò gli antichi»; c. 16 «Sì nacque / le prime genti di questo paese»; c. 24 «Fuor de la fronte due gran corne gli esce»; c. 28 «Certo – diss’io – gli demoni gli’insegna»; e cento altre non molto sofferibili all’orecchio.
cxi. [1]I nomi poi che abbracciano moltitudine, come popolo, esercito, città, commune etc. prendono, se loro si dia, il verbo nel numero del più ed etiandio mutan genere; e si dice «il Popolo, il Commune, la Città si adunarono, furono uccisi, etc.», di che v’ha mille esempi: [2]Purg. 32 [62] «L’hinno che quella gente allhor cantaro»; G. Vill. l. 7 c. 21 «La gente che v’erano rinchiusi»; l. 12 c. 38 «Ne moriro molta di lor gente»; Bocc. n. 60 [30] «Come desinato ogni huomo hebbero»; G. Vill. l. 7 c. 55 «Nella quale innumerabile cavalleria furono morti»; c. 103 «La quale [città] sentendo la sconfitta di loro signore»; M. Vill. l. 10 c. 33 «La famiglia della Signoria etc. la quale apersono l’uscio»; c. 65 «Caddono parte delle mura»; Bocc. n.
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16 [77] «Il popolo l’havean tratto»; Malespini c. 32 «Di costui e di costei discesono la schiatta de gli Ormanni», etc.
cxii. [1]Finalmente v’ha alcune voci che han forza ancor d’altro genere che di quello che mostrano, tal che si posson prendere come un non so che neutro o masculino, ancorché grammaticalmente nol siano, sì come appare dall’accordarsi che fanno con genere diverso dal loro: [2]Bocc. n. 13 [25] «Tu vedi che ogni cosa è pieno»; n. 55 [13] «Veggendo ogni cosa così dishorrevole e così disparuto»; n. 41 [66] «Ogni cosa fu di romore e di pianto ripieno»; n. 80 [44] «Comprate da venti botti da olio et empiutele et caricato ogni cosa etc.». [3]Non è già che non si possa dire altramente, onde in più altri luoghi delle novelle e nella Introduttione disse il Boccacci [91] «Ogni cosa di fiori e giunchi giuncata».
Del non accorciare la prima voce di niun verbo.
cxiii. [1]Trattone sono, che ne ha particolar privilegio, a niun altro verbo è lecito gittar l’o finale della sua prima persona innanzi a consonante. [2]E se Guitton d’Arezzo scrisse «Piango e sospir di quel c’ho desiato», egli n’è ripreso da’ grammatici come di grande
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ardimento; [3]e il Tasso, a cui era sfuggito dalla penna, c. 12 st. 66 «Amico, hai vinto, i’ ti perdon, perdona / tu ancora etc.», poscia nell’altra sua Gerusalemme così emendò: «Amico, hai vinto e perdono io, perdona / tu ancora etc.».
Avvegnaché, conciosia cosa che e altri simili col dimostrativo.
cxiv. [1]Avvegnaché, o come ancora si disse avvegna che e avvegnadio che, non obliga sempre il verbo al soggiuntivo, ma ben s’accorda col dimostrativo, massimamente se non siegue nondimeno, pure, tuttavia o altra simile particella che continui il senso che si è cominciato da avvvegnaché; [2]e pur nondimeno quando anche ciò fosse, potrà accordarsi col dimostrativo, di che, percioché non v’è chi molto il contradica, basterà notar solo un paio d’esempi: [3]Pass. f. 202 «Né non si debbono havere a vile i peccati veniali, che, avvegnaché il peccato veniale e molti peccati veniali non tolgono la gratia e la carità, la quale solo toglie il peccato mortale, tuttavia la intiepidiscono etc.»; e f. 288 «Dove è da sapere che, avvegnaché per la gran simiglianza che hanno insieme questi due vizii spesse volte nella scrittura e da’ savi dottori si piglia l’un per l’altro, nondimeno considerandogli etc.»; e f. 58 «Avvegnaché alcuna cosa sottrae il soccorso»; N. ant. 35
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«Avvegnadio che elli per sé non haveva havuto impedimento».
cxv. [1]Conciosia cosa che, o come hoggi dicono più speditamente conciosia che, o s’unisca col dimostrativo, come fa molte volte, o col congiuntivo, com’è più suo proprio, massimamente ove si continui il senso, come poco avanti dicevamo d’avvegnaché, si truova dato a tre tempi, presente, preterito imperfetto, come dicono, e perfetto. [2]Bocc. n. 32 [2] «Conciosia cosa che io vivendo ogni hora mille morti sento»; n. 71 [3] «Conciosia cosa che la donna debbe essere honestissima»; Fiamm. l. 5 n. 67 «Conciosia cosa che in me maggior pena tutta insieme si truova che in quello etc.»; [3]Pass. f. 130 «Conciosia cosa che molti sono che lascerebbono innanzi la confessione, che etc.»; e f. 257 «Conciosia cosa che Iddio si è umiliato per te»; e f. 300 «Conciosia cosa che, come dice Boezio, sì agevolmente si perdono, che etc.»; [4]G. Vill. l. 4 c. 19 «Conciosia cosa che fu divulgata»; Bocc. Filoc. l. 5 [n. 78] «Conciosia cosa che voi venendo in grandissima quantità, la nostra festa multiplicasse»; Pass. f. 350 «Conciosia cosa ch’elle furono scritte e spirate dallo Spirito Santo».
[5]Conciofosse cosa che par che richiegga l’imperfetto o il più che perfetto del congiuntivo, e così ordinariamente si è usato; pur v’ha esempi etiandio nel dimostrativo. [6]G. Vill. l. 6 c. 45 «Conciofosse cosa ch’egli
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havea novelle che ’l suo nepote Curradino era grave infermo»; Bocc. Fiamm. l. 4 n. 30 «Conciofosse cosa che essendo tu qui presente, non mio ma d’altrui dimoravi»; nov. 59 [13] «Conciofosse cosa che quivi dove erano non haveano essi a far più che etc.».
[7]Si potrebbono aggiugner qui molti e diversi altri modi di dire, che a chi non sa par che non si debbano unire col dimostrativo, e pur ottimamente vi si accordano. [8]Come a dire Bocc. n. 77 [77] «Maraviglia è come gli occhi mi sono in capo rimasi»; Cresc. prol. l. 7 «Diremo come si fanno e come si procurino e rinuovino»; Bocc. n. 48 [20] «Io non so chi tu ti se’»; n. 99 [37] «Io non so chi voi vi siete etc. ma chi che vi siate»; n. 31 princ. [Intr. 28] «Io non so che voi vi dite né perché queste siano mala cosa»; Lab. n. 134 «Quantunque il ver dicono»; nov. 98 [27] «Quantunque tu ciò non esprimi»; [9]G. Vill. l. 11 c. 67 «Non sono stelle fisse, benché stelle paiono»; Bocc. Fiamm. l. 4 n. 31 «Ma qualunque ella è, perdonimi»; N. ant. 3 «Domandollo dove egli andava etc.»; M. Vill. l. 6 c. 41 «Di poco fallò che non entrarono nella terra»; Cresc. l. 9 c. 1 «Può essere che certi cavalli n’hanno più etc.»
Per lo e per il
cxvi. [1]Per riceve dopo sé più volentieri lo che il: per lo timore, per lo troppo domandare etc. [2]Oggi da certi si dà nell’un estremo, da certi altri nell’altro.
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Quegli sempre scrivono per lo, ancorché l’orecchio tal volta a sentirlo se ne lamenti, e hanno frequentemente alle mani quel loro per lo che, del quale, chi ne ha cerco assai, giura che non se ne truova buon esempio.[3] Gli antichi in sua vece han detto il perché, e ne son pieni Matteo e Filippo Villani; e di Matteo basti leggerne i capi 22, 24, 26, 28, 38 etc. del l. 9. Hallo ancora il Bocc. n. 17. [4]Anzi, dove pur il Cresc. l. 10 c. 11 disse per lo più, G. Vill. l. 12 c. 40 stimò più soave il dire «Per il più si vive a corso di fortuna». [5]Del medesimo è «Per il diluvio» l. 11 c. 12, e di M. Vill. l. 1 c. 22 «Cose fatte per il Re d’Inghilterra»; l. 3 c. 61 «Per il Marchese Dal Monte»; l. 11 c. 45 «Il muro per il quale»; e c. 51 «Per il Senato»; N. ant. 35 «Per il più cortese signore del mondo». [6]Altri poi, a’ quali scrivere o dire per lo par che senta dell’affettato, il ributtano e amano meglio d’usar sempre per il, comunque dispiaccia o no a’ grammatici. [7]Ma il troppo de gli uni e il poco de gli altri dovrebbe ridursi a mediocrità, e secondo il savio giudicio dell’orecchio e la qualità del componimento, sublime o dimesso, usarlo qui sì e qui no discretamente.
Altri e altrui in caso retto e obliquo.
cxvii. [1]Altri posto assolutamente è pronome che da sé vale quanto ‘altr’huomo’, ‘altra persona’. [2]E qui nascon tre dubbi: se in questo sentimento si possa dire altro; se altri possa adoperarsi in casi obliqui; se altrui si truovi in caso retto.
[3]Quanto al primo, tutti s’accordan del no; e quel testo del Bocc. n. 8 [18]: «Et da questo innanzi (di tanta virtù fu la parola da Guglielmo detta) fu il più liberale et il più gratioso gentile huomo, et quello che più i forestieri et i cittadini honorò che altro che in Genova fosse a’ tempi suoi»; chi il conta fra le scorrettioni de’ copiatori, chi vuol che debba sottintendervisi alcuno, overo gentile huomo: il che se fosse, aprirebbe una gran porta ad altro per entrar nelle scritture in vece d’altri, potendosi dire che vi si sottintende, come ad aggettivo, alcuna persona hor determinata hor no.
[4]Altri in casi obliqui, certi si fanno coscienza d’usarlo e sempre scrivono altrui per non dare, dicon, del
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capo in un solecismo. [5]Ma non v’è che temere, se si va dietro al Bocc. che scrisse, n. 56 [6], «E accioché voi non
intendeste d’altri», n. 42 [40] «Per non fidarmene ad altri, io medesima tel son venuto a significare», n. 59 [2] «Sentendo la Reina che Emilia della sua novella s’era deliberata, e che ad altri non restava a dire», n. 80 [27] «Il che la donna non da lui ma da altri sentì», Fiamm. l. 5 n. 24 «Mi t’ha tolto e datomi ad altri»; G. Vill. l. 12 c. 4 «Si vestieno una cotta che non si potea vestire senza aiuto d’altri», etc.
cxviii. [1]Ben è strano scrivere altrui in caso retto, né io altro farò che recarne qui gli esempi che leggendo ne ho trovati. [2]Pass. f. 203 «Non solamente i peccati veniali, ma etiandio i mortali, i quali altrui havesse al tutto dimenticati», e f. 320 «Il secondo modo, come si dee studiare e cercare la divina scienza, si è innocentemente, cioè a dire che altrui viva santamente etc.»; Bocc. Fiamm. l. 7 n. 8 «Avvegnaché altrui tenga ch’ella in fonte si convertisse»; Dante, Inf. 33
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[22-24] «Breve pertugio dentro da la muda / la qual per me ha ’l titol della fame / e ’n che convien ancor ch’altrui si chiuda»; Ditt. l. 4 c. 19 «E ciò fu ver se altrui non m’inganna».
Ci avverbio.
cxix. [1]L’avverbio ci fu anticamente usato in vece di ne, da o di, ad esprimere movimento da luogo, hor vi si truovi chi parla hor no. [2]Dante, Inf. 23 [128-130] «Non vi dispiaccia, se vi lice, dirci / s’a la man destra giace alcuna foce / onde noi amendue possiamo uscirci»; Bocc. Lab. n. 47 «Che chi per lo suo poco senno ci cade, mai, se lume celestiale non nel trae, uscir non ci può»; e n. 68 «In fino che lume apparisca che la via da uscirci ti manifesti»; e n. 246 «Che a non lasciarti la via da uscirci, vedere etc.»
Delle voci che non ammettono troncamento.
cxx. [1]Voce terminata in a, e molto più se in ra, mai non si usò di troncarla innanzi a consonante, fuor
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che hora e l’altre che di lei si compongono, allora, ancora etc., e suora non in significato di ‘sorella’ ma di ‘monaca’. [2]Alcuni n’eccettuano anche leggera, forse perché nel Bocc. n. 34 [16] leggono «Leggier cosa»; ma chi ha lor detto che questo troncamento sia della voce leggera, e non più tosto dell’altre due, leggieri e leggiere, che sono altresì primi casi di femina? Onde leggiamo «Cosa leggieri», «Condition leggiere» etc. [3]Hor quanto all’altre: mal si dirà «Una picciol parte», «Una mal femina» etc.; anzi al ben sentir di molti né anche «Un’amar erba», «Una fier ira», «Una scur ombra» e simili. Il dir poi come molti sogliono inavvedutamente «Una sol volta», «Una sol parola», «Una sol cosa» etc., vien da’ giudici condennato di solecismo, peroché quivi, dicono, il sol troncato non può stare altro che in maniera d’avverbio, e varrà quanto «Una solamente volta», «Una solamente cosa», che, come chiaro si vede, è mal detto. [4]E pur bene o mal detto che sia, il Davanzati nel l. 16 de gli Annali di Tacito ha «Una sol volta» e «Una sol vesta».
[5]Intere si scrivono tutte le parole che han l’accento su l’ultima sillaba: verrà, poté, morì, andò, virtù. [6]Intere le voci d’una sillaba sola, hor siano accentate hor no, secondo la varietà che n’è fra gli autori: dà verbo e prepositione, ma, fa, sta, sa, fra, tra, va, né per neque, sé pronome, me, te, ci quasi sempre innanzi a ogni altra vocale che non è i, e così anche gli, dì per ‘giorno’, pro, sto, vo, do, fo, po’, no, gru, su, tu, fu.
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[6]S’accorcian però che, se per si latino, la, le, lo articoli, e i composti alla, dalla, della, colla etc., e di, mi, si, ti, vi, ne: «D’armi», «M’erano», «S’alza» etc.
[7]Intere si scrivono le voci dell’infinito d’ogni maniera di verbi quando siegue vocale. Così pare che meglio stia e sia consiglio il farlo, non iscrivendo «Cercar altrui», «Legger alto», «Saper assai», «Fuggir insieme»; che se all’infinito vien dietro consonante, egli si può sicuramente troncare: «Cercar libri», «Legger bene», «Saper molto», «Fuggir tosto»; peroché le quattro consonanti che chiamano liquide, l, m, n, r, se altro non l’impedisce ammettono il troncamento.
[8]Intere si scrivono nel plurale quelle voci che han l’l ultima lor consonante: amabili, servili, parole, soli etc.
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[9]Non so se vorran che si possa scrivere gentil huomini in due voci. Così ha il Boccacci, n. 13 [8], avvegnaché gli antichi habbiano più volentieri scritto gentile huomo e gentili huomini. [10]Non concedono già gl’immortal trofei, i giovanil furori, i fatal colpi, usati da non so chi dicono fuor di regola. [11]Pure il Boccacci, nella Vis. c. 20, ci lasciò scritto «In tremol canna flebile e sonora», e c. 39 «Le tremol frondi risonar per vento»: che sono due regole in pezzi, l’una di non accorciare una voce di genere feminile terminata in a, l’altra di non terminare in l una voce del plurale. [12]Tutto ciò non ostante Fazio nel Ditt. l. 1 c. 12 non si guardò dal dire «Hora vedendo le mortal ferute», l. 3 c. 11 «E più fiumi real da lui si spande», l. 4 c. 15 «Donne gentil con voce di calandra», c. 18 «Ch’ogn’hor ne’ ben temporal più ti fidi», l. 5 c. 8 «Le qual vedrai», c. 24 «Tal mugli sona», l. 6 c. 9 «Orribil venti», etc. [13]Alle quali voci, che tutte finivano in li, tolse la vocale loro giustamente dovuta, peroché avvertono che il numero plurale riceve troncamento più fuor di regola che il singolare. [14]Del medesimo Fazio è quell’altro nel l. 4 c. 14 «Dur solo a’ lor nemici»: durezza intolerabile anche a gli amici di questo poeta.
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[15]Intere si scrivono le voci che han più consonanti diverse avanti l’ultima vocale; e ben si vede che male sta scamp’, corp’, prest’, cerc’, e forse anche dott’, tropp’, vegg’ etc. [16]Non però tutte sono obligate a questa legge, e direm bene senz’altro altr’huomo, quest’anno, bell’anima etc. Ancor qui ha luogo il giudicio.
[17]Qui è da aggiungere una regola che certi danno quando avvien di troncare alcun verbo che termini in m, che se la parola susseguente incomincia da b, da p o da m, la m finale dell’antecedente si ritenga: «Studiam bene», «Dormiam poco», «Saprem molto». [18]Così naturalmente, dicono, si passa dallo stringimento delle labbra he richiede la m, a quello che similmente si fa pronuntiando il p e il b. [19]Qualunque altra consonante non è alcuna di queste tre, seguendo, muta la m in n: «Possian correre», «Cerchian diligentemente», etc. [20]Non però sì che non siate per trovar ne gli antichi (come altresì in ogni altra maniera d’ortografia) non picciola varietà; e leggerete nel Bocc. n. 76 [12] facciamlo; n. 31 [Intr. 37] «Che direm noi»; n. 36 [25] «Mettiamlo qui»; n. 38 [9] potremgli; n. 43 [28] «Vogliamtelo dire»; n. 76 [9] vogliamgli; n. 77 [12] diamgli e [28] leviamci; n. 81 [21] «Pogniam che etc.»; n. 10 [Concl. 9] «Havem fatto»; n. 41 [3] «Habbiam già letto»; n. 89 [4] «Vogliam dire»; Intr. [63]
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«Crediam la vita nostra»; Cresc. l. 2 c. 23 «Acconceremvi e legheremvi una pezza»; e simili in maggior numero che del contrario. [21]Talché v’ha di molti a’ quali cotal legge, che si è fatta senza l’autorità de’ principi della lingua, non piace e l’han per nulla, e a’ verbi, almen dove sono disgiunti, danno il loro natural finimento in m, e ben fanno. [22]Che se la voce tronca termina in n e dopo sé unito riceve l’affisso mi o altra voce cominciante da m, ben si fa a cambiar l’n in m. [23]Così il Boccacci n. 21 [9] disse «Davammi tanta seccaggine», e indi a due versi «Sommene venuto», in vece di davanmi e sonmene; Pass. f. 346 «Sommi molesti», benché ivi pur anche dicesse «Impaccianmi ne’ fatti loro», nulla curando di cotal regola. [24]Come altresì fuor de’ verbi: G. Villani sempre a un modo scrisse San Marino, San Martino, San Miniato, e M. Villani San Pietro, nomi propri di castelli; e benché d’una voce sola, pur così meglio espressi come fossero le due divise onde han l’origine e son composti. [25]Che se la voce seguente cominciata da m non è affissa ma disgiunta dall’antecedente che finisce in n, questo n finale non si muta in m, né scriveremo «Veram meco», «Saram molti», etc.; e avvegnaché il b e il p non si vogliano vedere avanti l’n, ma l’m, nondimeno, se la voce che termina in n e quella che comincia da b o da p sono staccate, quell’n finale non si muta in m, né diremo «Saram buoni», «Torneram presti» etc. [26]E questo forse varrà non poco a provare che più re-
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golatamente scrivano quegli che, come di sopra ho accennato, non cambiano l’m ultima e naturale in n quando la voce per cui altri dicono doversi mutare è staccata.
[27]Queste in brevità sono le regole universali che si prescrivono all’uso de’ troncamenti. Altre minutie che danno nel superstitioso non è punto utile il raccordarle. [28]Gli antichi usarono di scrivere anzi disteso che accorciato, e se si ha a dare in alcun troppo, assai meglio è questo che il contrario, di smozzicare come alcuni fanno quanto più possono, sì che le loro scritture sembrano un lavoro a musaico di pezzetti di parole insieme commessi in un’opera. [29]Il buono e dilicato orecchio, che si risente a ogni tocco di qualunque asprezza di suono che non sia necessaria o messa per elettione e ad arte, egli ha a dire alla mano «Tronca questa e non quest’altra voce», e «Quella che colassù troncasti, qui riponla intera, che meglio suona e più dolce».
Che che.
cxxi. [1]Che che si è dato non solamente a’ verbi: «Che che sia», «Che che ne facciano» etc.; ma pur alcuna volta a’ nomi: G. Vill. l. 11 c. 134 «Che che pericolo ne corra».
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Della s in principio di parola seguente altra consonante.
cxxii. [1]La s in principio di parola, se le vien dietro immediatamente alcun’altra consonante, ha privilegio particolare di metter questa servitù alla parola antecedente, che non si tronchi ma termini in vocale, se l’ha. Se non l’ha, che si muti in altra parola che l’habbia, se v’è. [2]Altrimenti ella può prendere un’i avanti la s, e tutto ciò per fuggire l’asprezza che si sentirebbe facendosi altramente.
[3]Dunque non s’havrà a scrivere «Nel stato», «Un scoglio», «Gran scempio», «Bel studio», «Esser storto», «Viver scioperato», ma «Nello stato», «Uno scoglio», «Grande scempio», «Bello studio», «Essere storto», «Vivere scioperato», etc.
[4]Perciò anche muteremo l’articolo del maschio il in lo, sì come altresì nel numero maggiore li in gli per più dolcezza; e non diremo «Il scrigno» né «Li scrigni», ma «Lo scrigno», «Gli scrigni» etc.; e così degli altri composti: degli, agli per chi gli scrive uniti. [5]Similmente, perché alcune parole né hanno vocale pro-
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pria in cui finiscano, né si possono trasmutare in altre, scrivendole avanti alcuna delle sopradette voci, queste prenderanno l’i innanzi la s, e si scriverà «In iscuola», «Per istrada», «Con iscommodo» etc.
[6]Questa regola si è trascurata da gli antichi senza farsene scrupolo, e i tre Villani fra gli altri ne hanno a gran numero esempi.
A quali participi si dia il verbo essere e a quali l’havere; e di potuto e voluto che precedono all’infinito.
cxxiii. [1]Una regola semplice e universale per dividere e ridurre a un ordine i verbi che nel preterito uniscono la voce del participio passato col verbo essere, e a un altro quegli che l’uniscono col verbo havere, ella non v’è fuorché in una parte d’essi, quella dove appena è mai che niuno fallisca se non se rozzissimo nella lingua. [2]Io pur ne scriverò qui brevemente quel che me ne pare il meglio, e vagliavi fin che da voi medesimo o da qualunque sia altro ne intendiate cosa che più interamente vi sodisfaccia.
[3]I verbi attivi, i quali tutti reggono alcun caso, cioè riguardano alcun suggetto in cui trasportano l’attion
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grammaticale, uniscono la voce del participio col verbo havere e non mai con l’essere; e avvegnaché siano di doppia maniera, cioè hor neutri e hor attivi, come affondare, crescere, agghiacciare, ardere, sbigottire etc., in quanto s’adoprano attivamente reggendo alcun caso, sempre uniscono al participio passato il verbo havere: talché dove noi potrem dire «Essendo io passato sul ponte», non potrem dire «Essendo io passato il ponte», ma havendo, peroché niuna attione che ha termine espresso si dimostra propriamente altro che col verbo havere, sì come al contrario niuna passione altro che col verbo essere.
[4]I verbi passivi richieggono necessariamente unito al participio passato il verbo essere e non mai s’accordano con l’havere. E ciò per cagione dell’esser lor proprio, peroché nella lingua nostra il verbo passivo non è altro che il participio, di sua natura (almen ne’ verbi attivi) indifferente a darsi overo a riceversi, determinato a significare il ricevimento che è passione unendosi col verbo essere, che ha forza di far suggetto dell’attion grammaticale quello a che egli s’applica: io sono, io era, io fui, io sarò amato, servito, veduto etc. [5]E percioché v’ha de’ verbi che non sono attivi, peroché mai non reggono verun caso e pur s’adoprano in forza di passivi – non propriamente, quasi l’attione loro s’imprima da alcun estrinseco operante, talché si possa, come ne’ veramente passivi, aggiunger loro in sesto caso quello onde l’attione deriva: «Fu ubbidito da’ sudditi, amato da’ figliuoli, portato dal fiume etc.»; [6]ma dimostrano operation dell’agente in sé medesimo, e ordinariamente vogliono alcuna di quelle
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particelle che chiamano affisse, mi, ti, si etc.: ingegnarsi, pentirsi, attenersi, avvedersi, accingersi etc. –; [7]questi sieguono la natura medesima de’ passivi e formano il preterito unendo il verbo essere al participio. E sarà fallo il dire «Io mi ho ingegnato», «M’ho accorto», «M’ho pentito», «M’ho rammaricato» etc. in vece di «Mi sono accorto, pentito, rammaricato» etc.
[8]I verbi propriamente attivi volti in passivi e adoperati sì che la passione si riceva dal medesimo di cui è l’attione, io stimo che al participio passato possano unire indifferentemente il verbo essere e l’havere, talché ben si dica «Io mi ho amato» e «Io mi sono amato», «Io m’ho ferito» e «Io mi son ferito», e così degli altri. [9]Imperoché essendo il medesino quello che produce l’attione e che la riceve, in quanto egli è agente può dire «Io m’ho», in quanto è suggetto «Io mi sono amato, ferito etc.».
[10]Quella maniera di verbi neutri che da sé non reggono verun caso, e con l’aggiunta delle particelle mi, ti, si etc. possono adoperarsi a significare alcuna passione che termina e si rimane nel medesimo suggetto ond’ella proviene – e perciò li chiamano neutri passivi – non possono unire al participio passato il verbo havere ma solamente l’essere. [11]Ecco, per più chiarezza, alcuni pochi esempi di questi verbi in quanto son neutri: G. Vill. l. 9 c. 57 «I Fiorentini molto sdegnarono»; Petr. canz. 37 [227 16] «Ben sia prima ch’io posi il mar senz’onde»; Dante, Par. 27 [21] «Vedrai trascolorar tutti costoro»; Bocc. n. 37 [7] «Forte de-
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siderando e non attentando di far più avanti»; n. 70 «La moglie, lamentando, diceva etc.». [12]In questi esempi, i verbi sdegnare, posare, trascolorare, attentare, lamentare s’adoprano in forma di neutri. [13]Hor se divengano, come possono, neutri passivi, non potrà dirsi «Io m’ho lamentato», «Io m’ho attentato», «M’ho trascolorato», «M’ho posato, sdegnato etc.»; ma «Mi sono sdegnato, posato, etc.», nella medesima maniera che i verbi pentirsi, accorgersi, ingegnarsi etc. raccordati di sopra, i quali mai non istanno senza gli affissi, dove questi tal volta s’adoprano in forma di semplici neutri; di che più avanti alcuna cosa si è ragionato.
[14]I verbi assoluti che non s’accordano con persona, né reggon caso, come tonare, annottare etc., si reggono nel preterito come i passivi, con l’essere, non con l’havere; e non si dice «Ha tonato», «S’ha annottato», ma «È tonato», «S’è annottato», etc.
[15]I verbi neutri, o sieno semplici o doppi, non han regola universale che dimostri quali di loro uniscano col preterito l’essere e quali l’havere.
[16]1. Altri sempre vogliono l’essere e non mai l’havere, come morire, entrare, partire, marcire, mancare, scendere, svanire, perire, infermare, guarire, cadere, andare, etc.
[17]2. Altri sempre voglion l’havere e non mai l’essere, come smaniare, gridare, mugghiare, peccare, desinare, cenare, dormire, piangere, ridere, giucare etc. [18]Avvertasi nondimeno che di questi e di qualunque altra maniera di verbi, quegli che ricevono alcun affisso non per
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accidentale empitura, ma per particolar construttione, vogliono l’essere, non l’havere; talché dicendosi «Io ho riso», «Io ho dormito», «Io ho taciuto», col dar loro l’affisso si dovrà dire «Io mi son riso», «Io mi son dormito», «Io mi son taciuto», appunto come per natura fossero neutri passivi. [19]Non è però che non si truovi detto «Te ne havresti riso», «Se ne havean riso», «M’havria riso», sì come ancora «Haversi vantato», «Haversi ingegnato», «Haversi pensato», «Haversi mostrato», «Haversi fatto coronare», «Haversi veduto» e così fatti altri in più maniere di verbi, che o si son detti fuor di regola, o metton la regola in più libertà che per avventura a’ grammatici non ne pare.
[20]3. Altri ricevono indifferentemente essere e havere. Rimanere: Bocc. n. 73 [61] «Son rimaso il più sventurato»; M. Vill. l. 7 c. 7 «Alcuno ve n’havea rimaso». [21]Dimorare: G. Vill. l. 9 c. 74 «Non havea dimorato in Firenze»; Bocc. n. 91 [6] «Essendovi già buon tempo dimorato». [22]Caminare: Bocc. n. 12 [12] «Ho già molto caminato»; n. 89 [16] «Poiché alquante giornate caminati furono». [23]Cavalcare: G. Vill. l. 10 c. 1 «Havendo cavalcato verso Lucca»; Bocc. n. 43 [10] «Non furono cavalcati guari». [24]Correre: Bocc. n. 68 [16] «Havendo corso dietro al etc.»; poco appresso [16] «Sentendo Arriguccio esser corso dietro a Roberto». [25]Fuggire: Bocc. n. 68 [15] «Havendo Roberto un pezzo fuggito»; n. 61 [Intr. 2] «Era già ogni stella fuggita». [26]Vali-
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care: M. Vill. l. 8 c. 50 «Se il Re Luigi havesse valicato di là, havrebbono fatte assai maggiori cose»; il medesimo l. 2 c. 33 «Già erano valicati il giogo». [27]Questi tutti sono d’un medesimo genere, di quiete e di moto, come per gli esempi si vede. [28]Non è però che universalmente sia vero che tutti i verbi di moto o di quiete siano liberi a prendere l’essere o l’havere, che chi vorrà oggidì scrivere «Io ho andato», «Io ho stato»? [29]Avvegnaché il primo sia di G. Vill. l. 11 c. 52 «I detti Conti havendo col loro sforzo andati per racquistar le dette terre etc.»; l’altro di M. Vill. l. 4 c. 62 «Quando v’havea stato etc.». [30]Sopra i quali testi non è da faticarsi per dimostrargli scorretti o per interpretarli in altro senso: peroché se ben fossero provatissimi, ciascun per sé medesimo vede che non sono da farsene esempio.
cxxiv. [1]Dal sopradetto si rende agevole a comprendere quando i due participi potuto e voluto, posti avanti all’infinito d’alcun verbo, richieggano l’havere e quando l’essere; e sì convien porvi ben mente, peroché etiandio i mezzanamente istrutti nella lingua possono di leggieri errare, massimamente dando l’havere in iscambio dell’essere. [2]Ben veggo che a cercar per minuto il vero, se ne vorrebbe dire assai più di quello che ne ha scritto nelle sue giunte al Bembo il dottissimo Castelvetri, alla cui diligenza la lingua nostra dee una gran parte delle migliori regole ch’ella insegni. Ma a ciò fare si richiederebbe altro otio che quel pochissimo che io ho al presente, e altr’opera che non questa picciola istruttione, così com’è richiestami dagli amici.
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[3]I participi potuto e voluto posti avanti all’infinito alcune volte vogliono accompagnarsi con havere e non con essere, altre con essere e non con havere, altre indifferentemente l’uno e l’altro ricevono; e il saper certo dove l’adoperar questo o quello sia obligo o libertà dipende dal conoscere la natura del verbo al cui infinito si dà l’uno o l’altro di questi due participi: peroché se son di quegli i cui preteriti vogliono accompagnarsi sol con l’havere, al participio potuto e voluto si dovrà dare l’havere e non l’essere. [4]Tali sono tutti i semplicemente attivi, e una cotal parte de’ neutri accennata di sopra; onde percioché noi diciamo «Io ho amato», «Ho veduto», «Ho letto», «Ho udito», «Ho portato» etc., e similmente de’ neutri «Ho dormito», «Ho peccato», «Ho riso», «Ho pianto», «Ho giucato» etc., diremo altresì «Io ho potuto» o «voluto amare», «Ho potuto vedere, leggere, udire, portare etc.»; e de’ neutri «Ho potuto» o «voluto dormire, peccare, ridere, piangere, giucare etc.». [5]Che se l’infinito è di tal fatta di verbi che, o per proprio essere di natura, o per accidentale di costruttione, non permetta che al suo preterito si dia altro che l’essere, l’essere solo e non l’havere si dovrà dare a potuto e voluto che il precede. Tali son i passivi, che chiara cosa è che vogliono l’essere: certa sorte di neutri, gli assoluti, e quegli che non istanno senza alcuna delle particelle mi, ti, si etc. che chiamano affisse. [6]Percioché dunque noi non diciamo «Io ho stato», ma «Sono stato», né «Io ho ve-
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nuto», «Ho partito», «Ho svanito», «Ho caduto» etc., ma «Son venuto», «Son partito», «Sono svanito», «Son caduto», né «Io m’ho accorto», «M’ho ingegnato», «M’ho pentito», ma «Mi sono accorto», «Mi sono ingegnato», «Mi son pentito»; diremo ancora «Io non son potuto» o «voluto essere etc.», «Non sono potuto» o «voluto venire, partire, svanire, cadere», «Non mi son potuto» o «voluto accorgere, ingegnare, pentire etc.». [7]Che se finalmente l’infinito è di que’ verbi che nel loro preterito ricevono indifferentemente l’essere o l’havere, il potuto e voluto postogli avanti potrà egli altresì ricevere l’uno e l’altro, e direm bene «Io non ho» e «non son potuto» o «voluto cavalcare, correre, rimanere, dimorare, fuggire etc.». [8]E simile si vuol dire di quegli attivi, de’ quali si è detto di sopra, che finiscono nell’agente medesimo l’attione: «Io non m’ho potuto» o «voluto» e «non mi son potuto» o «voluto ferire, uccidere, amare, stimare», e così degli altri.
[9]Si vuol nondimeno avvertire che, o sia perché l’orecchio il comporta senza parergli strano, o perché senz’altro attendere così è piaciuto a gli scrittori, alcun de’ sopradetti verbi a’ quali si dovea l’essere si truova con l’havere; non però in ogni tempo, che troppo duro sarebbe stato a udire. [10]Talché dove non si truova, ch’io mi sappia, nel primo preterito del dimostrativo «Io ho andato», «Io non ho stato», «Quello che ha avvenuto» etc., ben si truova appresso il Boccacci col secondo del soggiuntivo detto «Non havesse voluto andare», «Non havesse voluto essere» e «Quello che avvenir potuto havesse», in vece di fos-
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se, che era il dovuto secondo le regole di sopra accennate.
[11]Similmente, che dove l’infinito si tace, avvegnaché egli sia di que’ verbi che nel preterito vogliono l’essere, non l’havere (e dovrebbe darglisi se si esprimesse), col tacersi perde questo diritto, e a potuto e voluto ben si accompagna l’havere. [12]Perciò dove non si direbbe «Tu hai tornato», il Boccacci disse «Te dover tornare ho creduto, se havessi potuto»; così ancora «Se havesse voluto potea nascere» etc. e «Stetti più che voluto non havrei», ancorché non si dica «Egli ha nato» né «Io ho stato».
Gioventù.
cxxv. [1]Gioventù non è parola, dicono, di vecchio e perciò buono scrittore. [2]Ma non l’han cerca fuor che nel Vocabolario, dov’ella non è; onde mal fanno col volerci costringere a dir gioventude o gioventudine, voci troppo antiche a significare la gioventù, pur così nominata dal Cresc. l. 4 c. 4 «Nella gioventù [una tal vite] è sterile, e procedendo in tempo diventa feconda»; l. 9 c. 79 «Ne’ boschi è lecito veder la gioventù [de’ pastori] e quella quasi armata». [3]Usolla altresì F.
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Vill. c. 65 «Molta gioventù non passava l’adolescenza», e c. 97 «Fidandosi della gioventù e prodezza de’ suoi Inghilesi».
Calere.
cxxvi. [1]Il verbo calere non ha que’ soli tre o quattro tempi a che un solenne grammatico l’ha ristretto. [2]La prima sua voce è nel Bocc. n. 75 [8] «Se vi cal di me» e n. 84 [17] «Deh fallo, se ti cal di me». [3]Calea nel medesimo n. 46 [11] e in G. Vill. l. 12 c. 15 «A cui ne calea»; Dante, Purg. 25 [123] «Che di volger caler mi fe’ non meno»; Bocc. n. 31 proem. [Intr. 38] «A niun caglia di me», e Vis. c. 5 e n. 24 [29] «Non ve ne caglia no». [4]Calesse è nel Lab. n. 275, Filoc. l. 6 n. 187 e novelle 76 e 77 [9]. [5]Caluto è nel Lab. n. 203, Amet. f. 42 «A cui molto di me è caluto», N. ant. n. 56 «Sì come poco v’è caluto di costui, così vi carrebbe vie meno di me». [6]Calse è del Petr. son. 53, 290 etc. [7]Quel
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poi che si è tante volte detto all’antica provenzale non haver in calere o a calere, che disse M. Vill. l. 8 c. 74, essere in calere ch’è di F. Vill. c. 82, mettere in non calere, darsi a non calere, mettersi a non calere, porre in non calere, o con Dante e ’l Petrarca mettere in non cale – come questi non fossero il presente e l’infinito di cotal verbo difettuoso, ma nomi sustantivi – m’è più volte avvenuto udirlo detto da alcuni così: mettere in un calere e mettere in un cale. [8]Parea loro una finezza di lingua recata fin di colà lontanissimo dove il Cipolla andò pellegrinando, in Truffia e in Buffia e in fino in India Pastinaca dove volano i pennati.
Lì e là, qui e qua, costì e costà.
cxxvii. [1]Costì o costà chiaro è che non si dicon del luogo dov’è chi scrive o parla, ma dell’altro dov’è quegli a cui si scrive o con cui si ragiona. [2]E pur anche allora, dovendosi nominare alcuna cosa di quel luogo lontano, le si darà non il questo e questa, ma il cotesto e co-
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testa. [3]Anzi ancora a certe di colui che v’è presente, come a dire: «Coteste tue maniere, cotesta tua barba etc. del che ragioneremo più a disteso in altro luogo da sé». Fazio nel Ditt. l. 6 c. 7 fa dire a Solino del suo compagno, ch’era il medesimo Fazio, «Cotesto con cui son altro non chiede», e c. 11 «Cotesto dico io per Gionata», e l. 4 c. 14 «Veduto quelli, in Sansogna passai, / e cotesta contrata sì mi piacque», e l. 2 c. 19 «Ciò che in coteste mie parole annodo».
[4]Qui e qua, e questo e questa sono voci proprie delle cose e del luogo dove voi siete. Ivi e quivi e quindi e colà regolatamente si danno al luogo di cui parlate e dove non siete né voi né quegli con cui parlate.
[5]Fanno alcuni fra qui e costì, qua e costà una cotal distintione, che i primi due s’adoprino a significare stato: «Io son qui» e «Tu sei costì»; i secondi moto:
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«Tu verrai qua», «Io verrò costà», «Io uscirò di qua», «Tu ti partirai di costà». [6]Ma convenevole o no che sia, ella non è necessaria perché obligo di grammatica il richiegga: «Mercé per Dio [disse marchese al giudice di Trevigi, n. 11 21], egli è qua un malvagio huomo che m’ha tagliata la borsa»; n. 40 [14] «Leva su, dormiglione, che se tu volevi dormire, tu te ne dovevi andare a casa tua, non venir qui»; n. 26 [16] «Questa mane anzi che io qui venissi»; n. 13 [37] «Per qui venire»; n. 65 [32] «Io non venni qui per dir bugie»; n. 84 [13] «Egli de’ venir qui testeso uno»; [7]e così quasi sempre Lab. n. 245 «Qui venuto son per la tua salute», Ditt. l. 1 c. 15 «Dico che Christo venir qui dovea etc.», l. 6 c. 14 «Che nudo qui venisti e senza panni», M. Vill. l. 9 c. 30 «Qui siamo venuti», N. ant. 62 «Io t’ho fatto qui venire». [8]E per movimento da luogo: Bocc. n. 1 [17] «Ser Ciappelletto, come tu sai io sono per ritrarmi del tutto di qui». [9]E il simile è di costì e costà: Fiamm. l. 4 n. 48 «Qualunque altre cagioni costà trovasti»; anzi per dimostrar luogo alto, non si dirà altramente che costà su, o stato o moto che voglia significarsi: «Salir costà su», «Dimorar costà su», «Scendere di costà su»; che tutte sono maniere che si leggono nella nov. 77.
[10]Né differenti sono in ciò gli avverbi lì e là, che si danno a luogo dove non è né l’un che parla né l’altro che ascolta: Bocc. Filoc. l. 7 n. 10 «Era lì co’ suoi compagni venuto»; Dante, Inf. 8 [103] «Lì m’havea menato»; e Purg. 7 [64] «Poco allungati ci eravam di lì».
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Faccio, nudo, muto, regi, dici, vedo e sparto.
cxxviii. [1]Faccio, muto, nudo e regi sono voci che i prosatori antichi appena mai hanno usate in luogo di fo, mutolo, ignudo e re, che han detto più volentieri, lasciando quelle a’ poeti, de’ quali son proprie in quanto essi sovente, i prosatori ben di rado, le adoprano. [2]Pure il Boccacci Fiamm. l. 7 n. 48 disse «Sì come io faccio», e Filoc. l. 7 n. 301 «Faccio questo», e n. 326 «Io edificator ti faccio di mura»; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 25 «La doglia muta peggiori cose pensa», e quivi stesso «La caritade e l’amore muto ripresenta specie d’huomo che non ami»; Bocc. Filoc. l. 7 n. 437 «Stando per ammirazione alquanto muti»; M. Vill. l. 8 c. 76 «Stavano tutti muti e smarriti»; F. Vill. c. 69 «Stavano sospesi e muti»; Dante, Conv. f. 1 «Sordi e muti»; Bocc. n. 10 [Concl. 15] «Con le braccia nude»; Fiamm. l. 4 n. 148 «Sopra i nudi cespi»; Brun. Rett. [8v] «Erano tutti nudi e vani»; G. Vill. l. 7 c. 83 «Chi nudo e chi scalzo», e l. 4 c. 20 «La mensa nuda fece apparecchiare»; M. Vill. l. 11 c. 16 «Le spade nude in mano»; Cresc. l. 7 c. 1 «La mensa nuda». [3]Regi fu usato dal Davanzati, l. 2, del suo volgarizzamento di Tacito. [4]Dici e vedo anch’essi appena si
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truovano ne’ prosatori per veggo e di’, che usarono più sovente. Pur dici è del Cresc. l. 1 c. 13 «Tutto può esser che dici» e d’Alb. Giud. Tratt. 2 c. 28 «Lo consiglio, lo quale dici esser dato», e c. 30 «Lo consiglio che dici fatto», e c. 34 «Coloro che tu dici che sieno tuoi amici», e più altre volte. [5]Vedendo sì e veggendo, sì come ancora visto e veduto aggettivo, e vista e veduta sustantivo, si veggono indifferentemente usati. [6]Sparto poi, in vece di sparso, non è voce poetica, se poeti non sono tutti i prosatori del buon seco-
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lo, appresso i quali si legge non quindici o venti volte, ma tante che è maraviglia che si sia trovato huomo di saper nella lingua che dicendolo non l’habbia vedute, o vedendole l’habbia detto.
Se bene, di già, abbenché, né meno, benissimo, ormai.
cxxix. [1]Se bene in forma d’avverbio significante ‘benché’ nol truovano in iscrittore antico. Hoggidì è commune e l’Ariosto, il Caro, il Tasso, il Guarino, il Davanzati l’hanno parecchi volte. [2]Similmente di già, avvegnaché sia del Boccacci nell’Urbano e nella Vita di Dante, certi il ripruovano come componimento
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di parti che non bene s’accoppiano; altri l’appruovano e l’usano senza scrupolo e forse ancora senza peccato, massimamente havendone esempio nel Crescenzi l. 12 c. 4 «Ne’ luoghi di già arati». [3]Non così abbenché invece di benché e né meno a maniera d’avverbio per ‘né pure’, che ne hanno (ch’io mi sappia) esempio in autore antico, e i buoni moderni volentieri se ne guardano. [4]Benissimo poi, anch’egli avverbio, si leggea nelle stampe vecchie del Filocolo, l. 2 n. 286 «L’arme in dosso benissimo ardito ti mostrano», ma il testo del ’94 ha corretto «bellissimo e ardito»: se perché ella veramente non sia voce legittima del Boccacci, o per non lasciarne memoria nella lingua, facendo che non se ne truovi vestigio, io non so; so che il Davanzati nella Coltivazione l’adoperò, e più d’una volta. [5]Finalmente, chi vuole che non si dica ormai avverbio di tempo, ma sempre oramai, o almeno omai, il cancelli dalla Fiamm. l. 4 n. 13 «Gitta via ormai i desiderii di riaverlo», e dal Filoc. l. 4 n. 76 «Questo che è fatto ormai non puote indietro tornare», e l. 6 n. 271 «Nella pietà degli Iddii ormai sperando», e in più altri luoghi del medesimo libro.
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Inchinare col terzo caso.
cxxx. [1]«Inchinare ad uno» è ben detto senza giunta d’affisso, ond’egli sia quel che chiamano neutro passivo: Dante, Inf. 9 [86-87] «Et volsimi al Maestro et quei fe’ segno / ch’io stessi cheto et inchinassi ad esso». [2]Quattro testi diversi e molto antichi tutti leggono inchinassi o inchinasse; un moderno ha corretto inchinossi. [3]Io non ne cerco il come, ma non è già perché inchinare non istia senza niun affisso: G. Vill. l. 4 c. 16 «Veggente tutta la compagnia del detto Giovanni [Gualberti] l’immagine del Crocifisso, visibilmente inchinò al detto Giovanni». [4]E v’è per ventura anche nel Dittamondo, con la medesima narratione del miracolo, la medesima forma di scriverlo: l. 2 c. 25 «La vita di Giovanni santa e cara / fiorì a cui il Crocifisso inchina, / quando col perdonato a lui ripara»; Am. ant. f. 319 «L’ambitione seguita e serve, tutti onora e a ciascun inchina».
Capo per ‘guidatore’ detto anche di molti.
cxxxi. [1]La voce capo, adoperata in senso di ‘condottiere, guida, superiore’ e simili, ben si porrà in numero singolare ancorché si ragioni di più persone: G. Vill. l. 7 c. 88 «Furono capo e cominciatori i Ros-
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si», e c. 58 «I quali erano capo della lor setta»; M. Vill. l. 5 c. 32 «Quelli della casa non comparivano a farsi capo de’ Cittadini», l. 6 c.57 «Erano capo i Conti della Casa di Chiaramonte», l. 8 c. 106 «Quelli di Messina si sono fatti capo di parte», etc.
L’infinito in forza di nome etiandio nel plurale.
cxxxii. [1]Ben sa ognuno che l’infinito molto acconciamente s’adopera in forza di nome e in tutti i casi, con appresso l’articolo espresso overo sottinteso, solo, o con varie particelle. [2]Così diciamo «Lo scarso spendere», «Il santo vivere», «Nel presto salire», «Col buon volere», «Dal preciposo correre», «Per lo corto vedere», «Dopo il mio ragionare», «Senza il vostro consentire» e simili, tutti in genere mascolino. [3]Hor questi, come senza eccettuatione sono in continuo uso nel numero singolare, così in tutto alla maniera de’ nomi il sarebbono nel plurale, se non che
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par che l’orecchio non li soffera volentieri, non so se per quella loro poco grata terminatione in ari, o per altro che a me non viene in pensiero. [4]Pur se discretamente s’adoprino, e son leciti, e non pochi di loro hanno esempio; e basti recarne in pruova un dieci o dodici per intendimento degli altri: N. ant. prol. [p. 1] «I donari», Bocc. Fiamm. intr. «I parlari», l. 6 n. 23 i lagrimari, n. 32 Gl’imaginari, novella 31 [Intr. 31] i baciari, n. 15 [25] e [iv Intr.] 31 gli abbracciari, Fiamm. l. 4 [n. 56] i ragionari, N. ant. 8 e Cresc. l. 3 c. 4 i mangiari, Pass. f. 295 i vestiri, Dante, Purg. 19 [76-79] i saliri e i soffriri, Petr. canz. 47 [359 22] «I diri», etc., se quel testo si legge «ne’ tuo’ dir», non come i più antichi hanno «nel tuo dir mostrasti» etc.
Giusto e giusta.
cxxxiii. [1]Giusto e giusta, prepositioni del medesimo significato, vogliono che fra loro habbiano tal differenza, che giusto sempre si dia al maschio, giusta alla femina. M. Vill. l. 3 c. 54 scrisse «Giusta suo potere», e un simil testo era nel Filocolo antico, dove il più moderno ha giusto.
Sperare per ‘temere’, promettere per ‘minacciare’
cxxxiv. [1]Non fu licenza particolare nell’Ariosto, come altri ha voluto, il valersi del verbo sperare dove
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(peroché era d’alcun male vicino) dovea anzi dirsi temere. [2]Lascio i Latini, che dissero «Sperare dolorem», e «Sperare deos memores fandi atque nefandi»; l’usarono nella nostra lingua G. Vill. l. 11 c. 117 «Sperando peggio per l’avvenire», M. Vill. l. 4 c. 7 «Dovendo sperare sterilità e fame», e Bocc. n. 43 [30] «Del quale non sapea che si dovesse sperare altro che male», Lab. n. 28 «Mi parea per tutto, dove io mi volgessi, sentire mugghii, urli e strida di diversi e ferocissimi animali, de’ quali la qualità del luogo mi dava assai certa speranza e testimonianza che per tutto ne dovesse essere», Cresc. l. 1 c. 1 «Anzi che ’l non isperato [cioè ‘aspettato’] pentimento seguisca».
[3]Promettere ancora si è detto d’alcun male, in vece di minacciarlo. Così ha il N. ant. 68 «S’egli questa cosa a persona rivelasse, gli promise di tagliar il capo», e M. Vill. l. 11 c. 11 «Lo Re con giuramento promise che, se non si arrendessono, et egli li prendesse che tutti li farebbe morire».
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Appo.
cxxxv. [1]Appo prepositione (che è quanto appresso abbreviato o stroppiato, onde forse perciò non si vuole scrivere appò) si è dato non solamente a persona, ma altresì a luogo, ciò che alcuni niegan potersi: G. Vill. l. 9 c. 218, 246, 265 etc. «Appo Vignone»; Cresc. l. 4 c. 2 «Appo Melano» e «Appo Cortona», c. 4 «Appo Brescia», «Appo il Pisano». [2]Anzi ancora a cosa, avvegnaché dicano non trovarsi: G. Vill. l. 7 c. 70 «Veggendo il picciol podere del Re d’Araona appo la gran possanza del Re Carlo», e c. 44 «Il Papa gli promise e dispuose de’ danari della Chiesa appo le compagnie di Firenze», c. 101 «Sua forza era niente appo quella del Re di Francia»; Pass. f. 265 «Appo l’opinione della gente»; Am. ant. f. 265 «Appo ’l suo giuditio».
Se non fosse per se non fosse stato.
cxxxvi. [1]Questa è forma di dire tanto costantemente usata da gli antichi e buoni scrittori, che sembra appresso loro più tosto regola che licenza; e basti, de’ mille che ve ne sono, recarne qui certi pochi esempi, comunque poi habbiano a servirvi, o sol per cognitio-
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ne o ancora per uso: N. ant. 94 «Alzò questi la spada e ferito l’havrebbe, se non fosse uno che stava ritto innanzi»; G. Vill. l. 8 c. 68 «Era la terra per guastarsi, se non fossono i Lucchesi che vennero in Firenze etc.»; l. 10 c. 149 «Se non fosse il soccorso, che ’l nostro Comune vi mandò così subito, la Città di Bologna era perduta per la Chiesa»; l. 11 c. 7 «E se non fosse che i Fiorentini vi mandarono incontanente loro ambasciadori etc., Bologna era al tutto guasta»; [2]M. Vill. l. 3 c. 104 «Che se non fosse la manifesta gratia che Nostra Donna fece alla processione etc., erano i popoli di Toscana fuori di speranza etc.»; l. 7 c. 99 «Sarebbe venuto fatto, se non fosse il soccorso de gli allegati»; l. 8 c. 6 «Havrebbe arse le case di San Martino, se non fosse il gran soccorso»; [3]Bocc. n. 77 [45] «E se non fosse ch’egli era giovane e sopravveniva il caldo, egli havrebbe havuto troppo a sostenere»; Dante, Inf. 24 [34-36] «E se non fosse che da quel precinto / più che da l’altro era la costa corta, / non so di lui, ma io sare’ ben vinto».
cxxxvii. [1]Alla medesima maniera che l’essere, fu alcune volte adoperato il volere: Bocc. n. 1 [49] «Egli sono state assai volte il dì che io vorrei [cioè havrei voluto] più tosto essere stato morto che vivo»; M. Vill. l. 4 c. 39 «Il quale [imperadore], vedendosi in tanta noia di sollicita guardia, fue hora che innanzi vorrebbe essere stato altrove con minore honore».
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[2]Finalmente, quando che sia, di cui o per cui che sia e simili, si sono adoperati dove pareva convenirsi non il sia, ma il fosse; come colà, nov. 88 [23], «Tutto in sé medesimo si rodea, non potendo, delle parole dette dal barattiere, cosa del mondo trarre se non che Biondello, ad instantia di cui che sia, si faceva beffe di lui».
Vo’ e vuo’.
cxxxviii. [1]Vo’ e vuo’ sono accorciamenti usati da alcuni al contrario di quello che a ragion si dee; peroché diranno «Io vuo’ fare» e «Che vo’ tu dire?»; ond’è che togliendosi l’accorciamento, verrebbe a scriversi intero «Io vuoglio fare» e «Che voi tu dire?» Si dee dunque scrivere «Io vo’» e «Tu vuo’», quello troncato da voglio e questo da vuoi. [2]Vuol nondimeno sapersi che il Barberino ne’ suoi Documenti usò indifferentemente vo’ e vuo’ per lo medesimo voglio, ma per quanto a me ne paia non è da volersi imitare.
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Proprietà de’ preteriti della prima maniera de’ verbi.
cxxxix. [1]I preteriti de’ verbi della prima maniera han privilegio di poter gittare le due lettere at che vanno innanzi all’o, ultima loro vocale, e così tronchi adoperarsi il più delle volte con maggior gratia che se fossero interi. [2]Non è però che in tutti siano l’at quelle due che si gittano, né che altra mutatione si faccia che unir la prima all’ultima parte, trattane quella di mezzo; peroché, come si vedrà qui avanti, rizzare e dirizzare gittano altre lettere e raddoppiano il t, come altresì fanno asciugare e rasciugare, e se altri ve ne sono che habbiano particolare eccettuatione. [3]Hor eccone in abbondanza esempi, non de’ preteriti solamente, ma de’ participi che se ne formano, e soli e uniti con altri tempi; non perché tanti in verità ne bisognino, ma perché fra essi ve ne havrà per avvventura alcuno o nuovo a intendere, o utile a sapere.
[4]Lacerato: Cresc. l. 5 c. 19 «Dalla parte di sotto infrante e lacere».
[5]Dimesticato: M. Vill. l. 3 c. 78 «Il popolo lieve e dimestico al giogo».
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[6]Dimenticato: G. Vill. l. 12 c. 108 «Quale Fiorentino etc. puote esser dimentico della etc.».
[7]Valicato: G. Vill. l. 8 c. 75 «Haveano valico il fosso».
[8]Osato: M. Vill. l. 9 c. 85 «Or dunque posate mortali, e non siate troppo osi».
[9]Ritoccato: M. Vill. l. 9 c. 107 «Essendo alcune volte ritocca».
[10]Praticato: M. Vill. l. 3 c. 30 «Havendo assai pratico sopra i patti».
[11]Guastato: N. ant. 27 «L’huomo che era giudicato ad essere dishonorato e guasto».
[12]Lessato: Bocc. n. 61 [13] «Fece portare in una tovagliuola bianca i due capponi lessi».
[13]Usato: Bocc. n. 1 [41] «Uso era di digiunare»; n. 16 [13] «Dove di piangere e di dolersi era usa».
[14]Racchetato: M. Vill. l. 9 c. 38 «E raccheto la furia e il bollore» (quivi raccheto è sesto caso assoluto).
[15]Acconciato: Bocc. n. 49 [26] «Il fe’, pelato e acconcio, mettere in uno schidone».
[16]Adornato: Bocc. n. 69 [6] «Un giovinetto adorno».
[17]Tritato: Bocc. n. 77 [29] «Una carola trita a un suon d’un batter di denti».
[18]Troncato: Inf. 9 [14] «Traheva la parola tronca».
[19]Logorato: M. Vill. l. 9 c. 100 «Il quale fu prima logoro e stribuito».
[20]Rifermato: G. Vill. l. 12 c. 18 «Rifermi furono gli ordini».
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[21]Calpestato: Cresc. l. 9 c. 77 «Quegli che son calpesti dalle madri».
[22]Toccato: Bocc. Filoc. l. 7 n. 394 «Le pietre senza esser tocche si spezzarono in molte parti».
[23]Cercato: Bocc. n. 67 [6] «Di quanto mondo havea cerco».
[24]Rivoltato (se non è da rivolgere): Bocc. n. 51 princ. [Intr. 8] «Alla Reina rivolta disse».
[25]Sgombrato: M. Vill. l. 10 c. 17 «Le terre trovarono afforzate, e sgombro il paese».
[26]Vendicato: Bocc. n. 26 [48] «Se io non mi veggo vendica di ciò che fatto ne hai».
[27]Destato: Bocc. n. 40 [24] «Dormo io o son desto?».
[28]Privato: Petr. son. 62 [82 7-8] «Ove di spirto priva / sia la carne».
[29]Cassato: M. Vill. l. 9 c. 26 «Gente cassa dal Legato»; l. 10 c. 17 «I soldati cassi nel paese di là».
[30]Fermato: Cresc. l. 2 c. 21 «Del Mese di Settembre, quando il tempo è fermo».
[31]Racconciato: Bocc. n. 77 [140] «Salì su per la scala già presso che racconcia dal lavoratore».
[32]Confessato: Inf. 27 [83] «E pentuto e confesso mi rendei».
[33]Urtato: Inf. 26 [45] «Caduto sarei giù sanza esser urto».
[34]Raccontato: M. Vill. l. 6 c. 24 «Havendo racconto etc.».
[35]Rizzato: M. Vill. l. 5 c. 12 «La battaglia fu ordinata e le forche ritte».
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[36]Drizzato: Inf. 10 [32] «Vedi là Farinata che s’è dritto».
[37]Asciugato: Petr. canz. 7 [30 9] «Quando havrò queto il core, asciutti gli occhi».
[38]Rasciugato: Bocc. n. 16 [15] «Non essendosi ancora del nuovo parto rasciutto il latte etc.»
Invidiare.
cxl. [1]È paruto ad alcuni che il verbo invidiare non possa dirittamente voltarsi contro a quello a cui si porta invidia, ma solo alle cose che gli s’invidiano, non dicendo «Io invidio alcuno per alcuna cosa» o «d’alcuna cosa», «Invidio i savi, i santi etc.», ma «Invidio alcuna cosa ad alcuno». [2]Così il Petrarca, son. 161 [193 2] «Ambrosia e nettar non invidio a Giove»; G. Vill. l. 4 c. 20 «Alcuni che invidiavano i suoi felici avvenimenti»; M. Vill. l. 3 c. 95 «Invidiavano il suo grande stato»; e così veramente si è usato di scrivere. [3]Che se il bene che altrui s’invidia non s’esprime, han detto più tosto «Invidiare ad alcuno» che «Invidiare alcuno»; come fe’ Dante, Par. 17 [97] «Non vo’ però che a tuo’ vicini invidie», ponendo non in quarto, ma in terzo caso l’invidiato. [4]Pur altra forma adoperò G. Villani, dicendo, l. 1 c. 38, che Pompeo e altri «s’invidiavan con Cesare»; e il Boccacci, Filoc. l. 7 n. 390, parlando di Christo il disse «da’ Giudei invidiato»; e il Davanzati, nella Scisma d’Inghilterra, «Lui, governante il tutto, invidiavano».
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Fiorenza.
cxli. [1]Fiorenza, a chi non piace né vuol che sia ben detto, cominci a spianarla nella prima carta del Decamerone e da tante altre della Commedia di Dante e de’ Malespini, etc. [2]Pur disse G. Vill. l. 1 c. 38 ch’ella «per lo lungo uso del volgare [di Floria] fu nominata Fiorenza»; e il Bocc. Amet. f. 89 «Io per eterno nome le dono Fiorenza: questo le sia immutabile e perpetuo infino ne gli ultimi secoli». Vero è che più communemente si è detto Firenze.
Niente, nulla, niuno, veruno, non dopo né senza mutatione di senso.
cxlii. [1]In nostra lingua il niente e il nulla si spendono per ‘qualche cosa’, e il niuno e il nullo pur vagliono per ‘alcuno’. [2]Così ben dissero Pass. f. 374 «Ciascuno che ha niente d’intendimento»; Bocc. n. 36
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[17] «Subitamente corsi a cercarmi il lato, se niente v’havessi»; n. 83 [11] «Buffalmacco gli si fece incontro, e salutandolo il domandò se egli si sentisse niente»; e quivi appresso «Potrebbe egli esser ch’io havessi nulla?»; n. 15 [36] «Mostrasse se egli volesse nulla»; [3]N. ant. 21 «Trovossi in Melano niuno che contradiasse alla potestade?»; Bocc. n. 36 [30] «Se la tua anima hora le mie lagrime vede, o niun conoscimento dopo la morte di quella rimane a’ corpi»; n. 56 [8] «Se egli ce n’è niuno che voglia metter su una cena»; G. Vill. l. 8 c. 101 «Ivi, senza nullo scordante, elessero a Re de’ Romani Arrigo».
[4]Più strano è veruno valere per ‘niuno’. Certi esempi ne apporta il Vocabolario, ma non sì veri che in essi il veruno non si possa mutare in alcuno; ciò che non può avvenire in questo del Cresc. l. 3 c. 7 «Ma del Mese di Maggio in verun modo si tocchino le granora», cioè ‘in niun modo’, e tanto propriamente che non vi cape alcuno.
cxliii. [1]Al contrario pur de’ Latini, la particella non aggiunta alla né il più delle volte non ne altera il senso, né le dà né le toglie punto niente. [2]Veggasi chiaro ne’ seguenti esempi: N. ant. 62 «Né già mai non feci né dissi cosa etc.»; Bocc. n. 12 [12] «Né già mai non mi avvenne»; G. Vill. l. 2 c. 12 «Né poi non fu nullo
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Imperadore Francesco»; l. 6 c. 36 «Non volle entrare in Firenze, né mai non v’era entrato»; l. 7 c. 14 «Non eran combattuti, né forza di nemici non era loro incontro»; c. 15 «Né per lusinghe né per minacce non poterono rientrar dentro»; l. 10 c. 35 «Molti isbigottirono, né già però non mandarono per soccorso al Duca etc.». [3]D’un’altra innocente maniera d’adoperare la particella non ragioneremo più sotto.
Tristezza per malinconia.
cxliv. [1]I savi in Ragion Grammaticale, l. tristitia ff. De verborum significatione, distinguono sottilmente fra tristitia e tristezza: tristitia, dicono, è malinconia, tristezza è malitia, sceleratezza, malvagità. [2]E ciò secondo essi è proprio sol di queste due voci significanti l’astratto; che s’elle si congiungono col suggetto e se ne forma un tristo, la povertà della lingua, che ha più cose che vocaboli, consente che sotto questo nome si comprenda così il malinconico come il malvagio. [3]Ma se tristezza è sempre malitia, buon per i malitiosi che hanno il più soave rimedio che sia per
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purgarsene l’animo: peroché il vino beuto, dice il Crescenzi, l. 4 c. ult., «È del cuore confortativo e l’anima letifica. La tristezza e angoscia caccia, imperoché mondifica il sangue»; ma sia vin sottile, odoroso e di molto spirito, altramente, siegue il medesimo autore, il grave e il morto «genera sangue grosso e fummo torbido e oscuro, e imperò si fa cagion di tristezza». [4]Fazio anch’egli, nel suo Dittamondo, l. 5 c. 25, insegna un non so che altro che «da ira e da tristezza l’huom difende».
Bandire e sbandire.
cxlv. [1]Bandire è ‘publicare’, non ‘mandare in bando’, che si dice sbandire o sbandeggiare; e l’esiliato è sbandito o sbandeggiato, non bandito solamente, cioè ‘publicato’. [2]Bando però vale altrettanto che esilio. Pur M. Villani, e altrove nella sua Cronaca, e l. 3 c. 77, disse, come pare in sentimento d’‘esiliato’, «Fece decreto che chi non pagasse fosse bandito». [3]Ma nell’Ariosto è indubitato in questi versi, c. 3 st. 11, «Che dal ciel lo bandisca o che ve l’erga», c. 27 st. 4 «E la malignità dal ciel bandita», c. 37 st. 105 etc.
Certa terminatione de’ nomi di maschio usata in genere feminile.
cxlvi. [1]La terminatione de’ nomi in ore, come vincitore, liberatore, amadore, conservadore e simili, che è propria o commune de’ maschi, pur si è tal volta usata etiandio ragionando di femine. [2]Così della valente guerriera Madonna Cia disse M. Vill. l. 7 c. 64 «Ella
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sola rimase guidatore della guerra e Capitana di soldati»; e della contessa di Torena, il medesimo, l. 3 c. 2, ch’ella era «governatore del Papa»; e lo spirito che parlò col Boccacci nel Lab. n. 187 della già sua malvagia e rissosa moglie, disse «Né mai in tal battaglia, se non vincitore, pose giù l’arme».
Se all’infinito si debba il primo o il quarto caso.
cxlvii. [1]L’infinito, per quanto io vegga, non è obligato né al primo, come alcuni vorrebbono, né al quarto caso: ma l’uno e l’altro riceve come dovutogli, tanto sol che si faccia con maniera discreta, cioè per modo che non suoni un non so che duramente a gli orecchi, come per avventura sarà dicendo «Converrebbe me essere laudatore», «Conoscerai te non dover ciò fare»; che sono testi che si allegano in esempio, tratti da alcune delle men pregiate opere del Boccacci, e ve ne ha di molti altri. [2]Hor come che meglio stia, dove il quarto e tal volta il primo caso rende un cotal dire poco piacevole, adoperare altro tempo e altro modo conveninente in vece dell’infinito, come ne’ testi soprallegati, dicendo «Converrebbe ch’io fossi laudatore» e «Conoscerai che tu non dei ciò fare», pur non si vuole per ciò sbandire il quarto caso
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ov’egli sia ben collocato, come certo può farsi a suo tempo e luogo, non che senza sentirne durezza, ma etiandio con gratia. [3]Non è già che se ne possa prescrivere altra regola che quella commune del buon giudicio; cui chi non ha, gli avvien quel medesimo che a certi altri che nascono con orecchi tanto disarmonici e stemperati, che non conoscono differenza di suon dolce o aspro fra le seconde e le settime e le quinte e le ottave. [4]Per ciò qui a me non rimane altro che provar l’uso del quarto caso all’infinito, recandone a sufficienza esempi.
[5]Ma prima, e affinché dalla comparatione si vegga in che meglio o peggio suoni l’un che l’altro, come a ciascun ne parrà, anzi ancora per non so che che vi si vuol osservare, poniam qui alcuni testi dell’infinito havente il primo caso: Bocc. n. 38 [13] «Non del non volere egli andare a Parigi, ma etc.»; n. 41 [52] «Se Hormisda non la prendesse, doverla haver egli»; n. 42 [7] «Non bastandogli d’esser egli e’ suoi compagni divenuti ricchissimi»; n. 49 [16] «Seco dispose etc. di non mandare, ma di andare ella medesima per esso»; n. 69 [10] «Deliberai di non volere, se la fortuna m’è stata poco amica, essere io nemica di me medesima». [6]Che tutti sono ottimamente detti, percioché il primo caso è posposto all’infinito e così trop-
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po meglio sta (per accidente, non per natura, come hor hora vedremo) che antiponendosi, ma con quello sconcio sentir che farebbe «Credevano io saper cantare», «Sapranno tu essere lor nemico», e per istar su gli esempi qui sopra allegati, «Seco dispose di non mandare, ma di ella medesima andare», «Deliberai di non volere io essere nemica di me medesima». [7]Ma percioché non tutte le volte che il primo caso si antipone all’infinito egli genera questa durezza, a conoscerne in qualche maniera il quando e il perché, pare a me che si voglia haver l’occhio al verbo o alla voce antecedente: che se il primo caso (ciò che altresì è vero del quarto) s’accorderà seco per modo ch’egli paia suo, in quanto, se si tacesse l’infinito, il verbo antecedente e il detto caso seguente non farebbono un solecismo, la costruttione verrà ben ordinata e havrà buon garbo. [8]Come nel primo esempio, «Credevano io saper cantare», quel credevano e quell’io son troppo fra loro dissonanti, non perché in questo luogo debbano accordarsi, ma il fa la vicinanza, e quel non so che materiale di solecismo che rappresentano. [9]E che sia vero, se noi diremo «Credevami io saper cantare», percioché quel credevami vuole il primo caso, quell’io, comunque si voglia che sia caso dell’infinito seguente, non dispiace a sentirlo. [10]E dell’altro, «Sapranno tu essere loro nemico», chi non vede che per la
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medesima cagione sarà più naturalmente detto «Sapranno te essere loro nemico»? [11]E ciò sol per rispetto del verbo antecedente, a cui sì come sarebbe fallo in grammatica dare il primo caso, così ha non poco dello strano, come avvien delle cose che si ripugnano insieme, il pur metterglielo appresso. [12]E con questa osservatione, di che più cose dir si potrebbono, pare a me che s’habbia con che giudicare almeno il più delle volte dove più acconciamente si dia il primo e dove il quarto caso all’infinito, e dove l’uno e l’altro antiporre o posporre si debbano, allontanandoli o no dal verbo antecedente, sì come poco o molto o nulla con esso s’accordano.
[13]Hor quanto a gli esempi dell’infinito havente il quarto caso: Bocc. n. 13 [6] «Altri affermano lui essere stato de gli Agolanti»; n. 14 [27] «Landolfo sciolse il suo sacchetto e, con più diligenza cercato ogni cosa che prima fatto non havea, trovò sé havere tante e sì fatte pietre etc.»; n. 25 [6] «Essendo ad ogni huomo publico lui vagheggiare etc.»; n. 36 [9] «Gabriotto seppe sé essere amato»; n. 84 [23] «Se ne tornò per tutto dicendo sé il palafreno e i panni haver vinti all’Angiulieri»; n. 42 [37] «Le disse sé desiderare d’andare a Tunisi»; n. 36 [10] «Alla giovane una notte dormendo parve in sogno sé essere nel suo giardino»; e quivi appresso «Poiché pur s’accorse lui del tutto esser morto»; n. 44 [45] «Gli fece dire sé essere apparecchiato a far ciò che etc.»; n. 89 [5] «Ogni ragion vuole lui dover essere obediente»; Lab. n. 27 «Conobbi me dal mio volato essere stato lasciato in
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una solitudine deserta etc.». [14]E per non multiplicar soverchio in esempi, ve ne ha in tanto numero che non so come altri si sia condotto a scrivere che il quarto caso è forte strano all’infinito in vece del primo, ch’è, dice, suo naturale. [15]Ma la ragione o l’uso che se ne voglia attendere, si troverà che amendue vanno almeno del pari.
L’havere o l’essere taciuti dove il verbo il richiederebbe.
cxlviii. [1]Ove si vogliano adoperare due verbi di tal natura che l’un d’essi richiegga d’accompagnarsi con l’havere e l’altro con l’essere, non è bisogno esprimerli amendue, ma si può tacere per esempio l’essere, come se l’uno e l’altro si reggessero con l’havere: [2]Bocc. n. 465 [25] «Havrebbe la confessione abbandonata e andatosene», cioè ‘se ne sarebbe andato’; G. Vill. l. 9 c. 15 «Se allora havesse lasciato l’assedio di Brescia e venuto in Toscana, egli havea a queto Bologna», cioè ‘se fosse venuto in Toscana’; M. Vill. l. 5 c. 39 «Lo ’mperadore di presente si sarebbe partito, e abbandonato ogni cosa per gran paura etc. ma temeva etc.», cioè ‘havrebbe abbandonato ogni cosa’; l. 9 c. 20 «Sempre si è opposto a’ tiranni e disfattine molti», cioè ‘ne ha disfatti molti’; Cresc. l. 2 c. 21 «Adunque le salvatiche piante, alle quali il seminatore non sarà andato né coltivatole, così ne ’nsegnano», cioè ‘né le avrà coltivate’.
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Ci e vi avverbio.
cxlix. [1]I due piccioli avverbi che son di luogo, ci e vi, hanno ciascuno d’essi il suo proprio significato, ch’è di mostrare ci il presente e vi il lontano; né si debbon confondere usando l’uno ove l’altro è richiesto, come si farebbe dicendosi «Io qui non posso venirvi» e «Colà non voglio andarci», facendo il colà presente e il qui lontano. [2]Del luogo dunque ove siamo o di cui ragioniamo come di presente diremo alla maniera che il Boccacci fa dire a Pampinea nell’Introduttione delle novelle: «Diranno esserne qui alcune che, non essendoci, sarebbe stato meglio»; e di vi ecco il medesimo, n. 28 [52], dove il bolognese parla di questo mondo a Ferondo, che si credeva esser morto e nell’altra vita: «Di questo ti dovevi tu avvedere mentre eri di là et ammendartene; e se egli adiviene che tu mai vi torni, fa che tu habbi etc.»; n. 13 [27], dove l’hoste parla con Alessandro di certi granai: «L’opera [dice] sta pur così, e tu puoi se tu vuogli quivi stare il meglio del mondo. Io vi ti porrò chetamente una coltricetta e dormiviti».
[3]Vero è che, come dovendosi manifestamente distinguere il presente e il lontano, error sarebbe l’usar per quello il vi e per quest’altro il ci, così dove cotal espressione non è tanto strettamente richiesta al bisogno della materia, questi avverbi si truovano assai delle volte posti senza mistero. [4]E per non multiplicare in esempi, che a gran numero se ne potrebbono
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allegare, basterà la sola nov. 43 [24]: «Disse allora la giovane: – E come ci sono habitanze presso da potere albergare? – A cui il buono huomo rispose: – Non ci sono in niun luogo sì presso che tu di giorno vi potessi andare»; e quivi appresso: [32] «Furono alla porta della piccola casa. e fattosi aprire etc. domandarono chi vi fosse. Il buon huomo rispose: – Niuna persona ci è altro che noi». [5]Dal qual testo ancora s’intende che non è osservatione provata quella d’alcuni che al moto danno per regola il vi e allo stato il ci, poiché qui sopra col medesimo verbo essere l’uno e l’altro si accompagna; sì come altresì col venire: n. 36 [11] «Volendo Gabriotto venir da lei [l’Andrevuola] s’ingegnò di fare che la sera non vi venisse»; dove poi Gabriotto: [14] «Se fossi voluto [dice] andar dietro a’ sogni, io non ci sarei venuto».
Mal uso d’alcune terminationi e tempi de’ verbi.
cl. [1]Ogni lingua, per eccellente che sia, pur nondimeno ha i suoi falli o i suoi vezzi che vogliam dirli: qualche stravolgimento di sillabe, qualche costruttione falsa o stroppiamento di voci o termination fuor di regola, e che so io. Se non che communemente sono nel parlar vivo e nel popolo, e non è per ciò che non siano da notare per ischifarsi, se non forse da quegli che per le cagioni altrove accennate studiosamente gli affettano. [2]Ad essi dunque si lasci il dire io sarebbi, io vorrebbi, io crederebbi e simili, in vece di sarei, vorrei, crederei etc.
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[3]Se voi volessi, se voi credessi, e se andassivo, se temessivo e sentissivo etc. per se voleste, se credeste, andaste etc.
[4]Voi amavi, voi credevi, voi vedevi, voi sentivi, in luogo di voi amavate, credevate, vedevate, sentivate etc., avvegnaché di questo pur si legga un qualche tre o quattro esempi ne gli antichissimi.
[5]E amono e amavono, cercono e cercavono, guardono e guardavono etc., ponendo l’o delle tre altre maniere de’ verbi in luogo dell’a ch’è proprio della prima; sì come al contrario, questo in vece di quello, ove dicono credano, temano, odano per voci dell’indicativo presente, come fossero della prima maniera, in vece di credono, temono, odono etc.
[6]Questo altresì è di molti, e de’ riporsi nel medesimo fascio: noi vissimo, strinsimo, dissimo, vidimo, hebbimo, stettimo, lessimo, diedimo etc. in luogo di
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noi vivemmo, dicemmo, vedemmo, stemmo etc., come costantemente si è detto da’ buoni scrittori, che non formarono questa voce aggiungendo mo alla terza del singolare, e di vissi, strinsi, dissi etc. facendo vissimo, strinsimo, dissimo etc., ma serbando fedelmente in ciascuna l’e che chiaman verbale, di cui molte cose ragionano i grammatici.
[7]Il dir poi voi m’amasti, voi mi dicesti, voi l’uccidesti, voi mi promettesti etc. ha veramente esempi, e non pochi se ne truovano nel famoso Decamerone del Mannelli; ma già più non è in uso, e diciamo voi m’amaste, l’uccideste, mi prometteste etc.
[8]Fra queste o ree o mal buone non si voglion contare certe altre terminationi d’alcuni tempi de’ verbi state già molto in uso e pure anche hora da buoni scrittori, qual più e qual meno, adoperate. Come il dire nella terza persona plurale del primo preterito dimostrativo
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languiéno, copriéno, moriéno, che si leggono nel principio del Decamerone in vece di languivano, coprivano, morivano. [9]E al medesimo modo potiéno, haviéno, moviéno, veniéno, serviéno etc. per potevano, havevano, movevano etc. [10]E questa, ch’è d’altro tempo, siéno, diéno per siano e diano. [11]E sariéno, havriéno, potriéno, dovriéno etc. per sarebbono, havrebbono, potrebbono, dovrebbono, o come altresì possiam dire sarebbero, havrebbero, potrebbero etc.
[12]Puossi ancora finire la terza plurale del secondo preterito del dimostrativo in tre modi: in ero, in eno e in ono; risero, riseno, risono; piansero, pianseno, piansono; dissero, disseno, dissono etc. Hoggidì la prima è più in uso dell’altre due, chi de gli antichi hebbe più frequentemente alla penna l’una e chi l’altra, e tutte sono ottime.
Porta e uscio.
cli. [1]Il Vocabolario, alla voce porta, dice così: «L’apertura per dove s’entra ed esce nelle città o terre murate, o ne’ principali edifici come palagi, chiese e simili». [2]L’uscio poi, nel medesimo, è «apertura che si
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fa nelle case per uso d’entrare o uscire». [3]Sopra le quali definitioni alcuni sottilissimi osservatori delle proprietà d’ogni voce insegnano che gran fallo in architettura commette chi chiama porta l’uscio d’una casa privata, e uscio la porta d’alcun publico e grande edificio. [4]Se ciò è vero, io fo croce delle braccia e loro mi rendo a discretione, come già al Trissini quel convinto d’haver più volte adoperato l’omicron per l’omega, ed e converso. [5]Ma avanti di me si presenti a dimandar mercé del medesimo fallo il volgarizzatore di Pier Crescenzi, il quale, l. 1 c. 5, chiamò porte gli usci delle case villesche; anzi, lui e me insieme difenda il Boccacci, leggendo in voce alta quel testo della nov. 43 ove dice: [32] «Et appena di nasconder compiuta s’era, che coloro che una gran brigata di malvagi huomini era, furono alla porta della piccola casa»; anzi della casetta, come poco avanti l’havea chiamata. [6]Ma che porta e uscio indifferentemente s’adoperi, ne sia testimonio questo medesimo autore, che indifferentemente l’adoperò: n. 32 [28] «Allora disse Alberto: – Hor fate che egli truovi la porta della vostra casa per modo ch’egli possa entrarci, percioché vegnendo in corpo humano, come egli verrà, non potrebbe entrare se non per l’uscio». [7]Il qual testo dimostra quanto sia vero quel che altri dicono, uscio essere quel che chiude, porta l’apertura che si chiude. Se ciò fosse, Alberto non entrerebbe per l’uscio, ma per la porta; e
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n. 38 [28], della casa di Girolamo, «Si levò su et acceso un lume, il morto corpo de’ suoi panni medesimi rivestito, senza alcun indugio, aiutandola la sua innocenza, levatoselo in su le spalle, alla porta della casa di lui nel portò e quivi il pose e lasciollo stare. Et venuto il giorno, et veduto costui d’avanti all’uscio suo morto, fu fatto il rumor grande». Così egli. [8]Hor se questo era palagio, eccolo con l’uscio; se casa ordinaria, eccola con la porta. [9]Aggiungasi G. Villani, che della basilica di San Pietro di Roma scrive così, l. 4 c. 14: «Ciò ordinato e fatte chiuder le porte della chiesa di San Pietro e serrare, subitamente venne un turbico con un vento impetuoso e forte, il quale per gran forza levò l’uscia delle reggi San Pietro e portolle dentro il coro».
Battaglia di due, compianto d’un solo.
clii. [1]«Far battaglia» si truova detto di soli due che combattano, e compiagnere e compianto d’un solo che pianga o si lamenti, nella maniera che Livio disse: «Movet iuvenis [Horatii] animum comploratio sororis».
[2]Quanto al primo: M. Vill. l. 7 c. 22 tit. «Battaglia fra due cavalieri»; e seguendo, «S’appellarono a battaglia [cioè ‘a duello’] un Guascone e uno Inglese».
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[3]Quanto all’altro: G. Vill. l. 7 c. 62 tit. «Come lo Re Carlo si compianse alla Chiesa»; e quivi appresso: «Per simile modo si compianse lo Re Carlo per lettere e Ambasciadori al Re di Francia»; N. ant. 62 «Malvagio cavaliere disleale, io t’ho fatto qui venire per potermi compiangere a te medesimo del tuo gran misfatto»; e n. 22 «Il poltrone venne, fu dinanzi allo ’mperadore, fece il compianto del suo barlione»; e n. 99 «E allora ricomincia da capo lo grande compianto e dice etc.». [4]Somigliante a compiagnersi è condolersi quanto all’usarsi d’un solo: Bocc. n. 17 [64] «E forte di ciò condogliendosi [la moglie del duca d’Atene]».
Verbi indifferenti a ricevere il secondo e ’l sesto caso.
cliii. [1]Fra le regole false che si son date sopra ’l congiungere i verbi co’ lor propri casi, una si è che, almeno a quegli la cui natura è di significare ‘separatione, staccamento, divisione’ etc., sempre si dia il secondo caso e non mai il sesto. [2]Chiedetene la ragione, ella è tutta alcuni testi che ne citano in esempio, ma tacciono que’ del contrario, peroché trattone il verbo uscire, di cui si è ragionato più addietro, i buoni scrittori a tutti gli altri di questo genere han dato indifferentemente hora il secondo hora il sesto caso, avvegnaché chi più l’un che l’altro, non perché il verbo di sua natura il richiegga, ma per loro uso. [3]E v’ha in ciascuno autore da farne un così gran fascio d’esempi, che triste le spalle di chi havesse a portarli. Io qui ne addurrò certi pochi, più per non tacer di tutti che per bisogno che vi sia d’apportarne niuno: [4]Bocc. n. 31 [Intr. 44] «Cacciati haveva il sole del cielo già ogni stella, e dalla terra l’humida ombra della notte»; n. 1
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[4] «È da credere che discenda dalla tua benignità»; n. 43 tit. [1] «Dalle mani de’ ladroni fugge»; n. 60 [32] «Il quale, poiché dalla cucina si fu divelto»; Fiamm. l. 7 [ma Concl.] n. 65 «Tratto dalla sepoltura»; [5]Pass. f. 118 «Discende dal capo nelle membra»; Cresc. l. 1 c. 5 «Quello che discende da’ loro capi allo stomaco»; c. 7 «Poiché saran levate dalla terra»; M. Vill. l. 2 c. 55 «Scesono dall’Alpe e da monte Carelli»; Cresc. l. 10 c. 35 «Una noce tratta dal guscio»; l. 2 c. 1 «Trae dalla parte di sotto la materia etc.».
Ogni e qualunque come bene o male si diano al plurale.
cliv. [1]Se la particella ogni si possa apostrofare, contra il volere di chi sì costantemente gliel niega, etiandio innanzi a voce principiata da i, talché così necessario sia scrivere «ogni ingegno» come «ogni arte», «ogni erba», «ogni opera», ne ho discorso più avanti. [2]Qui è da vedere s’ella si possa congiungere col plurale; al che rispondono concordemente che no, e mal si dirà «ogni huomini», «ogni persone», «ogni tempi», «ogni cose».
[3]Hor che direm d’Ogni santi, in quanto è voce usata a significare il primo dì di novembre, in cui ogni anno festeggiam la memoria di tutti insieme i santi? [4]G. Villani, l. 11 c. 1, il chiama «Il dì della Tu Santi», e vuol dire ‘di tutti e santi’, ch’è uno de gl’innumerabili storpiamenti che in questo autore e ne gli altri antichi si leggono,
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massimamente de’ nomi propri. [5]Così la storlomia, le orlique, San Ghirigoro, papa Chimento etc. per astronomia, reliquie, Gregorio, Clemente, e mille altri. [6]Hor questo benedetto Ogni santi ha dato assai che pensare a un gran maestro del puro e regolato parlar toscano, e a dimostrare che un così sozzo mostro, com’è un solecismo, non sia nato in Firenze, ma portatovi altronde dall’ignoranza de’ copiatori, dice che dove il Decameron del ’73, nella Giletta di Narbona, ch’è la nov. 29, legge «E sentendo lui il dì d’Ogni Santi in Rossiglione dover fare una gran festa etc.», nel fedelissimo Decameron del Mannelli leggersi Ognissanti; e così veramente doversi, scrivendo la s non semplice, ma raddoppiata, e per conseguente una sola parola, non due: nel qual sol modo Ogni santi è solecismo.
[7]La specolatione è sottile anzi che no, e sente un non so che del filosofico, in quanto va coll’opinion di coloro che, contro al sentire de’ medici, insegnavano gli elementi ne’ corpi misti che di lor si compongono non trovarsi nelle proprie lor forme in sustanza, ma sol rimanervene le qualità; e altrettanto avvien delle voci ogni e santi: che in comporsene Ognissanti, quel-
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l’ogni perde il suo essere e si trasforma in un’altra cosa che più non è lui. [8]Né stiate a dire che nella virtù del significare (la quale è tutto l’essere delle voci in quanto segni) tanto vale Ognissanti quanto Ogni santi, perché vi si risponderà che vi corre fra mezzo una differenza grande quanto Iddio vel dica per essi: ed è che per Ogni santi s’intendono ‘tutti e santi’, e il così favellare è fallo di lingua, dove Ognissanti significa la solennità o la Chiesa di tutti i santi, ed è ottimamente detto. [9]Questo è un gran mistero, e traggasi avanti l’un di voi che l’intendete. [10]Ben intendo io quest’altro, che il Boccacci, oltre alla sopracitata nov. 29, ha nella nov. 79 [99] «Il prato d’Ogni santi», e che quanto all’essersi dato ogni al plurale, non v’è raccomandarsi che giovi ad Ognissanti negli esempi che sieguono: Bocc. Fiamm. l. 7 n. 3 «Compensata ogni cosa de gli altrui affanni, li miei ogni altri trapassare di gran lunga deliberai»; G. Vill. l. 12 c. 20 «Infino alle lastre del tetto e ogni vili cose non che le care ne fu portato»; e prima d’amendue, Brunetto nella Rettorica [41r] «Convenevoli d’ogni parti». [11]E se vogliam dirlo scorrettione di stampa, eccone indubitata la rima del Tesoretto: [f. 41] «Si diventa usoriere / et in ogni maniere / raccolge suoi danari».
clv. [1]Qualunque più regolatamente che ogni potrà darsi al plurale. [2]Testimonio Dante nel Convivio, f. 26, «Qualunque altri vivono»; il Boccacci nella Fiamm., l. 3 n. 15 «Trapassando ancora qualunque donne si sieno»; Filoc. l. 6 n. 267 «O qualunque cava-
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lieri che intorno al misero dimorate»; il Crescenzi, l. 2 c. 4 «E imperò qualunque son calde», e quivi appresso «Qualunque son morbide»; e l. 11 c. 16 «Qualunque piante son calde etc.». Truovo ancora qualche dato al plurale dal Petrarca, canz. 37 [237 32] «Addormentato in qualche verdi boschi».
Nomi composti d’acqua o derivatine.
clvi. [1]Varrommi anch’io della medesima proprietà de’ composti a difendere come regolatamente scritto Ridolfo e Claudio Aquaviva, che sovente mi vengono alla penna, lasciandone la c dovuta alla voce acqua onde quel cognome si forma, e perciò v’ha chi stima doverlesi. [2]Il che quando sia, dovrà prima correggersi G. Villani, il quale, l. 11 c. 2, ha ben sei delle volte aquatico e aquoso. E in quel medesimo capo, e l. 12 c. 40, e M. Vill. l. 1 c. 2, e Dante, Inf. 24 [2], i quali hanno Aquario, uno de’ dodici segni dello Zodiaco; né truovo che si scriva altrimenti. [3]Molto più poi Casa d’Aquino, o ch’ella si derivi dall’acqua o no; e così l’ha G. Vill. l. 7 c. 5. [4]Ma per dire più propriamente dell’Aquaviva, io mi rendo a chi la vuole espressa con quella sua, per così nominarla, primigenia consonante dell’acqua, tanto sol ch’egli mi dica perché G. Vill. l. 7 c. 101 habbia potuto scrivere Aquamorta, che ivi chiaro si legge, ed io debba scrivere Acquaviva.
Varietà lecita in moltissime voci e maniere.
clvii. [1]La varietà, ancor nella lingua, è bellezza che la rende più amabile e più seguitata: peroché come
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vari sono i gusti degli huomini, e a chi piace l’un modo e non l’altro, e a chi questo e non quello, potendosi dire il medesimo variamente, ciascuno, appigliandosi a quel che gli piace, ha di che contentarsi. [2]Parlo del già ricevuto a’ nostri dì, ne’ quali non sono da risuscitare quelle antiche e già fracide o sien voci o maniere che l’uso ha fin da più d’un secolo sepellite e dimentiche. [3]Vero è che a dirne interamente, dimostrando in ciascun genere tutto il variare che lecitamente può farvisi, bisognerebbe troppo più di fatica e di tempo che a me non è conceduto: ma l’accennarne questo pochissimo che farò potrà essere di vantaggio al fine che m’ho proposto, di mettere in qualche maggior ritegno la baldanza di coloro che sì presti sono a por mano al non si può. [4]Porrò dunque innanzi alcune delle mille variationi che è lecito fare nelle prime sillabe, nelle mezzane e nelle estreme; poi alcuna cosa de’ verbi e de’ nomi propri; poi, più sotto, nella giunta all’osservatione ccxxxvii, se ne allegheranno parecchi testi di buoni autori in esempio.
[5]E quanto alle prime: v’è un fascio di voci che possono incominciarsi dalla sillaba di o de indifferentemente; e v’ha di quegli che tutte le scrivono alla prima maniera, e di quegli che, tenendosi al latino,
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ond’elle derivano, tutte alla seconda; altri, come lor piace o l’orecchio ne giudica. [6]Tali sono diserto, diposto, disio e disiderio, dimonio, dilicato, dicembre, diposito, dirisione, divoto; e dicollare, dicapitare, diporre, dichinare, diffinire, dinigrare, dinominare, dipopulare, diputare, dirivare, disolare e simili. [7]Aggiungansi dimandare, dimestico etc., che altresì diremo domandare e domestico; quistione e questione etc. [8]Così, per la medesima ragion del latino, obbedienza e ubbidienza, officio e ufficio, che altri scrivono uficio, grave e greve, monasterio e monistero e munistero, divitia e dovitia, virtù e vertù all’antica, sustanza, suggettione etc. e sostanza, soggettione etc., scorpione e scarpione e simili.
[9]Come di e de nelle sopradette voci, così in altre è libero scrivere ri o ra nella prima sillaba, e queste altresì sono molte: ricordare, riportare, ricogliere, rimembrare, riconciliare, riconciare etc. overo raccordare, rapportare, raccogliere, rammembrare etc.; nelle quali vedete che si raddoppia la consonante che siegue, che è forza ordinaria dell’a, sì come al contrario dell’i il
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lasciarle semplici; il che però non è sempre vero, e ben si scrive rinnegare, rinnovare, etc., né v’è ragion che il voglia altro che il così pronuntiarsi per uso, come avviene in molte altre simili differenze.
[10]Per la medesima forza dell’a, dove non vogliamo scrivere divisamente a piè, a fine, a tanto, da poco, a costo etc., converrà scriver dappiè, affine, attanto, dappoco, accosto etc. E similmente contrapporre, contrassegnare, contraddire, contraffare, sopravvivere, soprasseminare, soprassedere; anzi ancora dove entrano le particelle in o accentate, onde scrivono acciocché, imperciocché etc., altri si esentano dal raddoppiare dopo contra, sopra, acciò etc., ed io sono un di loro.
[11]Èvvi ancora fra le voci libere ad alterarsi nella prima lor sillaba, castigare, che si può anco dir gastigare, e Costanza donna e Gostanza; come altresì alcuni per vezzo in vece di cattivo pronuntian gattivo. [12]Dobbre disse Boccacci n. 19 [73], doble G. Villani, l. 7 c. 39; boce e boto è in uso appresso alcuni in luogo di voce e vo-
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to; tuoni è l’ordinario, truoni è di G. Villani l. 12 c. 99; riguardo e risguardo, capretto e cavretto del Crescenzi, e così cavriuolo e capriuolo; diritto e dritto etiandio in prosa; fiso e fisso, o sia nome o avverbio, contra il sentire d’alcuni s’usa ugualmente bene; maraviglia e meraviglia, ma di questa le prose han pochissimi esempi.
[13]La vocale i in molte voci s’aggiunge o per dilicatezza o per vezzo, e può senza niuno sconcio lasciarsi. Così direm tiepido e tepido, brieve e breve, niego e nego, picciolo e piccolo, veggio e veggo, sieguo e se-
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guo, stranio e strano, milia e mila, nieve, nidio, alie e neve, nido, ale, che son più correnti all’uso benché spesso alla mano di Pier Crescenzi.
[14]Così ancor ne’ nomi terminati nel singolare in ia d’una sillaba sola si può lasciar l’i nel plurale, e dirsi, da minaccia, le minacce, ch’è di G. Vill. l. 12 c.3, Dante, Inf. 17 [89]; da lancia, le lance, pur di G. Vill. l. 7 c. 130; da loggia, le logge del medesimo l. 12 c. 8; e per non allungarmi citando ove non fa bisogno, potrem dire le guance, le piogge, le spallacce, le torce, le fogge, le spiagge etc. [15]Ho fatto regola il dover essere l’ia d’una sillaba sola, perché dell’altre non mi sovviene esempio, e per avventura non v’è.
[16]Ancor, nelle sillabe di mezzo molte voci tolerano variatione; eccone alquante in esempio: servidore, imperadore, imperadrice, conservadore e simili, che ben anco si dicono servitore, imperatore, imperatrice, conservatore etc.; balsimo e balsamo del Cresc. l. 9 c. 91; scilocco e scirocco, sciloppo e sciroppo; croniche di G. Vill. l. 1 c. 43 e cronache; debile e debole; possente e potente; coverto e coperto; spelonche e spelunche del Bocc. n. 30 [3]; bollente e bogliente; sfracellare e sfragellare; annonale e annuale; maladittione e maledizio-
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ne di G. Vill. l. 4 c. 29; veleno e veneno del Cresc.; cetra e opra anco in prosa e cetera e opera; e così d’altre.
[17]Le variationi che patiscono le ultime sillabe son molte e in diverse maniere. Gli antichi assai più de’ moderni usaron d’aggiunger de alle terminate in a accentato, e dire volontade, etade, podestade etc., e cechitade quella che con Dante, Conv. f. 46 ben si può dir cecità.
[18]Moltissimi sostantivi che han la terminatione in ero la ricevono altresì in ere. Così pensiero (che che altri si dica, affermando non trovarsene esempio; ed io pur ne ho trovato un gran numero), cavaliero, candeliero, mestiero, tavoliero, nocchiero, consigliero, corriero etc., si diran pensiere, cavaliere, nocchiere, etc.
[19]Altri di genere feminile in vece dell’a finale ricevono l’e, e ben si dice nel singolare arma e arme, scura (cioè mannaia) e scure, beffa e beffe, dota e dote, vesta e veste, macina e macine di Cresc. l. 9 c. 63, progenia e progenie, fronda e fronde, froda e frode, redina e redine ed anco leggera e leggiere; e perciò nel plurale arme e armi, beffe e beffi, fronde e frondi, redine e re-
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dini etc. [20]Tra sorta e sorte ho avvertito non esservi la differenza che vi si fa da alcuni, ma non ne ho notati esempi con che provarlo.
[21]Altri sostantivi terminati in o posson cadere in e nel medesimo singolare, e dirsi fumo e fume, pomo della spada, del bastone etc., e pome, vermo e verme, Tevero e Tevere, interesso e interesse, consorto e consorte. [22]Non mi raccordo d’essermi mai avvenuto in faro, sì come ho memoria di Fare e Co di Fare in G. Vill. l. 7 c. 61, l. 9 c. 102 etc.
[23]La medesima variatione patiscono ancora degli aggettivi come violento, anzi altresì violenta, ond’è in M. Vill. l. 4 c. 62 «La violente rapina»; malo e male, come a dire «il male huomo», «il male stato» che tante volte è negli antichi. [24]Così «oro fine» per fino, lente per lento, ed al contrario celesto per celeste usato da G. Villani.
[25]Il Passavanti dà il più delle volte la terminatione lati-
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na alle voci che l’hanno, come scientia, patientia, coscientia etc., che altri scrivono scienza, patienza, coscienza o conscienza – che l’una e l’altra è buona, testimonio il Boccacci, ancorché ne havesse pochissima.
[26]V’è etiandio chi termina le medesime voci in io e chi in ro: danaio o denaio e danaro, calzolaio e calzolaro, scolaio e scolaro etc., galea e galera.
[27]Degli aggettivi che nel singolare finiscono in co molti ne truovo terminati nel plurale hora in ci, hora in chi; come a dire domestici e domestichi, rustici e rustichi, publici e publichi, aquatici e aquatichi, salvatici e salvatichi, tisici e tisichi. Così anche astrologi e astrolaghi.
[28]Gli avverbi boccone, carpone, tentone, brancolone, rotolone, rampicone, penzolone e che so io altri, li finiscono in i: bocconi, carponi etc.; così anche altra-
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mente e altrimenti, e i nomi calende e calendi, parecchie e parecchi, ale e ali; G. Villani usa dir Marti per Marte pianeta.
[29]Sovviemmi altresì di palagio e palazzo, come pregio e dispregio e prezzo e disprezzo, mica e miga, nerbo e nervo, unghie e ugne, marchio e marco, e pietruzze, herbuzze, insalatuzze etc. per pietrucce, herbucce, insalatucce, e mille altri cotali voci, che gran penitenza sarebbe sceglierle tutte ad una ad una e registrarle.
[30] Del raddoppiare le consonanti non saprei che mi dir certo, tanta è in ciò l’incostanza degli antichi e la
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varietà de’ moderni. [31]Hor si va col latino e si ritengon le doppie dove si truovano, e diciamo anno, terra, gemma, affabile, garrire, opprimere, offuscare, etc.; hor si raddoppian le semplici del latino o del greco che sia, e dicono accademia, cattedra, cattolico, femmina, cammino, fummo, tollerare, Babbilonia etc.; hor gittano l’una delle doppie e dicono uficio, gramatica, comune, comunità, comunione e pratico, e così d’altre. [32]Che regola ce ne danno? Che lo scrivere de’ essere imagine al naturale del pronuntiare. E del pronunciare? Il così volere passato in uso e perciò fatto legge. [33]Dunque è legge solo a chi ne ha l’uso, né si dovrà costringere chi altramente pronuntia, etiandio se di paese di non buona lingua, peroché questi, mettendosi al ben parlare, potran seguire qual più aggrada loro, o la ragione, cioè la regola del latino, o l’uso che le ha prescritto contro. [34]Il medesimo si vuol dire del ritenere o no la n in alcune voci che l’hanno nell’idioma latino, e non si sa perché hor si riceva, hor si cacci. Tali sono instantia, instinto, instituto, instigare, conscienza, constanza, constituire etc., che par più dolce a pronuntiarli costituire, costanza, coscienza, istigare, istituto, istinto etc.
clviii. [1]Vengo hora ad alcune poche varietà lecitamente usate ne’ verbi, le quali per avventura, a chi non sa molto, parrebbono scorrettioni leggendole ne’ testi antichi, o falli trovandole ne’ moderni. [2]Non solamente dunque è ben detto siéno per siano, e sariéno,
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havriéno, dovriéno etc. per sarebbono, havrebbono, dovrebbono o anche sarebbero, havrebbero, dovrebbero che si truova detto; [3]ma siéti per siati, e l’usò Bocc. n. 77 [79], e Cresc. l. 9 c. 86 disse «Siévi dentro sabbione», e Bocc. Fiamm. l. 2 n. 17 sariési per sariasi, diési per diasi, e del Cresc. l. 6 c. 44, l. 9 c. 89; haviélo per havealo è di G. Vill. l. 12 c. 92; «La mia vita fié breve» disse Bocc. n. 18 [57], e n. 51 [12] «Che tu dei sentenza» per dii o dia che altresì può dirsi; [4]merrà è quanto menerà al Cresc. l. 9 c. 97; berrà è ben detto per beverà dal medesimo, l. 6 c. 25, l. 5 c. 19; sarrà per salirà, l. 5 c. 1 etc.; offerrebbe per offerirebbe e così altri ristretti sono del Boccacci e d’altri.
clix. [1]Quanto a’ nomi propri, lasciati gli stroppiamenti che ne fecer gli antichi hoggidì insofferibili a sentire, ne porrò qui alquanti men disusati con la varietà che ricevono dalle buone scritture.
[2]Platone dunque, Catone, Leone, Varrone, Ottone si truovano nelle prose di Dante, de’ Villani e di Pier Crescenzi detti altresì Plato, Cato, Leo, Varro, Otto, e così de’ simili alla latina.
[3]Augusto è ributtato da alcuni moderni che sempre
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dicono Agusto, come agurio quel che gli altri augurio, e ciò ben conseguentemente ad agosto, un de’ mesi dell’anno, e ad Agostino, che non si dicono altramente. [4]Augusto è del Boccacci n. 98 [5] e d’altri antichi, e se si vuole scrivere i simili tutti a un modo, converrà far di gran mutationi e stroppiamenti in molte parole. Dicesi Paolo e Paulo, non necesssariamente Pagolo come certi vorrebbono, né so perché. Giovanni è l’ordinario, Gioanni è nel Conv. f. 60 e Gian ne’ composti; così Giovachimo s’ha per meglio detto che Gioachimo. Daniello, Gabriello, Israello etc. sta ottimamente, non però sì che ben non possano terminarsi in ele, come Israele nel Conv. f. 22. [5]Ioseph si volta in tante guise che è una maraviglia. Il più corrente pare Giuseppe; Giosefo è del Boccacci n. 89 [passim], d’altri Gioseffo; Gioseppo nell’Omelia d’Origene [152r]; Giuseppo di Dante, Inf. 30 [97]. [6]Similmente agnoli è del Bocc. n. 99 [28], angeli dell’Omelia d’Origene [146r], angioli communissimo. [7]A Michele suol darsi Agnolo quando è tutto un nome. Come altresì è libero il dire Pietro e Piero; ma ne’ composti questo anzi che quello s’adopera: Pier Luigi, Pier Antonio etc. [8]Atanagi, Dionigi etc. è ben detto, e ben anche Atanasio, Dionisio, come si vede in Dante, Par. 28 [130] e in G. Vill. l. 1 c. 19. [9]«Tre Papi» disse G. Vill. l. 7 c. 50, e il medesimo l. 4 c. 26 «Tre Antipapa»; Guasparri e quinci Guasparrino, come ha il Bocc. n. 16 [31], altri il dicono Gaspare formato dall’origine sua. Ettorre è del Malespini, Ettore di G. Villani. Anco del Ma-
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lespini è Cesere, e quasi non mai altrimenti; il commune è Cesare. [10]Lazzero è dell’Omelia d’Orig. [153v]; Iacomo è di G. Vill. l. 11 c. 73, Giacopo di Dante, Inf. 16 [44], d’altri e più communemente Iacopo, avvegnaché l’i avanti altra vocale riceva volentieri la g, come si vede in Iesus, Hieronymus, Ioannes etc. [11]Di M. Vill. l. 2 c. 71 è il libro di Giobbo. Guiglielmo disse G. Vill. l. 6 c. 7, e Federigo, e Ambruogio, e Gostanza che altri dicono Federico, Ambrosio, Costanza etc.
[12]Cicilia han detto gli antichi, e v’ha di quegli che non direbbon Sicilia se lor, dicendolo, la donaste. Pur si truova ne’ Malespini c. 3 e in Dante, Conv. f. 106. [13]Melano e Melanesi è all’antica, e pur Milano e Milanesi è di G. Vill. l. 2 c. 7; del medesimo è Rimine l. 7 c. 80, e Rimino l. 10 c. 181, come altresì di M. Vill. l. 2 c. 38; più commune è Rimini. [14]Furlì è del Crescenzi l. 4 c. 4; Vignone e Avignone, come altresì Raona, Araona, La Magna e Alamagna, si truovano indifferentemente usati. Modana disse quasi sempre G. Villani e talvolta Modona, altri anche Modena. Cipro è di M. Vill. l. 10 c. 62, Cipri di G. Vill. e del Bocc. n. 99 [18]. Colornio, Porto Venero, Viereggio, Valditara, Spoleto, Benivento, Piamonte, Abruzi, Monte Cascino, Surrenti, Barzolana, Leone di Francia, Linguadoco etc. sono di G. Villani. [15]Del medesimo Tarteri, Alamanni, Fresoni, Proenzali, Piamontesi, Brabanzoni etc., e quello che alcuni niegano esser ben detto, Veneziani, l’ha l. 4 c. 17 e Barberi l. 1 c. 61. [16]Noarese è di Dante, Inf. 28 [59]; Cipriano e Ravi-
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gnano, da Cipri e da Ravenna, son del Bocc. n. 99 [18] e 48 [44]. [17]E tanto basti in questa materia del variare, che a voler dir tutto non si finirebbe di qui al die iudicio, disse il Villani.
Senza accordato col participio.
CLX. [1]Ho sentita difendere da un valente huomo per ottima una tal sua forma di dire: «E senza pur guardatala, se ne uscì»; «E senza dettogli addio, disparve». [2]Io non v’entrai fuor che a giudicar della pruova, allegando egli come simile al suo quel testo in Madonna Oretta, nov. 51 [12]: «Mise mano in altre novelle, e quella che cominciata havea e mal seguita, senza finita lasciò stare»; peroché in verità la voce finita quivi è puro nome, né vi si sottintende haverla, talché un medesimo sia l’uno e l’altro modo, «senza haverla finita lasciò stare» e «senza pur haverla guardata» o «havergli detto addio, se ne uscì e disparve». [3]E pruovasi, oltre a due altri esempi che ne adduce il Vocabolario, col Boccacci stesso, che nella Vis. c. 23 disse «O di mia amara vita dolce vita etc. di cui sia tosto credo la finita»; e perché non egli la finita, se prima di lui Albertano Giudice havea trovata l’incominciata? dicendo Tratt. 2 c. 25 «Dice Seneca, di catuno fatto richieri la cagione, e quando havrai cominciato pensa la fine, della quale ncominciata e fine assai t’ho detto di sopra». [4]E di così fatti verbali ve ne ha buon
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numero nella lingua, come quello di G. Villani «Con buona sentita di guerra» e «Le male pensate» etc.; e di M. Vill. l. 9 c. 26 «La lor passata per detti luoghi», e c. 44 «Recandosi in grande gloria questa mandata», e c. 31 «Innanzi l’apparita del giorno». [5]Ben ho trovato appresso il Crescenzi l’avverbio innanzi dato a participio, e vuol notarsi, per non si far subito a gridar contra chi similmente l’usasse, «Il più nobil mele [dice egli, l. 9 c. 104] è quello che innanzi premuto è uscito per sé medesimo»; né vuol dire «premuto innanzi», ma «innanzi d’esser premuto», altrimenti non si direbbe con verità «uscito per sé medesimo», cioè colato prima di premerlo.
Habitare e habituro nomi.
clxi. [1]Nel tempo che il titolo di divino si dava a buon mercato, il Divin Messere non mel raccordo credette e scrisse che habituro e habituri non sono voci state mai della nostra lingua, e a chi vengono su la lingua, o se le inghiotta o le sputi, e in lor vece usi l’habitare e gli habitari. [2]Ma io ne’ maestri della lingua ho trovati tanti habituri, che a volergli spiantare di dove sono e metterli tutti insieme ne farei una mezza Costantinopoli. [3]Egli no, se piovesse non troverebbe dove riparare in niun buon libro pure un solo habitare, non che molti habitari. [4]Habituro dunque han detto concordemente gli scrittori e habituri, e per quanto io m’habbia avvertito, non mai altramente e così vorrà dirsi.
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[5]Quegli poi che s’imaginan che habituro vaglia quanto a dire tugurio, o ‘rozza e vil casa’, veggano nell’Introduttione al Decameron [48] i «nobili habituri»; nella n. 33 [19] i «bellissimi habituri»; nel Filoc. l. 7 n. 334 «Il reale habituro», etc.
Altresì in principio di periodo.
clxii. [1]Che l’avverbio altresì debba sempre soggiungersi ad altre voci, o sian nomi o verbi o avverbi, né mai si possa cominciar da esso periodo o altra sua parte spiccata, non è così vero che s’habbia a dir «Non si può» a chi altramente facesse. [2]E ne ho chiara l’autorità di G. Villani, dove, narrata la morte del poeta Dante Alighieri, fa mentione de’ suoi vari componimenti, fra’ quali è il commento alle quattrodici canzoni morali intitolato l’Amoroso convivio, benché la vita gli mancasse dopo le prime tre che ne havea esposte. [3]Hor di questo commento egli parla così: «Lo quale, per quello che si vede, alta, bella, e sottile, e grandissima opera riuscia, peroché ornato appare d’alto dittato e di belle ragioni filosofiche e astrologiche»; poi siegue immediatamente: «Altresì fece un libretto che l’intitola De vulgari eloquentia etc.».
Fiata di tre sillabe e di due.
clxiii. [1]La voce fiata, che significa ‘volta’, quella che i Latini dicono vicem, è sempre di tre sillabe. [2]Così ne
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parla il Vocabolario, né altro più bisognò a condannar non so dove un povero delinquente, che in una sua diceria coram popolo la pronuntiò di due sillabe. [3]Pur tanto disse e pregò che, avvegnaché preso convinto, hebbe per gratia le difese e a me toccò fargli l’avvocato; e non affatto indarno. [4]Peroché altro è il pronuntiarsi per commune uso fiata di tre sillabe, altro il non potersi pronuntiare di due. [5]Hor che di due si possa, ne de’ esser testimonio il verso, il quale, percioché ha le sillabe misurate, conosce, e usandole dà a vedere, quante se ne contino nelle parole che il formano; e v’è un buono scrittore d’osservationi che con tal giudicio definisce alcune voci esser di tante sillabe e non di più né di meno. [6]Se ciò è la causa del potersi pronuntiar fiata in due sillabe, è vinta per l’autorità di tre testimoni che fo venire, un dall’Inferno, un dal Purgatorio e un dal Paradiso di Dante. [7]Eccoli tutti cotesti: Inf. 32 [102] «Se mille fiate sul capo mi tomi»; Purg. 9 [111] «Ma pria nel petto tre fiate mi diedi»; Par. 16 [38] «E trenta fiate venne questo foco». [8]Chiaro è che in questi tre versi o fiate è di due sillabe o i versi sono di dodici. E tale anche l’usò Fazio nel Ditt. l. 4 c. 23 e altrove. [9]Ma più di tutti il Boccacci, che nella Visione l’ha sette volte, ne’ canti 2, 14, 22, 26, 37, 42, 45, e nell’Ameto altre più volte.
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De’ verbi che d’un genere passano in un altro.
clxiv. [1]Un de’ passi ugualmente pericoloso a chi poco sa e a chi troppo crede sapere si è quello della natura de’ verbi, cioè a dire di quali siano sempre i medesimi e non mai altro che puri attivi o puri neutri, o neutri passivi, o assoluti; e di quegli che hor prendono un essere e hora un altro e diventano quel che vuol che siano chi gli adopera; come certi animali che sono insieme terrestri e aquatici, e si lascian condire e si posson mangiare come pesce o come carne, a gusto di quello che altrui piace che siano. [2]Sopra ciò lo schiamazzar de’ grammatici è grandissimo, e il non si può gira attorno alla cieca come la mazza di Polifemo. [3]Impaurire, dicono, non è verbo attivo; cercate il Vocabolario, non se ne truova esempio. [4]Cenare, mancare, montare è stoltitia il pur muover dubbio se possano esserlo. [5]Aprire, tendere, riscaldare, porre etc. mai in vita loro non furon neutri o assoluti; né mai altro che neutri passivi questi altri, appigliare, agghiacciare, affannare, e di così fatti una gran moltitudine.
[6]Hor io per verità non so che mi debbia a dire in così ampia e dubbiosa materia, dove non parrebbe da doversi far altro che compilar un vocabolario d’un per uno tutti i verbi, divisatevi le nature e le proprietà di ciascuno, impresa da huomo sfaccendato, quello che non son io. [7]Ben con assai più patienza che frutto ne ho io raccolto dagli scrittori che chiamano del buon secolo quel che m’è paruto singolarmente notabile, non solo del diverso loro essere di che parliamo, ma di certe lor proprietà o passioni ne gli accom-
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pagnamenti che prendono, ne’ casi che reggono, nelle particelle che accettano; nel che v’ha di grandissime stravaganze ed è materia da farsene un libro. [8]Ma d’una gran parte di loro io non ho trovato altra ragione o principio da potersene far regola che la libertà di chi così volle adoperarli; né forse essi medesimi, dimandatine, altra cagion ne saprebbono allegare, peroché usando correntemente un verbo alla maniera commune, tutto improviso il fanno balzar fuori di regola, né sapete se sia lor capriccio o natura del suggetto che il richiegga. [9]Così in ciò non vanno, pare a me, i maestri della lingua come i componitori delle canzoni in musica, i quali han quelle cinque lor righe su le quali, e in fra i loro spatii, ordinariamente si tengono e scrivono le note; ma se lor bisogna passarle in acuto o in grave, per così richiederlo la rispondenza del contrapunto, sì il fanno, e tiran lor sopra o sotto quell’uno o due pezzetti di riga quanto lor fa mestieri a mettervi la cotal nota; indi si tornano alle cinque. [10]Ma qui ne’ verbi, che necessità portava gli autori a usarli in un medesimo senso hora d’un modo e hora d’un altro in tutto dissimile, se non perché non v’era necessità che li costringesse a usarli sempre a un modo? [11]Che come quanto alla forza del significare questa e non verun’altra cosa, i verbi, al pari di tutte l’altre voci, non hanno altra virtù che quella sola ab estrinseco dell’essersi accordati gli huomini a così volere, come per esempio che scrivere significhi quest’atto ch’io fo hora, e leggere cotest’altro che fate voi; [12]così è stato libero a’ maestri, quali si presumono essere gli
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scrittori che più pensatamente usan la lingua che chi solamente la parla, il variare i nomi e i verbi e ciò che altro è grammatica in tante e sì differenti maniere e stranissime, come han fatto, senza doverne esser ripresi, né essi che precedettero coll’esempio, né chi vien loro dietro e gl’imita; come, per tacer di tanti altri, ha fatto a’ nostri dì il valentissimo Davanzati. [13]Altrimenti mi si dica ond’è che molti nomi son d’amendue i generi, maschi e femine, senza significar punto diversamente nell’un genere che nell’altro; e diciamo lo scritto e la scritta, il buccio e la buccia, il fine e la fine, l’arbuscello e l’arbuscella, e così d’almeno cento altri.
[14]Questa forse incresciosa diceria ho io fatto per quegli che tanto sclamano contra chi adopera un verbo discretamente usato attivo o neutro o che so io, ed essi non ne truovano esempio nel Vocabolario. [15]Domin se germogliare, di cui si è fatto da alcuni tanto romore, provando non poter mai essere attivo, è più lontano dall’attione che rinverdire, che pur si truova attivo; e così altri che porremo qui appresso. [16]Ed eccoli di ciascun genere alcuni pochi. Nel che fare io m’havea prefisso di non allegar testo che si trovasse altrove, ma poi non m’è paruto l’utile pari alla fatica.
Attivi neutri.
clxv. [1]Alzare. Bocc. n. 81 [Intr. 3] «Ma già innalzando il sole, parve a tutti di ritornare»; G. Vill. l. 11
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c. 1 «Sonando al continuo per la città tutte le campane delle Chiese, infino che non alzò l’acqua»; M. Vill. l. 9 c. 4 «Per dare a intendere se fu la verità che ’l verno fu freddissimo e aspro, in Bologna alzò tanto le nevi che etc.».
[2]Abbassare. G. Vill. l. 7 c. 34 «L’altezza del corso del fiume, che per lo detto ringorgamento era tenuta, abbassò e cessò la piena dell’acqua»; Cresc. l. 9 c. 68 «Poiché ’l sole comincia abbassare e allentare il caldo».
[3]Esaltare. G. Vill. l. 10 c. 212 «Della detta pugna esaltò il capitano di Melano e il Re Giovanni abbassò», e l. 7 c. 131 «Dela sopradetta vittoria la città di Firenze esaltò molto».
[4]Raccorciare. Dante, Par. 16 [7-9] «Ben se tu manto che tosto raccorce, / sì che se non s’appon di die in die / lo tempo va d’intorno con la force»: parla della nobiltà del sangue.
[5]Aprire. Ditt. l. 1 c. 21 «La terra aperse non molto da poi»; l. 6 c. 10 «Qui non ti conto com la terra aperse».
[6]Volgere. Dante, Inf. 29 [9] «Che miglia ventidue la valle volge»; Purg. 24 [88] «Non hanno molto a volger queste ruote»; Petr. son. 48 [62 9] «Hor volge signor mio l’undecimo anno».
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[7]Porre. G. Vill. l. 12 c. 114 «Sentendo lo stato della Reina Giovanna, non s’ardiro di porre né a Nizza né a Marsilia»; l. 11 c. 135 «Per mare venne a Napoli, che a Pisa né in quelle marine non potea porre».
[8]Riscaldare e raffreddare. Cresc. l. 1 c. 4 «Cotale acqua è quasi sempre dolce ed è leggieri a pesarla, e tosto raffredda, e tosto riscalda»; G. Vill. l. 6 c. 9 «I Fiorentini si tennero forte gravati e più riscaldarono nella guerra contro a’ Sanesi».
[9]Fendere. Cresc. l. 5 c. 32 «Anche se ne fanno convenevolmente taglieri e bossoli, i quali radissime volte fendono»; poi nel c. seguente: «Le sue scodelle agevolmente si fendono per lo caldo».
[10]Gittare. G. Vill. l. 11 c. 99 «Avvenne in Firenze etc. grandi e disusati truoni, gittando più folgori in città etc.»; e simile nel medesimo e in Matteo: «Gittò pestilenza», «Gittò carestia» etc.
[11]Mettere e muovere. Dante, Purg. 30 [38] «Per occulta virtù che da lei mosse»; Cresc. l. 2 c. 9 «Pri-
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ma pullula e mette il maschio [arbore] per lo caldo, e più forte muove».
[12]Turbare. N. ant. 20 «Il cielo cominciò a turbare»; Ditt. l. 4 c. 2 «Quivi parea turbar de le parole / che gli rispose».
[13]Empiere. M. Vill. l. 4 c. 7 «Avvenne che quella giornata, continuando la processione, il cielo empié di nuvoli».
[14]Schiantare. Ditt. l. 1 c. 28 «Se la memoria mia dal ver non schianta».
Neutri attivi.
clxvi. [1]Mancare. M. Vill. l. 2 c. 32 «Questa asprezza delle grida era maggiore che dell’arme, per attrarre l’aiuto a quella parte di que’ dentro e mancarlo ov’era l’agguato».
[2]Montare. G. Vill. l. 9 c. 305 «E così in poca d’ora si mutò la fallace fortuna a’ Fiorentini, che in prima con falso viso di felicità li havea lusingati e montati in tanta pompa e vittoria».
[3]Infiebolire. G. Vill. l. 2 c. 4 «Questo Leone Impe-
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radore e Teodorico Re de’ Gotti etc. lo stato de’ Romani e dell’Imperio molto infiebolirono».
[4]Cenare. Bocc. n. 61 [12] «Ed egli ed ella cenarono un poco di carne salata».
[5]Incarnare. Ditt. l. 2 c. 31 «Mi fece un riso / tale che l’atto ancor nel cor incarno».
[6]Svolazzare. Dante, Inf. 34 [49-51] «Non havean penne [l’ali di Lucifero] ma di vilpistrello / era lor modo, e quelle svolazzava / sì che tre venti si movean con ello».
[7]Guizzare. Pass. f. 67 «E vide Iesu Christo su nell’aria in quella forma che verrà a giudicare il mondo, con tre lance in mano, le quali guizzando e dirizzando sopra la terra, faceva sembiante etc.».
[8]Invilire. M. Vill. l. 9 c. 31 «Il ladro sorpreso nel fallo invilisce», e l. 10 c. 59 «Dopo lunga difesa gl’invilirono e ruppono».
[9]Venire adoperato passivo. G. Vill. l. 7 c. 37 «E l’oste detta fu quasi tutta sciarrata e venuta al niente senza colpo de’ nemici».
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Neutri passivi o attivi fatti semplici neutri senza gli affissi loro dovuti.
clxvii. [1]De’ verbi attentare, maravigliare, appressare, lamentare, pentire, sdegnare, imaginare, usati senza niun de gli affissi a maniera di semplici neutri, si è detto più avanti al n. xcii, e sono altresì neutri passivi, dicendosi attentarsi, maravigliarsi, lamentarsi etc., e alcuni più frequentemente in questo secondo che nel primo modo.
[2]Inebriare. Cresc. l. 10 c. 28 «Dandolo loro [a gli uccelli] a beccare, subito inebriano e non posson volare»; Bocc. n. 84 [8] «Egli giucava et oltre a ciò si inebriava alcuna volta».
[3]Dilettare. N. ant. 12 «Vergognisi chi dee regnare in virtude e diletta in lussuria».
[4]Appartenere. Bocc. Lab. n. 174 «Assai detto haver mi pare intorno a quello che a te apparteneva di considerare», e n. 311 «Giungere non te ne poteva [de gli anni] perciocché solamente a Dio s’appartiene questo».
[5]Agghiacciare. Dante, Purg. 9 [42] «Come fa l’huom che spaventato agghiaccia»; G. Vill. l. 8 c. 81
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«Ghiacciò il mare», e l. 9 c. 102 «Fu grande freddura e ghiacciò l’Arno»; Petr. son. 15 [17 9] «Ma gli spiriti miei s’agghiaccian poi».
[6]Infracidare. Pass. f. 86 «Infracidinsi l’ossa di quella persona che fa cose degne di confusione e di vergogna. Lo ’nfracidare dell’ossa significa etc.»; Cresc. l. 2 c. 6 «Il nutrimento de’ frutti infracida leggermente, peroché la natura non l’ordinò, né produsse ad altro fine se non accioché infracidasse etc.», e c. 21 «I semi s’infracideranno, e l’utilità del seme non andrà innanzi».
[7]Appigliare. Cresc. l. 2 c. 19 «Sugano l’umor del campo e non lasciano esser nutriti i semi né debitamente vivere e appigliare», poi nel seguente c. 21 ha tre volte s’appiglierà, s’appiglia, s’appigliarono; e Dante, Purg. 28 [117] «Senza seme palese ivi s’appiglia».
[8]Confondere. Ditt. l. 2 c. 7 «Onde se spesso nel pianto confondo, / maraviglia non è».
[9]Ingrassare. Cresc. l. 9 c. 88 «I primi quindici dì dimagrano etc. e ne gli altri quindici dì ringrassano»; M. Vill. l. 3 c. 48 «Ingrassando e arricchendo indebitamente»; Cresc. l. 9 c. 92 «Le quali [tortole] oltr’a misura s’ingrassano».
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[10]Assottigliare. M. Vill. l. 3 c. 74 «Il collo digradava sottile e nel ventre ingrossava e poi assottigliava, digradando con ragione fino alla punta della coda»: parla d’una come serpe di fuoco apparita in aria.
[11]Affannare. Filoc. l. 7 n. 525 «Non sono qui così l’ossa de’ morti cavalli raccolte come quelle de’ nobili huomini? Per niente affannar vogliamo»; Dante, Purg. c. 11 [15] «A retro va chi più di gir s’affanna».
[12]Trarre. Bocc. n. 41 [67] «Occorse lor Pasimunda, il quale con un gran bastone in mano al romor traeva»; Ditt. l. 1 c. 11 «Maravigliando pur trassi a lei».
[13]Trascolorare. Dante, Par. 27 [19-21] «Quand’i’ udì: – Se io mi trascoloro, / non ti maravigliar, che dicend’io / vedrai trascolorar tutti costoro».
[14]Dolere. Ditt. l. 1 c. 18 «E certamente di lui tanto dolsi / quanto donna de’ far di buon marito».
[15]Compungere. Ditt. l. 3 c. 1 «Forte nel cor per la pietà compunsi».
[16]Gloriare. G. Vill. l. 10 c. 201 «Il sopradetto Legato quando più gloriava e trionfava, la sua oste fu sconfitta a Ferrara»
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[17]Accostare. M. Vill. l. 9 c. 6 «Per lo favore de’ grandi cittadini, che per diversi rispetti accostavano al Legato».
[18]Mostrare. Ditt. l. 1 c. 11 «Che ne gli atti mostrate sì gentile», e quivi pure «Mostrate uscita di nobile schiatta».
[19]Così annottare, innamorare, disperare, posare, sviare, schiarare, riparare, ribellare, etc., che si truovano con gli affissi e senza.
clxviii. [1]Non è poi da dirsi trasformation di verbi simile alle passate, ma più tosto un cotal vezzo de gli scrittori, l’aggiugnere che loro han fatto alcuna particella superflua, o il torne alcuna necessaria all’integrità del senso. [2]Perciò ne ho messi qui giù in disparte alcuni pochi esempi. E prima dell’aggiungere, che tutti saran di Matteo Villani: l. 5 c. 3 «Ruberto vi s’entrò dentro»; l. 6 c. 31 «E giungendo alla terra, havendo l’entrata senza uccisione, vi s’entrarono»; l. 6 c. 26 «Crescendo l’assalto e la gente da catuna parte, vi s’allignò un’aspra battaglia»; l. 9 c. 24 «Il perché lo stato di Montepulciano si vagillava ed era senza riposo». E del levarnele i seguenti.
[3]Cresc. l. 5 c. 30 «Sufficientemente è di sopra trattato de gli alberi fruttiferi».
[4]G. Vill. l. 2 c. 1 «E di vero mai non fu disfatta, né disfarà in eterno se non al die giudizio».
[5]Cresc. l. 1 c. 11 «Conciossiecosa che di sopra sia
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fatta menzione de gli edifici che si deono fare e fanno di mura».
[6]G. Vill. l. 11 c. 1 «Come in questa cronica farà menzione».
[7]M. Vill. l. 8 c. 37 «Havemo questa materia forse più stesa che non richiede al fatto del nostro trattato etc.».
Nomi indifferenti ad essere dell’uno e dell’altro genere.
clxix. [1]Fra’ nomi ve ne ha degli indifferenti ad esser maschi o femine, come altri vuole che siano, se non quanto l’uso gli ha oramai in gran parte determinati anzi all’un genere che all’altro. [2]Pur non sarà senza qualche utile il conoscerne molti, sì perché non v’ha di tutti esempio ne’ vocabolari, e sì ancora per non condannarli nelle pene che le leggi statuirono a’ maschi che veston da femina, e alle femine che da maschi. [3]Gli esempi che qui ne allegherò saranno sol del genere men usato. E prima de’ maschi.
[4]Opinione. G. Vill. l. 3 c. 1 «Il nostro opinione»; e l. 10 c. ult. «Il detto opinione»; l. 11 c. 19 «Il suo opinione»; e così altrove.
[5]Origine. G. Vill. l. 7 c. 1 «Fu il primo origine de’ Re di Cicilia».
[6]Serpe. Bocc. Fiamm. l. 7 n. 50 «Meritamente avuto del morto Archemoro dal serpe».
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[7]Oste, cioè ‘gente da guerra’. G. Vill. l. 11 c. 53 «Così avvenne del nostro ben avventuroso oste»; e c. 62 «Si diedono le ’nsegne e mosso l’oste»; M. Vill. l. 11 c. 18 «Il suo oste», «con tutto l’oste», etc.
[8]Esequio. G. Vill. l. 11 c. 65 «Fatto per sua anima l’esequio con solennità»; e c. 113 «Tanto che si faceva l’esequio»; e c. 117 «Come la gente fosse allo esequio de’ morti»; M. Vill. l. 1 c. 76 «Fatto il reale assequio» etc.
[9]Dimora. Dante, Inf. 22 [78] «Senza dimoro»; G. Vill. l. 10 c. 192 «Per lungo dimoro»; M. Vill. l. 1 c. 10 «Fece suo dimoro in quel luogo»; e l. 8 c. 101 etc.
[10]E del genere feminile.
Ordine per ‘regola di religiosi’. G. Vill. l. 7 c. 44 «Vietò tutte le Ordini de’ Frati»; e l. 5 c. 22, 24, 25 etc. «La santa Ordine de’ Frati Minori» e «Queste due sante Ordini di S. Domenico e di S. Francesco».
[11]Pianeta ‘stella errante’. G. Vill. l. 10 c. 122 «La pianeta del Saturno»; l. 8 c. 47 «La pianeta di Saturno e di Marte in quell’anno s’eran congiunte etc.»; l. 11 c. 67 «Per grandi congiunzioni de’ corpi celesti: ciò sono le pianete etc. e tali [comete] miste di due pianete o più».
[12]Comune. G. Vill. l. 11 c. 111 «I Caporali delle
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Comuni di Brabante»; l. 12 c. 46 «La Comuna di etc.»; e così altre volte.
[13]Motivo. G. Vill. l. 11 c. 117 «Le motive delle dissensioni»; l. 12 c. 8 «Fu motiva del Duca»; e c. 36 «Per sua motiva».
[14]Sangue. G. Vill. l. 11 c. 121 «Si partì di Firenze etc. ricco delle sangui de’ Fiorentini».
[15]Travaglio. M. Vill. l. 9 c. 106 «Havemo parlato delle travaglie de’ nostri paesi»; e [l. 8] c. 80 «Tornando alle travaglie del Reame di Francia»; e l. 9 c. 9 «Detto havemo delle travaglie de’ nostri paesi».
[16]Costume. M. Vill. l. 6 c. 42 «Per antica costuma, con ogni novello Duca di Brabante facevano l’usata lega».
[17]Priego. G. Vill. l. 7 c. 78 «Ridolfo Re de’ Romani, a richiesta e priega de’ Ghibellini in Toscana».
[18]D’aere scriveremo più distesamente in altro luogo.
La per ella.
clxx. [1]V’è paese in Italia dove nel commun ragionare la corre per altrettanto che ella: «la mi disse», «se la mi chiamerà» e simili. [2]Hor questo la per ella non è veramente da usare, ma neanche da condannare, senza
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comprendervi (poiché d’altri non mi risovviene) Matteo Villani, il quale assai delle volte l’adoperò, come usato etiandio nel buon secolo: l.1 c. 92 «Adoperarono per loro virtù che, combattendo, la terra si vincesse ch’egli intendeva di volere, che la battaglia d’ogni parte vi si desse aspra e forte sì che la si vincesse»; e l. 7 c. 59 «Mandò tutta l’altra cavalleria e fanti a piè a Cesena per assediare la Donna e sua gente nella murata e nella rocca, innanzi che la potesse havere altro soccorso»; e l. 10 c. 57 «Tanto grano, biada, olio, carne andavano di continuo a Bologna, che la se ne reggea e mantenea»; e l. 4 c. 18 «Non volle udire la Reina Bianca, e perché la non si partisse, la fece mettere in Briccia, suo forte castello etc.». [3]Ne’ quali testi è d’avvertire che la sempre vien dietro a voce terminata in e, ch’è la vocale che manca a la per farsene ella, e pronuntiando le de’ servire.
[4]Ho allegato questo solo scrittore, e non prima di lui il Boccacci, per non havere a contendere sopra l’essere o no scorrettione de’ copiatori quel che si legge n. 93 [35] «Se la ti piace [la mia vita]», e n. 94 [16] «Quelle gratie gli rendé, che la poté etc.».
L’articolo dato a gl’avverbi.
clxxi. [1]Il dare l’articolo a gli avverbi o a nomi adoperati in somiglianza d’avverbi è una delle licenze o proprietà della lingua, né vi si de’ richiedere l’accordarsi in genere, se quegli son nomi, peroché ivi non
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istanno in forza di nomi. [2]Eccone alquanti esempi. G. Vill. l. 12 c. 95 «Trattarono accordo e triegua dal Re di Francia a quello d’Inghilterra infino alla San Giovanni avenire»; M. Vill. l. 8 c. 36 «Fece bandire etc. una solenne festa di cavalieri della tavola ritonda alla San Giorgio d’Aprile»; Bocc. n. 60 [41] «Alle montagne de’ Bachi pervenni, dove tutte l’acque corrono alla ’ngiù»; G. Vill. l. 4 c. 18 «Dal detto Carlo fu ricevuto alle fonti et alla perfine non potendo Carlo etc.»; e quivi medesimo: «Ruberto riconciliato alla per fine con la Chiesa»; [3]Cresc. l. 10 c. 17 «Dall’un canto sia un fossato e nell’altro alquanto dalla lungi»; l. 9 c. 88 «Ritornan dentro e non subito volano a lungi»; Dante, Inf. 31 [22-23] «Tu trascorri / per le tenebre troppo dalla lungi»; G. Vill. l. 8 c. 75 «Al di lungi dall’oste si misono in guato, e gli altri ch’erano in guato uscirono al di dietro sopra i Fiaminghi»; G. Vill. l. 9 c. 45 «Lo ’mperadore prese consiglio la notte di venire al diritto alla Città di Firenze».
Terminationi fuor dell’ordinario d’alcuni nomi.
clxxii. [1]I nomi che chiamano sustantivi, non so se per dar loro più gratia, o per variare, o per vezzo e bizzarria de gli scrittori, o per che altro si voglia, è stato uso antico di terminarli nel plurale quali in isdrucciolo e quali a maniera de’ neutri latini. Non
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tutti indifferentemente, ma certi privilegiati dall’arbitrio di chi così volle.
[2]Della prima maniera siano le gradora e le palcora del Novelliere antico, e le luogora, le borgora, le corpora, le sestora, l’arcora e l’ottora di G. Villani; le fuocora, le latora, le granora di M. Villani; le ramora di Dante nel Purgatorio. E per comprendervi alcun de’ buoni moderni, le donora, le campora, le mondora del Davanzati nel Tacito, oltre a più altre delle sopradette voci che ivi si leggono.
[3]Della seconda, le pugna e le coltella del Boccacci nel Novelliere; le castella e castelletta, le munimenta e le cerchia di G. Villani; le demonia e le peccata del Passavanti e di Dante; l’uscia, le cuoia, le calcagna, anzi ancor le mascella, che pur son di genere feminile, di Pier Crescenzi; le balestra di M. Villani; le letta e le tetta etc. del Davanzati.
[4]Hoggidì le prose volentieri se ne astengono, o sol di certe poche lor proprie e usate senza sentirne offesa gli orecchi discretamente si vagliono, e delle secon-
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de assai più che delle prime. [5]Così diciamo le membra, le ossa, le corna, le cervella, le braccia, le dita, le anella, le interiora, le ginocchia, le calcagna, le grida, le lenzuola, le fila, le uova, le mura e che so io. [6]Ma chi o per pazzia o per arte vuol affettar antichitade, sì ne cerca delle strane, e quanto le truova più strane tanto le ha più care. [7]Hor dunque prendasi ancor le seguenti del più fino romanesco antico, e ne sappia gratia all’autore della vita di Cola di Rienzo e spaccilo per iscrittore del buon secolo, e in quanto a ciò dirà vero, peroché fu contemporaneo del Boccacci, del Passavanti e de’ Villani; ciò sono le capora, le sonnora, cioè ‘i capi’ e ‘i sogni’; le mulinora, le ventora, anzi ancora insiemora per insieme avverbio, e le homicidia, le adulteria, le beneficia, le steccata, le tavolata, le oliveta, le palazza; meglio è spacciarsi e dire ogni cosa.
Dove sia necessario usare il relativo e non il possessivo.
clxxiii. [1]Altra miglior regola io non truovo sopra l’uso del possessivo suo e del relativo lui, lei, loro, che il debito di fuggire l’equivocatione; ove questa non sia, né la ragion costringe, né l’esempio de gli
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scrittori insegna che si debba adoperar questo per quello, molto meno empir le scritture, come hoggidì fan molti, di tanti la di lei, la di lui (e quel che è peggio antiposto, non soggiunto, alla cosa attribuita, del che non m’è ancora avvenuto di trovare esempio appresso niun buono scrittore) che il suo e la sua pare appresso loro voce scommunicata notoria, da non ammmettersi a ragionamento. [2]Ecco esempi, ne’ quali si vede necessario il relativo. Bocc. n. 41 [15] «Mai da sé partir nol poté in fino a tanto ch’egli [cioè Cimone] non l’hebbe infino alla casa di lei accompagnata»: chiaro è che dicendosi «alla casa sua» si sarebbe potuto intendere quella di Cimone, il che non era; e n. 38 [7] «Et appresso co’ tutori di lui non potendosene Girolamo rimanere, se ne dolse»: ancor qui adoperando il suoi sarebbe stato equivoco se s’intendeva de’ tutori di Girolamo o di chi se ne dolse; e n. 31 [46] «Da lei partitosi e da sé rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire etc.»: dicendosi sua sarebbe paruto che volesse incrudelire contra sé medesimo; e similmente in quest’altro per la stessa cagione era necessario il relativo: n. 36 [31] «Levatasi con la fante insieme, presero il drappo sopra il quale il corpo giaceva, con quello del giardino uscirono e verso la casa di lui si dirizzaro».
[3]Ove perplessità ed equivocatione non ne provenga, è libero l’usar l’uno o l’altro tanto sol che la scrittura per affettatione non riesca spiacevole, e tal riuscirebbe col troppo spesso di lui e di lei, che s’adopera come straordinario per bisogno, non col suo e sua, che sono il naturale e l’usato. [4]Piacemi nondimeno, per ripararsi da chi riprendesse l’adoperare tal volta il relativo etiandio dove il possessivo sarebbe paruto più chiaro o almeno non necessario, recarne qui alquanti esempi: [5]G. Vill. l. 6 c. 71 «E nota che al tempo del
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detto popolo etc. i Cittadini di Firenze etc. di grossi drappi vestivano loro [cioè sé, che loro non è primo caso] e loro donne»; e l. 10 c. 7 «E lo Re, tenendo M. Ugo accostato a lui [cioè al medesimo re, e per ciò a sé] e ’l braccio in collo per guarentirlo etc.»; Cresc. l. 9 c. 78 «I cani vecchi non difendon le pecore né eziandio loro medesimi»; [6]Bocc. n. 38 [5] «I tutori del fanciullo, insieme con la madre di lui, bene e lealmente le sue cose guidarono»; n. 48 [4] «In Ravenna etc. fu un giovane chiamato Nastagio de gli Honesti, per la morte del padre di lui e d’un suo zio senza stima rimaso ricchissimo»; e così altri in gran numero.
Amaro, usciro etc. ben terminati nelle prose.
clxxiv. [1]L’accorciare le terze persone nel numero del più de’ secondi preteriti di qualunque sia delle tre maniere de’ verbi è sì certo non essere privilegio conceduto solamente al verso, ma usatissimo nelle prose, che sarebbe vergogna il provarlo se altri l’havesse havuta di negarlo. [2]Innumerabili esempi se ne possono addurre. Nella sola n. 61 del N. ant. v’ha tutti questi: rifiutaro, consentiro, smarriro, capitaro, abbattero. [3]Ne’ primi sedici capi della storia di G. Villani questi altri: amaro, arrivaro, partiro, scamparo, usciro, popolaro, aiutaro, rifiutaro; e quel furo che tante volte si tronca, dicendosi sempre bene furono, furon, furo e fur; e così de gli altri in abbondanza.
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Due osservationi non necessarie a osservarsi.
clxxv. [1]Le due seguenti osservationi sian solo per ridersi di chi le havesse per cose da osservarsi. [2]L’una si è che il troncar la testa si sia espresso con un parlar tronco, quali sono i seguenti di G. Villani, ne’ quali manca un gli con che riuscirebbono intere: l. 9 c. 346 tit. «Come M. Piero di Narsi, Capitano de’ Fiorentini di guerra, fu sconfitto dalla gente di Castruccio e poi mozzo il capo»; l. 10 c. 7 «M. Ugo con l’armi sue a ritroso fu tranato e poi impiccato e poi tagliata la testa e squartato»; l. 11 c. 69 «Il quale trattato scoperto, alcuno ne fu preso e tagliato il capo».
[3]L’altra è che certe attioni si esprimano al contrario di quel che sono. Come quel di M. Vill. l. 7 c. 48 «In quella percossa, il fodero della spada uscì del ferro»: dovendo dire, a dir vero, «il ferro gli uscì del fodero». [4]Così anche in loro essere i seguenti: M. Vill. l. 9 c. 97 «Feciono fare una stanga di ferro e bove, le quali pesanti fuori d’ordine gli misono in gamba»; e l. 1 c. 89 «E vedendosi il Conte senza speranza di soccorso, e disperato di salute col capestro in collo etc.»; Bocc. n. 11 [32] «Infino che in Firenze non fosse, sempre gli parrebbe il capestro haver nella gola»; n. 36 [15] «Accioché da me non si partisse, le mi pareva nella gola haver messo un collar d’oro».
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giunta di questa terza editione
La particella però adoperata per nondimeno
clxxvi. [1]La particella però è una delle più travagliate dal non si può che habbia la nostra lingua; ed io mi sono avvenuto in parecchi ammutoliti al bisogno di dar ragione di lei e di sé, accusati d’haverla usata a dir quello ch’ella non può, né in virtù di natura e d’origine, né per concessione e privilegio fattole da scrittori antichi, che mai l’adoperassero in somigliante significato. [2]Peroché (così appunto dicono) questa particella però è una cosa medesima con per ciò, anzi una medesima voce e sol più corpulenta di due lettere l’una che l’altra. [3]Adunque, come la forza di per ciò è didurre per via di conseguente alcuna cosa da quello che già si è detto espresso o virtualmente, sarallo altresì di però; il che presupposto, è chiaro il fallo dell’usar però in significato di ‘nondimeno’, di ‘ma’, di ‘pure’ o d’altre simili voci rispondenti al tamen, all’idcirco, all’ideo de’ Latini.
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[4]Dichiarando, sponendo un però di questo genere, il primo che ci dà alle mani, e per avventura è del Guarini: «Piccole offerte sì [dice il suo Alfeo] ma però tali / che, se con puro affetto il cor le dona, / anco il Ciel non le sdegna». [5]Hor se questo però vale per ciò, questo passo si dovrà sporre in tal modo: ‘piccole offerte sì, ma per ciò che piccole tali che anco il ciel non le sdegna’; la qual chiosa rovina il testo, non essendo la picciolezza del dono cagione dell’accettarlo ancor il cielo, ma il puro affetto. [6]Riman dunque al però in questo luogo il valere per ‘non per tanto’, cioè: ‘piccole offerte sì, ma ciò non ostante, o nondimeno, o ma pure tali che etc.’; il quale è un però fuor della sua natura e però male usato, perché mai non usato da verun buono scrittore e solo in bocca al volgo. [7]Così se la divisan que’ dotti; i quali, mentre loro mercé non si dichiarano di volere ch’ella pur sia così etiandio se non fosse, lasciano a me libertà per difendere tutte insieme le sue ragioni a questa innocente particella, e ’l suo onore a chi l’ha similmente usata. [8]Né vo’ che m’incresca il dirne, come richiede il merito della causa, alquanto distesamente.
[9]E cominciando da’ più moderni scrittori havuti in pregio di regolati e colti, eccone in prima il medesimo Guarini nella sua Pastorale: «La quale però mortale [ferita] / veramente non fu»; «Che se per opra tua, ma però sempre / salva la fede mia»; «E benché d’alma bel-
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la / l’honor sia poco pregio, è però quello / che si può dar maggiore / a la virtude in terra»; «Ma ecco l’infelice / di te però men infelice assai»; «Ancor che molto sia, è però nulla etc.». [10]I quali tutti però son tutti ‘nondimeno’, né potrebbono essere in niuna guisa ‘per ciò’. [11]Così ancora i seguenti del Tasso nell’Aminta: «Bench’è gran male e però mal commune»; «È possibil però che s’ella udisse»; e nella Gerusalemme, c. 6 st. 14 «Se ben l’ira e la spada / dovresti riserbare a miglior uso, / che tu sfidi però, se ciò t’aggrada etc.»; e del Caro nelle sue Lettere, f. 21: «Sospensioni di mani però ma non di lingua»; f. 36 «Senza pregiudicio però del dovere»; f. 41 «Se farò a tempo però»; f. 79 «Se io sarò però da tanto»; f. 88 «La venuta vostra a Roma (se verrete però)»; f. 105 «V’aspettiamo passato l’inverno però»; f. 124 «Se poeta però sono stato mai» etc. [12]Aggiungianne quattro dell’Ariosto, il cui Furioso, prima di publicarsi, passò con approvatione di buona lingua: c. 8 st. 41 «Che se ben con effetto io non peccai, / io do però materia etc.»; c. 11 st. 1 «Quantunque debil freno a mezzo il corso / animoso destrier spesso raccolga, / raro è però che di ragione il morso / libidinosa furia adietro volga»; c. 24 st. 2 «Varii gli effetti son, ma la pazzia / è tutt’una però che li fa uscire»; c. 28 st. 97 «Tanto però di bello ancor le avanza» etc.
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[13]Hor dove ben non havessimo altri autori che i quattro soprallegati, ogni huomo, a far discretamente, dovrebbe rendersi al giudicar di questa particella come essi. [14]Ma io non vo’ che il farlo sia un donare per gratia quel ch’è debito per ragione; per ciò ecco la ragione del ben così usarla i moderni, l’haverla così usata gli antichi, e quanti ne allegherò tutti saran del buon secolo. [15]E primieramente Dante, Conv. f. 39 «Avvegna che il servo non possa simile beneficio rendere al Signore, quando da lui è beneficato, dee però rendere quello che miglior può»; e Inf. 22 [142-144] «Lo caldo sghermitor subito fue, / ma però di levarsi era niente, / sì havean invischiate l’ale sue»; [16]G. Vill. l. 5 c. 39 «Chi amava la signoria della Chiesa e chi quella dell’Imperio, ma però in istato e bene del Comune tutti erano in concordia»; e l. 9 c. 305 «Di que’ di Castruccio ne furono morti assai, ma non però presi»; e l. 10 c. 19 «Ghibellini d’Italia vi furono [alla coronatione del Bavero], ma però piccola festa v’hebbe»; e c. 50 «Però con tutto non fosse stato vivo signore né guerriere etc. si fu pure dolce signore»: del qual però infra gli altri vuole avvertirsi ch’egli è in capo a periodo e senza ma, né null’altro avanti – ciò che niegan trovarsi appresso scrittore d’autorità; e l. 12 c. 17 «S’acquetarono, ma però mal contenti»; e c. 20 «Combattendo però francamente il serraglio etc.»; [17]M. Vill. l. 1 c. 11 «Questo Duca di Durazzo non si trovò che fosse autore della morte del Duca Andreas, ma però com’egli havea etc.»; e l. 4 c. 38 «Prendendo confidanza di quello o da purità di mente o da matto consiglio, non però da certo e chiaro giudicio»; [18]Bocc. Vis. c. 1 «Ben ritenne però il pensier di pria»; vegga-
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sene ancora Fiamm. l. 1 n. 100 e Lab. n. 150; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 20 «Rio è da esser detto quegli che solamente a sé ben desidera, ma secondo però la quantità della fede dell’amico è da amar l’amico»; e c. 29 «Maggiormente è da disusare che da esso [amico] discordare, se però alcuna ingiuria da non sostenere non fosse mossa etc.». [19]Veggansi ancora Pass. f. 104, Brun. Tesoretto [f. 26] «Quelli è largo etc.»; Petr. son. 3 etc.
[20]Ancor per ciò, ma più di rado, si è usato in vece di nondimeno; e si aggiunga quest’altro all’esempio che ne apporta il Vocabolario: Bocc. n. 24 [22] «Ordinatamente (con sua licenza perciò) alla moglie disse ogni cosa».
Aiutare e minacciare col terzo caso.
clxxvii. [1]Aiutare e minacciare si truovano etiandio col terzo caso: Bocc. Lab. n. 236 «Aiuterebbe alla luna»; M. Vill. l. 1 c. 56 «Aiutava l’uno all’altro»; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 27 «A molti minaccia chi a uno fa ingiuria».
Duo e duoi esser voci ancor della prosa.
clxxviii. [1]Il Vocabolario, alla voce due, così ne parla: sempre nella prosa si scrive due, e nel verso duo
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d’una sola sillaba. [2]Pure i seguenti duo e duoi saran tutti di prosa e d’antichi e buoni scrittori: Dante, nel Conv. f. 50 ha duo quattro volte, e f. 31 «Duo cieli», e f. 18 «Duo diversi tempi»; il suo maestro Brunetto nella Rett.: [3r] «Rettorica s’insegna in duo modi», e [9r] «Duo mali», e [17r] «Comprendi duo tempi»; G. Vill. l. 12 c. 55 «Per li detti duoi segni».
Se di presente vaglia solo per ‘subito’ e non ancora per ‘al presente’.
clxxix. [1]Matteo Villani hebbe questa forma di dire continuo alla penna, e per quanto a me ne paia non mai usata a significare altro che ‘subitamente’; nel qual senso la troverete nel primo libro della sua cronaca delle volte almeno cinquanta. [2]Più di rado appresso altri; e se vero è che in tutti adoperata nel medesimo significato, giustamente è passato in conditione di regola il dir di presente per dire al presente esser fallo di lingua, né
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io saprei come mi poter difendere Annibal Caro, che nella sua Rettorica f. 65 disse: «Onde è necessario che tutte le cose dilettevoli consistano nel sentir di presente o nel raccordarsi del passato»; [3]e nelle sue lettere, f. 66 «Ogni dimostratione che vi faccia et ogni sicurezza che v’offerisca si deve credere che sia più tosto per distorvi di presente dal nuocergli che etc.»; e f. 78 «E se io ho suscitato hora questa lite delle primitie, non è stato etc. per far danno a quelli che la posseggono di presente»; e f. 88 «La villa di Camerata non l’affitterebbe, tenendosi di presente a nome del Cardinale»; [4]e nella prima oratione di Gregorio Nazianzeno: «Quando non era ancora il mondo né quel bell’ordine e quella formation che è di presente»; e nella medesima «Quel che mi occorre di presente», cioè al presente. [5]E il Nardi, nel suo volgarizzamento di Livio, dec. 3 l. 1 «Rotta quella fede che di presente havean data»; e l. 2 «Se ad alcuno di presente mancassero i danari»; [6]e ’l Guicciardini, l. 1 Istorie
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«Si proponesse dinanzi a gli occhi non tanto quello che di presente si trattava, quanto quello etc.»; e pochi versi appresso «Irritarlo di presente contra lui etc.»; e nel l. 10 due volte indubitabili, ed anche altrove; [7]e il cardinale Pallavicino nella Storia del Concilio, l. 3 c. 3 «Preso il nuntio per suo tema principale quel ch’era di presente più necessario».
[8]Ma non sarà egli che di questo in iscritture antiche si truovi in lor difesa almeno un paio d’esempi? Io ne ho parecchi, ma per dir vero non così certissimi che non possan ricevere tanto acconciamente l’interpretatione di ‘subito’ come d’‘al presente’. [9]Sol questi due me ne paiono presso a sicuri: F. Barberino, antico sì che ne fa mentione il Boccacci, f. 176: «Ma perch’ora potenza graza [vuol dire grazia] intendo,/ e de’ virtudi insegna / questa parte più degna, / a quella di presente non mi stendo»; e G. Vill. l. 12 c. 50 «E aspettavasi [il re Andreas] di presente d’esser coronato del Reame di Cicilia e di Puglia, e ordinato era in Corte per lo Papa un Legato Cardinale che ’l venisse a coronare». [10]E in questo aspettare d’hora, o d’al presente, fu ucciso.
Se sia mal detto dar testimonio e simili.
clxxx. [1]Prima di farvi a definire che senza peccato in grammatica non si può dar testimonio, rendere testimonio, allegare in testimonio e simili, non vi gravi di leggere questo pochissimo che ne soggiugnerò qui ap-
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presso. [2]Io ben so che la ragione del condannare quelle forme è perciò che, nella stessa maniera che ambasciadore e ambasciata, sono quegli la persona, questo l’atto di lui in quanto tale, così testimoio è chi testifica, la testificatione non è testimoio ma testimonianza; adunque doversi dire rendere testimonianza, in testimonianza etc. [3]E s’io v’allegherò in contrario il Boccacci, che nella Fiamm. l. 1 n. 47 disse «Era il giovane avvedutissimo, sì come più volte la sperienza ne rendé testimonio», indovino che voi mi risponderete il Vocabolario, alla voce avvedutissimo, haver mutato in questo medesimo passo che ivi allega quel testimonio in testimonianza. [4]Pur tutto ciò non ostante, affermo la voce testimonio haver facoltà di tenersi ove il voglia col testimonium de’ Latini, e poter come lui significare ‘testimonianza’; e ne ho testimoni scrittori a’ quali non si può dar eccettione: [5]Brun. Eth. f. 58 «Lo tuo testimonio dà alla verità»; Dante, Conv. f. 49 «In testimonio della fede»; G. Vill. l. 9 c. 135 «Le tue opere etc. facciano di lui vero testimonio»; Bocc. Amet. f. 17 «Della loro durezza rendono verissimo testimonio»; [6]Am. ant. f. 194 «Rendi testimonio alla verità»; Cresc. l. 1 c. 8 «Se si porrà un vello di lana etc., quando si premerà, darà testimonio che etc.»; e quivi appresso «Se suderà etc., darà testimonio che quel luogo sia d’acqua copioso»; [7]Alb. Giud. Tratt. 1 c. 20 «Io a
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testimonio della coscienza ho appreso etc.»; c. 32 «La gloria nostra è lo testimonio della nostra coscienza»; c. 33 «È mestiere ch’egli [il vescovo] habbia buon testimonio da coloro che fuori sono»; c. 44 «Moisè era fedel nella casa sua, sì come servo in testimonio di quelle cose ch’eran da dire».
[8]Quanto a’ moderni, v’ha l’Ariosto c. 19 st. 37 «Un cerchio d’oro etc. / in testimonio del ben etc.», c. 31 st. 33 «Dar miglior testimonio non potete», st. 101 «E chiamò in testimonio tutto il cielo»; il Tasso, c. 14 st. 24 «Sia testimonio a sua virtù concesso»; il Caro, Lett. f. 60 «Facendone quel testimonio ch’io saprò con la lingua», f. 86 «Valermi del testimonio d’huomo tanto honorato», f. 95 «Notissime per testimonio d’ognuno» etc.
Questo detto di cosa altrui presente.
clxxxi. [1]Avvenendovi di nominar cosa d’un altro che v’è innanzi presente, qual de’ due accompagnerete con essa, il questo perch’è cosa presente, o il cotesto perch’è cosa altrui? come a dire «cotesta» o «questa vostra berretta, spada, barba, collera, virtù» che so io. [2]Non vi manca chi vuole il questo doversi adoperare sol nelle cose proprie, il cotesto nelle altrui; e ciò per così stretto modo che il dire «Questa vesta che havete indosso» in vece di cotesta sia fallo senza esempio.
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[3]Se ciò è, converrà dire che habbian fallito senza esempio il Guarini, che nella sua Pastorale introduce Linco dicente ad un altro «E tu non vuoi uscir di questi panni?», e Montano «Lascia a me queste lagrime Carino», parlando delle lagrime di Carino. [4]Parimente il Tasso, c. 2 st. 69 «A non dipor questa famosa spada», cioè quella di Goffredo con cui Alete parla; e c. 12 st. 40 l’eunuco a Clorinda: «Ahi qui ti piaccia / dipor quest’armi e questi spirti alteri»; e c. 18 st. 32 «Togli quest’elmo omai, scopri la fronte»; e nella sua Pastorale «E ammollisca / questo tuo cuor di ferro», «Lascia omai questo tuo tanto lamentarti», «Ond’è questo sudor e questo ansare?», «Che pianto è questo tuo?», «Rasciuga queste tue lagrime».
[5]Hor è da vedere se questi due valenti huomini son proceduti senza esempio, onde per ciò non debbano rimanere in esempio. «Son questi i capei biondi e l’aureo nodo» disse il Petrarca, canz. 47 [359 56] a M. Laura comparitagli in visione; «Qual negligenza, quale star è questo?» disse il vecchio di Dante alle anime che s’indugiavano nel ii canto del Purgatorio [121]; [6]N. ant. 9 «Che fede è questa?»; e n. 56 «Madonna, che modo è questo?»; Am. ant. f. 356 «All’uno dirai: – Vedi questa tua ira etc.»; ne’ quali tre luoghi si dovrebbe il cotesto, a cagion d’esser cose altrui i capelli, il modo, l’ira accennati col questo. [7]E simile de’ seguenti, che tutti sono del Boccacci: n. 93 [9]
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«Buona femina, se’ assai sollecita a questo tuo dimandare»; Fiamm. l. 4 n. 172 «Questo habito di tanta honestà da te preso»; e n. 183 «O Fiammetta, che maniera è questa?»; e l. 6 n. 10 «Che fatica è questa che t’hai presa?»; Filoc. l. 6 n. 138 «Giovane, che pensieri son questi?». [8]E questi pochi de’ troppi altri esempi che ve ne ha bastino a mostrar fallo il dire un tal modo di ragionare esser fallo senza esempio.
Partire senza l’affisso.
clxxxii. [1]Partire e dividere sono in tutto il medesimo. Adunque come sarebbe un maschio errore di lingua il dire «Io divido da Roma», sarallo nientemeno il dire «Io parto da Roma» in vece d’«Io mi divido» e «mi parto».
[2]Ciò presupposto, eccovi un bel drappello di valenti huomini tutti errati nell’usar questo verbo a maniera di neutro. [3]Il Guarini: «Tu trovi chi da te non parte mai»; «Da te parto e non moro?»; «Se quinci non partite sì tosto»; «Di’ poco e tosto parti e più non torna». [4]Il Tasso: «Chi partì con Armida»; «Partimmo
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noi»; «Parte con quel guerrier»; «Ultimo parte»; «Parte e porta un desio»; «Che qual onda del mar sen viene e parte»; «Parti dal vinto suo etc.»; «Su la prima sera / parte etc.»; «E s’altri indi partiva o fea ritorno etc.». [5]Il Casa: Galat. «Anzi e partendo e scrivendo dei salutare etc.»; e nelle rime: «M’hai tu di doppio affanno oppresso / partendo», e «Da me non parte», e «Né rotta nave mai partì da scoglio / sì pentita etc.». [6]Il Bembo: «Poiché il verno aspro e rio / parte e dà loco». [7]Il Caro nelle Lett.: «Il giorno stesso che voi partiste»; «Partirà con la corte»; «Partì per la corte»; «Bisogna che noi partiamo»; «Non è possibile che noi partiamo»; «Un comandamento che non partisse»; «Partirà per costà»; «Partì hier mattina»; «Mi dice che non partirà». [8]L’Ariosto: «E partir gli altri»; «Partì del gregge»; «Quindi partì Ruggier»; «Vuol che partendo toglia etc.»; «Come partendo afflitto»; «Quindi parte a l’uscir del novo raggio». [9]Il Guicciardini usa parte, partì, partissero, partirono etc. delle dieci volte le sette senza affisso etc.
[10]Cento e più somiglianti esempi d’ottime penne potrei addurre, ma bastino gli allegati, con esso questa giunta che lor si può fare, dicendo appena trovarsi
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scrittor di nome che non habbia usato questo verbo partire indifferentemente hor coll’affisso hor senza, e delle volte qual più e qual meno, come lor n’è paruto. [11]Adunque sarà vero che se l’affisso gli si dee, si sottintende, se no (per cagion dell’uso che muta specie e natura a’ segni del cui genere son le voci) non gli è necessario. [12]E qual verbo di sua natura più attivo che muovere? e non per tanto egli, e nella latina e nella nostra lingua, ben si adopera assoluto e neutro. [13]E non ve ne ha mica quel solo esempio che ne allega il Vocabolario, ma quanti oltre a questi pochi ch’io ve ne aggiungo del mio? [14]Brun. Tesoretto [f. 22] «Li fiumi principali / che son quattro, li quali / muovon di paradiso»; e appresso [f. 39] «Che d’orgogliose prove / invidia nasce e move»; Dante, Purg. 30 [38] «Per virtù che da lei mosse»; Petr. canz. 20 [73 68-69] «Simile a quella che dal ciel eterna / move da lor innamorato riso»; son. 89 [11 4-5] «Io per farle honore / mossi con fronte riverente e smorta»; Bocc. Lab. n. 354 «Muovi e andiam tosto»; Cresc. l. 2 c. 9 «Prima pullula e mette il maschio [arbore] per lo caldo e più forte muove». [15]De’ quali ultimi esempi rimane ancora provato muovere neutro non esser sempre né solo ‘cominciare’ (come ha il Vocabolario), ma ‘muoversi’ mutando i piedi.
[16]Torniamo al partire e veggiamo se i moderni hanno errato perché gli antichi non l’hanno usato come essi a maniera di neutro assoluto. [17]Hor io havrei onde po-
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terne allegare parecchi fogli d’esempi. E quanto si è a partito, peroché si adopera assoluto come diviso, mi basterà dirvi che il troverete senza affisso due volte nel Bocc. n. 18, due altre nella n. 23; due volte in G. Vill. l. 11 c. 28 e nel medesimo l. 12 c. 106; tre volte e mille altre in questi e in ogni altro scrittore antico.
[18]Partire infinito, per quanto a me ne paia, ha partito per metà le volte dell’usarlo coll’affisso e senza. Brun. Tesoretto [f. 24] «Mi cominciò a dire / parole da partire», cioè ‘darmi congedo’; e quivi medesimo [f. 21] «Ti prego omai / che ti piaccia partire»; Dante, Inf. 34 [68-69] «Oramai / è da partir che il tutto havem veduto»; Par. 17 [48] «Partir ti convene»; Conv. f. 76 «Da quell’uso partire è partire da essere»; G. Vill. l. 10 c. 180 e due volte c. 197; [19]Bocc. n. 18 [30] «Gli era convenuto partire»; n. 21 [40] «Senza lasciar Masetto partire»; n. 22 [16] «Come che grave gli paresse il partire»; Lab. n. 360 «Al dipartir mi disposi»; Fiamm. l. 1 n. 38 «Il partir mi doleva»; l. 2 n. 37 «Se a te pur fermo giace nell’animo il partire»; e n. 38 «Io immaginando il suo partire»; l. 3 n. 5 «Vederlo nel suo partire non potesti»; e n. 44 «Nel suo partire»; Filoc. l. 6 n. 26, l. 7 n. 13 e n. 449 e 474. [20]E senza numero altri e autori e luoghi, ne’ quali come ognun vede mal si direbbe dividere; adunque dividere e partire non sono quel così tutto il medesimo che ci si presuppone. Passiamo ad altri tempi.
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[21]G. Vill. l. 11 c. 29 «Nel detto anno 1335 etc. partì dal porto di Napoli un’armata»; Petr. canz. 24 [119-111-112] «Se chi m’impose questo / non m’ingannò quando partì da lui»; e son. 229 [267 12-13] «Di speranza m’empieste e di desire / quand’io partì dal sommo etc.»; e son. 316 [352 12-13] «Nel tuo partir partì del mondo amore / e cortesia»; Bocc. Filoc. l. 7 n. 485 «Ma prima che essi partissero»; M. Vill. l. 9 c. 2 tit. «Come la compagna partì»; c. 95 «Partì dunque di corte»; c. 98 «I quali partiro di Parigi»; c. 105 «Partì di Calese».
[22]Brun. Favolello [f. 43] «Da voi fugge e diparte»; Dante, Conv. f. 6 «Che partiron di questa vita già son mille anni»; G. Vill. l. 12 c. 46 «Né altro che partisse di suo paese, arrivasse in Fiandra»; Barb. f. 78 «Verrai per tempo e dietro a gli altri parti»; Bocc. n. 97 [20] «E già non saccio l’hora / ch’io parta da sì grave pena dura»; e Vis. c. 23 «Se tu ten vai / da me il cor partirà nel tuo partire»; Petr. son. 175 [209 1-2] «I dolci colli, ov’io lasciai me stesso, / partendo onde partir già mai non posso»; e son. 274 [314 13-14] «Partendo etc. il cor lasciai»; e son. 286 [329 4] «Partend’io per non esser mai contento etc.».
Eclissi mascolino.
clxxxiii. [1]Di qual genere sia l’eclissi già nol può sapere chi non sa oltre a quel che ne dà a leggere il Vocabolario. [2]Eccone tre testimoni dell’esser maschio: G. Vill. l. 11 «Di quello eclissi», «Oppositione del suo eclissi», «Ov’era stato l’eclissi del sole», che tutti si leggono nel medesimo c. 2; Dante, Conv. f. 19 «Nel-
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lo eclipsi del sole»; Bocc. Filoc. l. 7 n. 44 «De’ suoi eclissi e di quei della luna».
Lui per ‘a lui’.
clxxxiv. [1]Come cui per ‘a cui’, altresì lui si è tal volta usato per ‘a lui’. Non solamente nel verso: Dante, Inf. 15 [34] «Io dissi lui», e quivi medesimo [50] «Risposi lui»; ma altresì nella prosa: Brun. Eth. f. 115 «E lasciato lui piccolo il reame», e pur quivi «Beneficio e gratia lui fatta»; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 26 «Presso il dono non è via da mandarne lui un altro», e c. 29 «Chi s’infinge in parole, fa’ tu lui lo simigliante etc.»; [2]ma non è da usarsi.
Participare col quarto caso.
clxxxv. [1]Il Vocabolario non l’ha, e non è per ciò che cercandone altrove non si ritruovi. [2]In M. Vill. l. 5 c. 45 «Havieno participato lo spargimento del loro sangue»; l. 4 c. 77 «Participavano la cittadinanza del Popolo Romano»; F. Vill. c. 74 «Participando la terra con loro»; e più stranamente M. Vill. l. 8 c. 78 «Al qual [consiglio] participavano».
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Impaurire attivo. Timido per ‘terribile’.
clxxxvi. [1]Non si vuol riprendere il Davanzati percioché nel l. 14 de gli Annali scrisse «Per più impaurire i nemici», usando impaurire attivo. [2]Il Vocabolario non ne apporta esempio, ma pur ve ne ha, e d’antichi e buoni autori: Brun. Rett. [45v] «Cui assicura prodezza, non dovrebbe impaurire l’altrui bellezza»; G. Vill. l. 12 c. 65 «Saettavano pallottole di ferro con fuoco per impaurire e disertare i cavalli de’ Franceschi» – dal qual testo e molto più dal capo intero imparate l’archibuso e la sua polvere esser cosa d’oltre a trecento anni; M. Vill. l. 5 c. 13 «Biasimò la ’mpresa e impaurì il Doge»; e l. 9 c. 59 «Con parole di minacce spaventò e impaurì il fratello».
[3]Allo spaventare neutro, di che il Vocabolario ha un solo esempio di non so qual Vita di Christo, aggiungasi questo migliore di Pier Crescenzi, l. 9 c. 3: «Si deono toccar con mano, accioché non ispaventassero».
clxxxvii. [1]Che poi pauroso si dica ugualmente bene di chi ha e di chi mette paura pruovasi da gli esempi che per l’uno e per l’altro ne allega il Vocabolario. [2]Bel-
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lo è a sapere che ancor timido si è usato per così dire attivo e passivo. [3]E quanto al temere chi è timido, il medesimo Vocabolario per più allegationi il dimostra. [4]Io una sola ne ho per mostrare il timido esser terribile: Bocc. Amet. f. 71 «E tutto il cerchio ripieno di popolo [romano] possente e timido a tutto il mondo»: cioè temuto da tutto il mondo, overo cui tutto il mondo dee o può temere.
Tramettersi col secondo caso.
clxxxviii. [1]Tramettere e framettere, intramettere e inframettere sembrano haver per natura il rifiutare altro caso che non è il secondo, e m’induce a crederlo il vederlo lor dato come per debito da’ seguenti autori d’ottima lingua: [2]Brun. Rett. [9r] «Non usavan framettersi delle publiche vicende», [9r] «Non s’inframettevano delle cose private», [9r] «Né di fare etc. s’inframettevano»; e nel Tesoretto [f. 18] «Ed io non m’intrametto / di punto così stretto», e pur quivi medesimo altre volte; [3]Alb. Giud. Tratt. 1 c. 50 «E sappi che la ventura non si framette di niun che non s’inframette di lei»; e c. 56 «Da incolpare è colui che s’inframette delle cose che non gli pertiene»; e c. 65 «S’inframette di far cose comunali»; e quivi medesimo «E t’intrammetti di molte cose»; [4]Pass. f. 121 «Non si possono intramettere de’ peccati che il Vescovo si riserva»; e f. 124 «De’ quali non si possono intramettere»; e f. 125 «Non s’intrametta di quello che non sa»; e f. 151 «Intramettendosi di cercare o di voler sapere» etc.; e f. 367 «Dello interpretare i sogni molti si sono già intramessi» etc.
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Nessuno esser ottima voce.
clxxxix. [1]Il non leggersi nel Vocabolario più che un paio d’esempi di nessuno in prosa ha fatto credere nessun altro havervene, e più correttamente o più volentieri haver gli antichi adoperato niuno che nessuno. [2]Chi così ha scritto mostra che non habbia letto nell’Ethica di Ser Brunetto f. 113 «Nessuna fortezza, nessuna legge, nessuna ragione»; né nel Convivio di Dante f. 98 «Nessuno diletto maggiore né nessuno altro», «Nessuno dubita», «E però nessuno è etc.»; né in Alb. Giud. Tratt. 2 c. 18 «Nessuni sono più piatti tradimenti etc.»; né in G. Vill. l. 1 c. 38 «Nessuno di loro hebbe etc.»; né nel Cresc. l. 2 c. 16 «I frutti o sono nessuni etc.»; e così d’altri buoni antichi una moltitudine.
Se debba pronuntiarsi amàvamo o amavàmo, e così leggévamo o leggevàmo etc.
cxc. [1]V’è chi pronuntia amàvamo, leggévamo, sedévamo, udìvamo, e così de gli altri medesimi tempi in tutte le quattro differenze de’ verbi. [2]Altri al contrario amavàmo, leggevàmo, sedevàmo, udivàmo. [3]Hor se avverrà che queste due parti litigando fra sé compro-
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mettano in voi, voi per mio consiglio non v’intramettete del sententiare; peroché i primi ne han l’uso
corrente di città intere, i secondi stan su l’antico e per avventura sul vero; che che si dicano alcuni quella prima voce del plurale formarsi dalla prima del singolare aggiuntole un mo: io amava (non amavo), noi amavamo; adunque provenirne amàvamo, non amavàmo. [4]Il verso, che fa la spia alla pronuntia, sempre è per i secondi e non mai per i primi: Dante, Purg. 12 [115] «Noi montavam su per gli scaglion santi»; e 14 [127] «Noi sapavam che quelle anime care»; e 15 [9] «Che già dritti andavamo in ver occaso»; e 17 [76] «Noi eravam dove più non saliva»; ma più chiaramente in fine del verso: Purg. 9 [7-8] «E la notte de’ passi con che sale / fatti havea due nel luogo ove eravamo»; e quivi medesimo [12] «Là ’ve già tutti e cinque sedevamo»; e Purg. 32 [34-36] «Forse in tre voli tanto spatio prese / difrenata saetta, quanto eramo / rimossi etc.» rima con Adamo e ramo; e Par. 24 [117] «Che all’ultime fronde appressavamo» rima con ramo e lodiamo; [5]e Bocc. Vis. c. 48 «Sovra l’herbette lieti n’andavamo», «Hor innanzi hor adietro tornavamo», «In bel soggiorno il tempo passavamo», e c. 49 «Da nulla parte a noi ci sentivamo» etc.
Debbe per debet esser ben detto.
cxci. [1]«Che questa parte al mio Signor si debbe»: così scrisse l’Ariosto, c. 3 st. 1; male, se ne crediamo
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al Ruscelli, che afferma indubitato debbe non essere il deve o dee rispondente al debet, ma essere il debuit de’ Latini e il dovette italiano. [2]Io non ho veduta questa sua osservatione a tempo di trovar più esempi onde convincerla non buona. [3]Pure, in quanto m’ho aperto innanzi il Crescenzi, v’ho trovato l. 3 c. 22 «Toccarsi dal coltivator non si debbe», che manifestamente suona debet; come altresì questo del medesimo l. 9 c. 79 «Ciascuno la notte debbe stare intorno al suo gregge»; e simile il Pass. f. 116 «Quando la confessione si fa legittimamente come si debbe»; e f. 298 «Di queste cose altri non si debbe gloriar vanamente»; e f. 34 «Faccendo l’huomo bene, debbe spregiare d’essere spregiato»; e f. 194 «Non debbi adunque amare etc.», cioè non debes.
Aere ottima voce e d’amendue i generi.
cxcii. [1]Il Vocabolario, alla voce aere ha «vedi aria»; ma nell’aria non v’è fiato d’aere, per ciò si crede non usata da buon autore; dove il fatto è si altrimenti, che l’hanno hor maschio hor femina, e delle volte parec-
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chi: [2]Bocc. n. 21 proem. [Intr. 7] «Il nostro aere»; Lab. n. 357 «L’aere dolce, soave e lieto»; Amet. f. 99 «La caliginosa aere»; Filoc. l. 6 n. 210 «Il pregno aere»; l. 7 n. 301 «Il dolce aere»; e n. 315 «Il circostante aere»; [3]Dante, Inf. 31 [37] «L’aer grossa e scura»; Cresc. l. 1 c. 2 «Aere putrefatto», corrotto, caldo, freddo etc.; e c. 5 «Il sole chiarifica la sua aere, poi si parte da essa e lascia l’aere rischiarato»; e l. 5 c. 2 «Amano caldissimo aere, avvegnadio che nel temperato allignino»; Am. ant. f. [250-]251 «L’aere tratto per fiatamento»; M. Vill. l. 10 c. 93 «Aire serena»; l’ha due volte Ditt.: l. 4 c. 14 «Aer sana e pura», e c. 15 «Chiara e sana»; e per non andar più a lungo, il Petrarca l’ha cento volte.
Scordare per dimenticare.
cxciii. [1]Per niente mi son faticato cercando appresso alcuno scrittore antico il verbo scordare in sentimento d’‘obliare, dimenticare etc.’. [2]Il Vocabolario ne ha un testo del Morgante senza più, e alla voce obbliare aggiunge «dimenticare, scordarsi», tal che l’ammette nel choro delle voci non discordanti e false; e come di buon suono la riconobbe e usolla il Davanzati, Annali l. 3 «Come scordati ch’ei v’era padrone»; il Guarino «Che quasi mi scordai d’essere etc.»; il Tasso c. 13 st. 10 «Per lungo disusar già non si scorda / de
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l’arti etc.»; [3]ma più copiosamente l’Ariosto, del quale eccone alquanti passi: c. 5 st. 14 «Non saria / mai beneficio tal per iscordarsi»; c. 7 st. 68 «A cui (se non ti scorda) tu sai etc.»; e st. 71 «E poi si scorda ov’è riposto»; c. 18 «Non ti scorda / il nobil etc.»; c. 26 st. 136 «Il salutar gli amici havea scordato»; c. 27 st. 137 «Che ’l nome suo non mi si è mai scordato»; c. 31 st. 88 «Non si scordò il Re etc.»; c. 45 st. 29 «Per cui si scordi il primo etc.». [4]Così egli e parecchi altri scrittori d’autorità, che usando questa voce le han dato il correr per buona. [5]E forse da ricordare avran formato scordare, come da ingombrare sgombrare, e tanti altri verbi al cui capo l’s aggiunta o ricambiata con alcun’altra lettera dà forza di significare il contrario.
Malamente bene adoperarsi per ‘male’.
cxciv. [1]Malamente si è condannato l’avverbio malamente adoperato in sentimento di ‘male’, e ciò perché il Vocabolario ne ristrigne il significato ad ‘aspramente, crudelmente, con danno’ overo ‘grandissimamente’; egli non per tanto vale altrettanto bene per ‘male’.
[2]Brun. Rett. [7r] «La gente vivea così malamente»; [8v] «Malamente seguendo la virtude»; [9v] «Favellare tanto e sì malamente»; [10v] «Di mala maniera usano malamente eloquenza»; [27r] «Dunque malamente disse», etc. Alb. Giud. Tratt. 1 c. 38 «Usa delle cose ac-
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cattate, ma non malamente»; G. Vill. l. 4 c. 29 «La città era malamente corrotta di resia etc.».
Mediante dato al plurale.
cxcv. [1]«Mediante il corso del Cielo» fu ben detto da G. Villani e si legge nel Vocabolario alla voce mediante. Se poi, abbisognandoci il plurale, possiamo usare questo medesimo mediante o ci convenga mutarlo in «Medianti le influenze», «Medianti i corsi del Cielo», il Boccacci con un paio di testimoni ci assicurerà del no, dicendo egli Filoc. l. 6 n. 317 «Mediante molti pericoli», e n. 295 «Mediante molti acerbi casi».
Voci sincopate frequenti ancor nella prosa. Altre distese fuor delll’uso commune.
cxcvi. [1]Accioché raccapriccio e orrore non prenda ancor voi, come suole i nulla sperti del ben parlare, i quali udendo ne’ componimenti in prosa nome o verbo sincopato, soffiano e si contorcono come si fa sopra chi parla licentioso (vogliono che si dica adoperare, non adoprare, comperare non comprare, caderà, diritto etc. non cadrà, dritto etc.; peroché un tal sin-
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copare, ch’essi chiamano storpiare, l’han per licenza così propria de’ poeti che non competa in niuna guisa a’ prosatori), io mi prenderò questa briga d’infilarvene qui una filza bastevole non solamente a sodisfarvi, ma forse annoiarvi leggendola. [2]E per non multiplicar soverchio in parole, vo’ che mi basti il null’altro che accennare il luogo dell’autore che l’adoperò.
[3]Adopra e adoprarle: Alb. Giud. Tratt. 1 c. 46. Adoprano: Bocc. Fiamm. l. 5 n. 37; Brun. Rett. § materia [15v]. Oprare: Cresc. l. 1 c. 12 e c. 13; Bocc. Fiamm. l. 1 n. 108. [4]Biasmino: Alb. Giud. f. 46. [5]Accadrà: Am. ant. f. 350. Cadrà, cadranno, cadremo: Am. ant. f. 147; Pass. f. 9, 100, 233; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 48 e 64 due volte; G. Vill. l. 12 c. 18. [6]Comprare, comprato: G. Vill. l. 11 c. 52, l. 12 c. 72; Bocc. Filoc. l. 6 n. 30, 37, 213. [7]Dritto: Bocc. n. 45 [35]; Amet. f. 44; Fiamm. l. 1 al principio; Cresc. l. 9 c. 32; M. Vill. l. 2 c. 52. Drizzato: Bocc. Intr. [102]. [8]Odrò per udire: Alb. Giud. Tratt. 2 c. 9. [9]Spasmo: Cresc. l. 1 c. 2. [10]Sgombrò: G. Vill. l. 11 c. 1, l. 12 c. 16; F. Vill. c. 81 due volte e c. 89 e 90 due volte. [11]Soffrire e sofferto: Alb. Giud. Tratt. 1 c. 35 e 49; Bocc. Fiamm. l. 7 n. 41. [12]Temprò: Bocc. Fiamm. l. 1 n. 73. [13]Vivrò: Bocc. Filoc. l. 7 n. 459. [14]Valno per vagliono (ma non da usarsi): Alb. Giud. Tratt. 2 c. 34. [15]Furno per furono: Dante, Conv. f. 38. Di puonno e denno e fenno parleremo più avanti.
[16]Al contrario. Ponere, opponere e sponere per lo più usato porre e sporre etc.: Am. ant. f. 16 e 109; M.
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Vill. l. 4 c. 53; G. Vill. l. 9 c. 304. Vederai per vedrai, che più volentieri si adopera: Bocc. n. 20 [26]. [17]Similemente: n. 5. Humilemente: n. 11. [18]Tenerebbe: Dante, Conv. f. 2. Convertisca: Cresc. l. 3 c. 3. Seguisce: Alb. Giud. Tratt. 2 c. 25 e 29 più volte; Bocc. n. 32 [3]; Am. ant. f. 479, 481 etc.
Allargamento della voce ambasciata.
cxcvii. [1]Ambasciata avvisa il Vocabolario essere «quel che riferisce l’Ambasciadore, o altro mandato». [2]Ma io o male intendo G. Villani, o ella può essere ancora le persone in opera d’ambasceria e l’ufficio stesso. [3]Descritta dunque che il Villani ha, l. 12 c. 107, la partita di certi Ambasciadori, soggiugne: «Non si ricorda a’ nostri dì sì ricca e honorevole Ambasciata che uscisse di Firenze»; e l. 7 c. 41 «Il Re d’Erminia andò per soccorso alla gran Città del Torigi ad Abagà Cane, e fornita sua Ambasciata, il detto Abagà etc.», cioè il tempo o l’ufficio dell’ambasceria.
Por mente col terzo caso e col quarto.
cxcviii. [1]Che si dica «por mente ad alcuna cosa» parrà sì ragionevole all’orecchio, che chi non sa più avanti, si farà agevolmente a sententiare che «Non si può dire altrimenti a dir senza errore». [2]Così parlaro-
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no Ser Brunetto Rett. [46r] «Ponete mente a le pene di Cesare»; Dante, Par. 24 [7] «Ponete mente alla sua voglia immensa»; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 15 «L’ira a niuna cosa pon mente»; e c. 60 «Pon mente alle cose»; e c. 63 «Posi mente alle opere»; Petr. son. 265 [305 3] «Pon dal Ciel mente a la mia vita oscura»; Trionfo della Fama c. 3 [2] «Pon mente a l’altro lato».
[3]Ma vuol porsi mente gli esempi che sieguono, e vedrassi che contra il por mente col quarto caso, o qual che altro egli sia, non ha voce il non si può: [4]Dante, Conv. f. 30 «Ponete mente la sua bellezza che è grande»; Bocc. n. 79 [108] «Ponete mente le carni nostre»; Alb. Giud. Tratt. 2 c. 17 «Propria cosa è di por mente l’altrui stoltitia e dimenticare il suo vizio»; e c. 25 «Pogni mente lo principio e la fine»; e c. 41 «Se la ragione ben porrai mente»; Pass. f. 276 «Pon mente i sepolcri»; etc.
[5]Ancor da osservarsi è quest’altro del Pass. f. 120: «Tu non di’ nulla al Prete? Tienlo ben mente. Che di’ tu di lui?»
Osservationi sopra il verbo trasandare.
cic. [1]Di questo verbo ho che dirne primieramente essersi adoperato attivo dal Davanzati. [2]Il Vocabolario ne dà in pruova un esempio che per avventura non sodisfarà ad ognuno, cioè «La vigna trasandata». [3]Comunque sia per essere, i due seguenti son suoi e indubitati: l. 1 An-
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nali «Avea trasandato l’esercitarle», e l. 11 «Tanta scienza in Italia antichissima non si trasandasse».
[4]Oltre a ciò si può muover dubbio sopra alcuni tempi di questo medesimo verbo; per esempio, se debba dirsi trasandano o trasvanno; o se almen si può dire trasandano hor che non è più in uso andi e andano, come quando dissero Dante, Inf. 4 [33] «Innanzi che più andi», e Alb. Giud. Tratt. 2 c. 1 «Mezza morta la lasciano e andano via».
[5]Dante, nel Conv. f. 90, scrisse trasvanno, non trasandano; e f. 103 «Accioché non trasvada», e non trasandi; e nell’Inf. 28 [42] «Prima ch’altri dinanzi li rivada», che torna a simile di trasvada.
[6]Ciò nulla ostante io non mi farei a condannare il Davanzati, che nell’xi libro degli Annali scrisse «Se tutte le guerre riandi», e non rivai; e così del trasandano e trasandi.
Lungo per accosto.
cc. [1]Della prepositione lungo data a’ luoghi, come a dire «lungo la via», «lungo il mare», «lungo il lito», il Vocabolario ha esempi; non così del darlo a persona, che pur è bello a sapersi e altrettanto a usarsi. [2]Ma prima è da insegnare a gli stranieri che a viaggiar lungo il lito non è viaggiar per lo lungo del lito, né
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lungo il mare è andare per la lunghezza del mare, ma vicino, rasente, accosto; tal che chi camina sul lito non camina lungo il lito, ma lungo il mare; e chi naviga stretto a terra, naviga lungo il lito, non lungo il mare.
[3]Hor quanto a lungo dato a persona, eccolo in Alb. Giud. Tratt. 1 c. 44 «Due ladroni posti lungo lui [cioè Christo in croce] da ambedue le latora»; Dante, Inf. 10 [52-53] «Allor surse a la vista scoperchiata / un’ombra lungo questa [di Farinata] infino al mento»; Inf. 21 [97-98] «I’ m’accostai con tutta la persona / lungo il mi’ Duca»; Par. 32 [130-131] «Siede lungh’esso e lungo l’altro posa / quel Duca sotto cui etc.»; e nella Vita nuova del medesimo f. 15 «Avvenne etc. che mi parve vedere nella mia camera lungo me sedere un giovane vestito di bianchissime vestimenta».
Se si debba scrivere con la, con le etc. o colla, colle etc.
cci. [1]Chi scrive «Con la penna» e chi «colla penna»: gli uni e gli altri bene e male; bene se, comunque essi scrivano, hanno per altrettanto che il loro buono il
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diverso modo degli altri; male se voglion fare il lor uso debito, il lor piacere misura e regola dell’universo. [2]A me in quest’ultimo tempo piace di scrivere con la e con le innanzi a consonante, colla e colle innanzi a vocale o a voce che incominci da s con altra consonante appresso, e ciò per null’altra cagione che del così aggradirmi all’orecchio; a chi i suoi dicono altramente, scriva altramente, che se vuol tenersi su la regola degli antichi, scriva come gli viene alla penna hor all’un modo hor all’altro, che questa fu dessa l’usata, e da tutti e per tutto il decorso delle loro scritture. [3]Aprianne alla ventura il più vicino de’ tanti che ne ho qui hora davanti, il pulitissimo Passavanti f[f]. 28[-29]: «Giesù Christo ce ne ammaestra per sé medesimo e con le parole e con l’esempio. Con l’esempio che etc. Con la penitenza sua e con la sua tentazione etc. Con la passione e con la morte sua»; voltiamo carta: «Con l’esemplo e con la dottrina», «Coll’esemplo e colle parole»; f. 30 «Con le parole e con l’opere»; cerchianne qua e là in più altri luoghi: f. 9 «Colla giustitia»; f. 6 «Con la dolcezza»; f. 17 «Colla quale s’aspetta»; f. 26 «Colle molte ricchezze»; f. 1 «Con l’effetto»; f. 61 «Con l’albergatore»; f. 210 «Con la carità, colla umiltà e coll’altre virtù». E così per tutto. [4]Prendiamo hora il Decameron: n. 2 [3] «Colle opere e con le parole»; n. 13 [14] «Chi teneva con l’uno e chi con l’altro»; n. 18 [5] «Con la Reina e con la nuora».
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[5]E così per quanti scrittori v’ha e per quante carte hanno i lor libri.
Quando havere vale per essere, il singolare darsi al plurale.
ccii. [1]È osservatione del Castelvetro, che nelle sue Ragioni etc. f. 98 conta, fra gli altri falli di lingua nella canzona del Caro, l’haver detto «Quante etc. v’hanno Ciprigne», dovendosi scrivere v’ha, determinato a servire ad amendue i numeri; come appresso il Petrarca «Due fonti ha» e «Hoggi ha sette anni»; e nel Boccacci «Quanti sensali ha in Firenze», «Quante donne v’havea e ve n’havea di molte», «Non v’havea falconi», «Come che hoggi ve n’habbia de’ ricchi huomini, ve n’hebbe già uno», «Hebbevi di quelli etc.». [2]E scorrettione poscia emendata essere nell’Ameto del 1529 colà ove si legge «O quante ve n’heb-
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bero» in vece di «O quante ve n’hebbe» che di poi emendossi. [3]Così egli: ed io l’ho per vero, ancorché, per essermi scontrato troppo tardi in quel libro, non possa aggiugnervi hora niente del mio.
Messe, promesse, rimesse etc. preteriti.
cciii. [1]Vaglia almeno il sapere havervene de gli esempi, e assai più de’ pochi che io qui ne allego. Brun. Rett. [19r] «Non attese quello che promesse»; [23r] «Dice uno: – Tu mettesti fuoco nel Campidoglio. Egli risponde: – Non messi»; [39r] «Sì come promesse al cominciamento di questo libro»; Dante, Vita nuova f. 14 «Mi messi a cercare»; G. Vill. l. 5 c. 1 «Questi rimesse le voci»; M. Vill. l. 4 c. 77 sottomessero; l. 9 c. 108 si messe; l. 10 c. 96 «Promesse ciascuno»; c. 98 «Gli sommessono il regno», etc.
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Che forza habbia lasciamo stare.
cciv. [1]Questa forma di dire non è in verità negativa, per quantunque ne habbia apparenza, col darsi al soggiuntivo; anzi ha forza d’un certo che simile a non solamente, come più chiaro apparirà in questi esempi: [2]Bocc. narratione della peste «E lasciamo stare che l’un Cittadino l’altro schifasse [cioè ‘non solamente l’un cittadino l’altro schifava’] e quasi niuno vicino havesse dell’altro cura, et i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero et di lontano; [ma] era con sì fatto spavento questa tribulatione entrata ne’ petti degli huomini et delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, et il zio il nipote, et la sorella il fratello etc.»; e n. 23 [10] «E lasciamo stare che io facessi [cioè ‘e non solamente se io facessi’], ma se io pur pensassi cosa niuna etc., sarei degna del fuoco»; e n. 25 [14] «E lasciamo stare che la mia morte non vi fosse honore [cioè ‘e non solamente la mia morte non vi sarebbe d’honore, ma’], nondimeno credo che rimordendovene alcuna volta la coscienza, ve ne dorrebbe d’haverlo fatto».
Appostatamente valere ancora l’apposite de’ Latini.
ccv. [1]Di questa voce il Vocabolario non allega esempio d’autore antico, e l’interpreta ‘consulto, apposta’. [2]Brunetto nella Rettorica l’adoperò ad esprimere il «dicere apposite ad persuadendum», così: [15r] «Appostatamente dire per far credere»; e quivi medesimo: [15r] «L’officio del medico è curare appostatamente per sanare»; e simile [18r] «L’officio del
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parlieri [cioè dell’oratore] è parlare appostatamente per far credere».
Chi dato ancor al plurale.
ccvi. [1]Chi in forza di ‘coloro’, di ‘quegli i quali’ e simili non si accompagnerebbe hora al plurale senza offendersene gli orecchi non avvezzi a sentirlo; come quando si disse Am. ant. f. 222 «Lo sole dal mondo pare che togliano chi tolgono di questa vita l’amistà»; e f. 226 «Chi per utile sono amici»; Alb. Giud. Tratt. 2 c. 25 «Dei vedere chi consentono a queste cose»; G. Vill. l. 10 c. 108 «E chi furono caporali etc. li condannarono»; [2]Petr. canz. 19 [72 33] «Diedero a chi più fur del mondo amici»; Bocc. Fiamm. l. 7 n. 42 «Sono chi pensano ciò da lei etc.»; Amet. f. 80 «O come folli sono e mal sapienti chi per tal modo abbandonan gli affanni».
Causa e cagione, causare e cagionare, lor differenza.
ccvii. [1]Il principio producente o quasi producente qual che sia cosa in nostra lingua non è causa, ma cagione, e il produrre non è causare, ma cagionare; peroché causa è quella che si ha appresso il giudice e si disputa e piatisce. [2]Così han voluto gli antichi, né io, per quanto m’è caro il rispetto che lor si dee, m’ardirei a contradire, molto meno a contravenire a una tale osservanza di buona lingua; avvegnaché, quanto si è a causa, l’Ariosto l’habbia da dodici volte in su non sa-
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prei quante, peroché il più contarne era soverchio: c. 14 st. 106 «Là dove havea più causa di temere»; c. 15 st. 4 «Rodomonte causa del mal loro»; c. 19 st. 59 «La causa che dal porto il tien lontano»; c. 27 st. 82 «Domanda la causa di tant’ira etc.». [3]Così causare nel medesimo sentimento: c. 30 st. 35 «Causate un danno»; c. 31 st. 21 «Danno / lor può causare», e st. 43 «Onde causato sia»; c. 37 st. 76 «La morte fu causata etc.». [4]D’autori antichi io non ho chi m’allegare, fuor solamente l’antichissimo Dante, che nel Conv. f. 89 scrisse «L’una è di naturale sustantia causata», e quivi medesimo «L’altra è di naturale pusillanimità causata»; e f. 100 «Causata dal cielo». [5]Nella Rettorica di Ser Brunetto truovo questa voce adoperata al trattar delle cause, dicendo egli [17r] «Questo modo di causare», cioè d’aringare all’antica. Causa poi non l’ho in valor di ‘cagione’ fuor che nel prolago al l. 4 di M. Villani: «Quelle cose che con giusta causa l’appetito ha richiesto». [6]Forse ve ne havrà altri esempi non venutimi sotto l’occhio.
Con tutto che col dimostrativo.
ccviii. [1]Questa forma fu sovente alla mano di G. Villani, e vale ‘benché, ancora che etc.’, e accompagnolla tal volta col soggiuntivo, tal altra col dimostrativo; e di sol questo, che ad alcuno parrà men doversi, daremo pruove a sufficienza: l. 1 c. 44 «Con tutto che innanzi che si partissono furono sconfitti»; c. 48 «Con tutto che etc. era habituato»; c. 61 «Con
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tutto che etc. la maggior parte morirono»; l. 11 c. 6 «Con tutto che prima havea cominciato»; l. 8 c. 6 «Con tutto che per molti savi si disse»; c. 48 «Con tutto che alla prima mostrò etc.»; l. 12 «Con tutto che quelli etc. era huomo etc.»; c. 27 «Con tutto che etc. se ne andarono»; c. 89 «Con tutto che per li savi e discreti si disse»; l. 7 c. 102 «Con tutto che il detto Nanfur vivette poco».
Concesse e concesso in prosa.
ccix. [1]Il Vocabolario non ne adduce esempio, e potrebbe esser bisogno haverne per difendere chi l’usasse in vece del concedé o concedette e conceduto, che sono le voci o proprie della prosa o più costantemente usate, avvegnaché pur diciamo concessione, che non proviene da concedé o da conceduto: [2]Bocc. Amet. f. 32 «Copiosamente gli concesse Lucina»; f. 40 «Pietosa concesse»; f. 75 «Quelli mi concesse»; f. 83 «Molti compagni gli concesse il vittorioso principe»; Am. ant. f. 398 «Concesso è al demonio»; M. Vill. l. 1 c. 29 «Al quale fu concessa»; F. Vill. c. ult. «Concesse furono».
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Empiere, compiere. Adempiere, riempiere.
ccx. [1]Così veramente si è usato di scrivere da gli antichi, e quindi empié ed empiuto, compié e compiuto etc. [2]Né i moderni che scrivono regolatamente se ne dipartono, se non se nell’infinito quegli a’ quali suona un non so che strano e spiacevole quell’empiére, compiére, adempiére, riempiére, ricompiére etc., peroché così vuol pronuntiarsi a cagion dittongo e del lat. implere, che muta la l in i come in flamma, plenus, floccus, pluma, e che che altri voglia exemplum, templum e cento altre voci. Ma di questo ragioneremo più avanti. [3]Pochi esempi v’ha ne’ poeti onde poter mostrare pronuntiarsi empiére etc. con la penultima accentata, e ciò per la trista rima ch’ella è. [4]A me non è avvenuto di trovarne più che un paio nel Tesoretto del Maestro di Dante: [f. 17] «A ciascun fa promessa / sua domanda compiere», rima di potere; [f. 41] «Come possa compiere / quel suo laido volere»; e due altri nel Barb.: f. 53 «Cosa ch’è bella e lieta compiere», rima di rimanere; e f. 64 «Sien le tue viste a volentier impiere», rima di cherere. Il Vocabolario, alla voce diffinire, ha compiere senza esempio.
[5]Chi poi ama meglio di scrivere empire che empiere, e così de gli altri, ne ha esempio in M. Vill. l. 2 c. 21
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«Riempire i fossi»; oltre all’essersi scritto da Dante «Dolor compito»; dal Petrarca «Favola compita» e «Voglia compita»; dal Crescenzi ricompimento; dal medesimo e dal Petrarca compitamente: de’ quali testi non cito i luoghi, perché gli ha il Vocabolario.
Supplire, signoreggiare, garrire col terzo caso. Chiedere col sesto.
ccxi. [1]Di niun di questi verbi così accompagnati v’ha esempio. Peroché quel gli supplisca del Vocabolario, tratto dalla nov. 69, è quarto caso. [2]Del terzo, eccone il Filoc. del medesimo, l. 7 n. 398 «Alla quale non si potea supplire»; e n. 329 «Al mio difetto suppliscano».
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[3]Alb. Giud. Tratt. 1 c. 24 «Lo servo saggio signoreggerà a’ figliuoli matti»; e c. 56 «Signoreggia all’animo»; Am. ant. f. 292 «A cui la femmina signoreggia».
[4]Pass. f. 81 «Venendo ciò a notitia del padre, garrinne alla figliuola».
[5]Pass. f. 130 «Chiegga licenza dal Vescovo o dal suo Vicario o dal Prete». [6]Ma richiedere col terzo caso hallo Bocc. n. 80 [62] «Se richiesta gli fosse», e M. Vill. l. 6 c. 36 «Havendo richiesto a’ Vinitiani la città».
Arbore e noce in genere feminile.
ccxii. [1]Né pur di questi v’ha esempio nel Vocabolario. E sono del Petrarca son. 226 [263 1] «Arbor vittoriosa e trionfale», e del Bocc. Amet. f. 83 «E questa arbore sotto le cui ombre» e appresso «d’intorno alla quale».
[2]Del noce arbore, Amet. f. 46 «La frigida noce dante a sé medesima co’ suoi frutti cagione d’asprissime battiture».
[3]Al feminile poi del titolo, vaglia per giuoco che feminino e plurale son voci antiche e buone, ancorché di questa non se ne legga esempio e di quella due non so quali; ma elle son l’una e l’altra nella Rettorica di Ser Brunetto, cosa antichissima.
Osservationi sopra il valore e l’uso delle voci italiane.
ccxiii. [1]Non v’incresca di fermarvi un pochissimo incontro a questa processione di voci, e mentre elle a due
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a due vi passano innanzi, avvisarle coll’occhio, sì che dipoi le riconosciate al bisogno che lor verrà dietro. [2]Funerale sustantivo e funtione. Deposito, discredito. Impiego, intreccio. Encomio, esame. Fulmine, fromba. [3]Ricercata, recitamento. Possesso, pranso. Imperio,
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indulto. Visita, vilipendio. Temperie, tirannide. [4]Acclamatione, assistenza. Calunnia, connessione. Talmente, totale. Evento, equilibrio. Intimatione, impegno. [5]Decoro, disgusto. Ritrovamento, riserva. Pesca (piscatio), portata n.s. Maldicenza, multiplico n.s. Nascita, nativo. [6]Tumulo, tugurio. Benefico, brio. Principiante, passaggiero. Scapito, sollievo n.s. Tiro, toccante. [7]Ponderatione, penuria. Delirio, documento. Gesto, gradino. Esule, educatione. Collocatione, cascata. [8]Adito, alunno. Sbarco, sabbia. Ospite, ossequio. Insolito, importanza. Pulpito, precetto. [9]Libreria, lautezza. Allegria, autentichezza. Esclamatione, emolumento. Dettame, disuso. Accompagnamento, accuratezza. [10]Celebre, confacevole. Recondito, regio. Provido, pro-
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prietà. Scorreria, slealtà. Mercantile, malnato. [11]Prestito, pernitioso. Manchevole, memorando. Gastigo, giuridico. Delitto, denuntia. Considerabile, confinante. [12]Aggravio, assunto n.s. Inesperto, indefesso. Equanimità, esito. Speditione, sfogo. Impensato, impressionato. [13]Pretesto, presidente. Narrativa, nuntio. Riforma, restante. Preservativo, protesta. Genio, gustoso. [14]Discendenza, dedito. Circolo, commodità. Sordido, schifoso. Avviso (per ‘novella’), appestato. Disinteressato, delinquente. [15]Intimatione, inappetenza. Posto n.s., probabilità. Nuova n.s., numeroso. Generale n.s., gramaglia.
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Disinvolto, decente. [16]Avversione, avvertimento. Propensione, progresso. Osservanza, orrendo. Scopo, sconvolgimento. Commediante, congresso. [17]Incentivo, ingresso. Distintivo, disimpegno. Inalterabile, imbarco. Condoglienza, complesso. Requisito, rammarico. [18]Purezza, pulitezza. Cimento, consumo nn.ss. Racconto n.s., ricapito. Qualcheduno, qualcuno. Riflessione, risolutione. [19]Indelebile, imaginabile. Sordido, spropositato. Mediocremente, maneggevole. Vivacità, vivezza. [20]Domine, quando havran fine? e pure ancora non siamo alla metà; e conviene dar luogo a quattro verbi che se ne vengono infilzati per alfabeto: [21]accreditare, architettare, asserire, atte-
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stare, alloggiare, appartare, affettionare, ambire, beneficare, conciliare, cimentare, consultare, denominare, deferire, decretare, dissuadere, esaggerare, esiggere, esacerbare, emulare, esultare, eseguire, favorire, invadere, intimorire, inventare, intrudere, insinuare, intimare, incaminare, invigilare, ingolfare, ingratiare, inserire, inorridire, mansuefare, premunire, prefiggere, pregiudicare, predominare, poltrire, pretendere, prevedere, presagire, riferire (per ‘raccontare’), ricambiare, risolvere (per ‘determinare’), sincerare, suggerire, subordinare, spaccare, staccare, sorbire, succedere (per ‘avvenire’, e non ‘venir dietro’), trattenere,
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viaggiare, e che so io, che a tanti che ve ne ha non la finiremmo di qui a trentun di febbraio.
[22]1. Hor primieramente, chi professa uno scrivere e favellare, diciam così, tutto oro di ventiquattro carati, perciò senza mondiglia di pure una voce non passata per la bocca e uscita della penna di qualche scrittore antico, etiandio se non di quel secolo che va con nome dell’ottimo, dicami se per quanto rivolgere del Vocabolario può farsi (e parlo sol di quell’ottimo della Crusca e qui, e per tutto altrove, dovunque nomino Vocabolario) troverà le soprallegate voci sostenute dall’autorità d’alcuno de’ tanti che ve ne ha autori antichi di buona lingua. [23]E trovato, per quanto io habbia potuto vedere, che no, andiam oltre e rispondami se di queste voci egli mai non ne adopera niuna. [24]Se tutte come illegittime le rifiuta, io qui di presente ne reciterò altrettante lor simili, a vedere se né ancora d’esse si vale. [25]Poi havrò che dire assai più del magistero de’ verbi. [26]Ma percioché mi fo non irragionevolmente a credere che voi non siate con voi medesimo così risparmiato e scarso, adunque ci rimane a dire che voi o tutte come vi vengono alla lingua e alla penna le adopriate, o veramente trascelte, cioè certe sì e certe no; e in questo fare havrete qualche riguardo alla ragione, ma più al vostro giudicio e piacere. [27]Eccovi dunque tolto di bocca il non si può verso chi fa come voi, usandone quelle sì e quelle no che più gli sono in grado, o glie le consigli l’orecchio, o ’l bisogno, o l’esempio d’altri, o che che sia quel che fa ragionevole l’operare.
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[28]2. Non percioché non troviate nel Vocabolario autorità di scrittore antico che usasse la tale o la tale altra voce, dovete voi subito farvi a sententiare ella essere senza esempio. [29]I vocabolari non sono quali le cose animate, che hanno, come dicono i maestri, il maximum quod sic oltre al quale non passano; ma crescono per iuxta positionem e appena mai sarà che habbian fine. [30]Ed io conosco qualche dotto grammatico che ha migliaia di vocaboli da doversi aggiugnere al Tesoro della lingua latina, avvegnaché pur ella non cresca, peroché morta; ma razzolando per entro i buoni autori, se ne truovano tuttavia de’ non avvisati da’ primi e secondi e terzi ancorché diligentissimi raccoglitori. [31]Dianne qui nella nostra lingua un qualche saggio, e sian voci, le più di loro, non registrate di sopra e tutte da volersi aggiugnere, etiandio se non tutte da volersi usare; ma si convien saperne ch’elle pur sono buone, peroché usate da’buoni antichi. [32]Atrio: Bocc. Amet. f. 44 due volte. [33]Celebre:
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Dante, Conv. f. penult. [111]. [34]Consentaneo: Alb. Giud. Tratt. 2 c. 25, 34, 47.
[35]Combinatore: Dante, Conv. f. 100. [36]Disvalere: Barb. f. 84. [37]Decente: Amet. f. 45. [38]Decenza: Barb. f. 343. [39]Depurato: Cresc. l. 2 c. 12. [40]Esito: Barb. f. 334. [41]Fulmine: Bocc. Vis. c. 28. [42]Facella: Alb. Giud. Tratt. 1 c. 36; Dante, Purg. 8 [89], Par. 9 [29]. [43]Fattibile: Bocc. Amet. f. 36. [44]Gonfiato n.s.: Bocc. Lab. n. 256. [45]Gesto: Barb. f. 104. [46]Inclinabile: Dante, Conv. f. 1. [47]Intermisto: Bocc. Fiamm. l. 4 n. 133. [48]Intento n.s. in prosa: Dante, Conv. f. 43 e 50. [49]Intoppo in prosa: Pass. prol. Inventivo: Dante, Conv. f. 41. [50]Insetare e insetatione: ivi f. 98. [51]Lievo n.s.: Barb. f. 30. [52]Maravigliante: Am. ant. f. 331. [53]Mutuo: Dante, Conv.
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f. 82. [54]Misusare: Brun. Rett. [6r]. [55]Marangone: Barb. f. 257. [56]Nondimanco: M. Vill. l. 8 c. 59, l. 9 c. 97; F. Vill. c. 90. [57]Nascosaglie: Brun. Rett. [7r]. [58]Nasare: ibid. Osta, ‘donna d’osteria’: Barb. f. 251. [59]Procuro n.s.: F. Vill. c. 65. [60]Plaudere: Bocc. Fiamm. l. 6 n. 20. [61]Perentorio ad.: M. Vill. l. 1 c. 77. [62]Pipistrello: Bocc. Amet. f. 99. [63]Paganizzare: Barb. f. 82. [64]Posto n.s. per ‘luogo’: Bocc. Amet. f. 71. [65]Problemati: ibid. f. 87. [66]Ripatriatione: Bocc. n. 99 [112]. [67]Ricerca n.s.: M. Vill. l. 5 c. 49. [68]Ripieno n.s.: Cresc. l. 6 c. 6. [69]Reggente n.s.: M. Vill. l. 9 c. 98. [70]Savornare la nave: Barb. f. 260. [71]Segià: Cresc. l. 4 c. 12. [72]Sconvenevole n.s.: Brun. Rett. [27r] più volte. [73]Sorgiugnere: Barb. f. 106. [74]Unimento: ibid. f. 39. [75]Vittimato: M. Vill. l. 11 c. 3; e cento altri.
[76]3. A formare, non che sol dare il corso a una qua-
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lunque voce, ha incomparabilmente maggior potere l’uso che l’autorità d’un qualche paio d’antichi, i quali anch’essi, solo ed in tanto la fecero voce legittima, in quanto o la preser dall’uso o, formatala essi stessi d’inventione, la diedero a far correre, cioè a far valere all’uso; altrimenti una voce ch’ei non accetti è mutola, e come il vento se non si muove è morto, così ella, se l’uso non la fa correre, perde l’anima ch’è il significare. [77]«Vedemo nelle città d’Italia – scrive Dante nel suo Convivio [f. 6r] – se ben volemo guardare a cinquanta anni, molti vocaboli essere spenti, e nati, e variati. Onde se ’l picciol tempo così trammuta, molto più trammuta lo maggiore». [78]E soggiugne ciò ch’è verissimo e di gran pro il ricordarlo: «Lo bello volgare [parla dell’italiano] seguita uso, e lo latino arte»; peroché questo è morto, e si de’ stare al detto; quello è vivo, e chi il parla può allargarlo, ristrignerlo, variarlo ad arbitrio dell’uso, ch’è il formator delle lingue. [79]Hor di queste voci, legittime perché usate, avvegnaché non da gli antichi, la lingua nostra pur ne ha una dovitia, e misera se ne mancasse. [80]Que’ valenti huomini che compilarono il Vocabolario ne adoperan parecchi dove parlano essi, pur maestri e giudici del ben parlare; ma perché a’ lor luoghi per alfabeto non vi si truovano, sol perché non v’è scrittore, né pur sotto il buon secolo, che le usasse? [81]Piacevi haverne per esempio alcune poche? Accuratamente il troverete alla
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voce sollecitamente. Accompagnamento a compagnia. Appenino ad Alpe. Assunto n.s. ad assumere. Avviso a novella. Assegnato a parco. Aggravio ad aggravamento. [82]Cognitione a conoscenza. Circolo a cerchio. Conditura a condire. Cessione a cedizione. Consultare a deliberare. [83]Denuntia e denunziazione. Dissuadere a persuadere e dissuasorio. Dubbiezza a dubbietà. Diventare a divenire. [84]Effettuare ad adempiere. Evento a riuscita. Eseguire ad esecuzione. [85]Gustoso a gustevole. Gesto a cenno. [86]Importanza a rilevato. Insolito a disusato e novità. Impressoniato ad affetto ad. Intrinsechezza a fratellanza. Intertenimento a trastullo. Industriarsi ad insegnare. [87]Legnate a carico. [88]Muschio a profumo. Mediocremente a mezzanamente. Manchevole a difettivo. [89]Nascita a guscio. Nativo a natio. Nuova a novella. [90]Osservanza ad ossequioso. [91]Pittura a quadro. Positivamente a cittadinamente. Pulitezza a nettezza. Passaggiere a passaggio. Proprietà a proprietario. Provido a provveduto. [92]Ricapito a capitare.
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Ripentaglio a rischio. Risolutione a deliberazione. Ridicoloso a ridevole. Ritrovameto ad invenzione. [93]Schiavitù a cattività. Solito a solere, ordinario, consueto. Successo a riuscita. Speditione a spaccio. Scordare ad oblivisci. [94]Testura a dettato; etc. [95]Le quali tutte, e cento altre lor somiglianti (cioè senza autorità, diciamo hora così, di scrittore antico o moderno che vaglia), se son voci buone, vorranno haver luogo nell’alfabeto; se non sono da potersi usare, malagevole riuscirà il dar ragione del pur essersi usate.
[96]4. Dove altri adoperi un qualunque vocabolo, etiandio se per natione straniero o per nascimento novissimo, tanto solamente che chiaro a intendersi, proprio a significare e di suono niente spiacevole a gli orecchi, a me pare niun poterlo riprendere altrimenti che s’egli habbia a potergli sustituire un altro vocabolo fatto già della nostra lingua, o per autorità, o per uso, il quale, in quanto è forza d’esprimere e leggiadria e dolcezza di suono, possa e vaglia altrettanto che il nuovo e lo straniero. [97]Dove no, irragionevole meschinità d’animo è voler la nostra favella quella povera di vocaboli che ce l’hanno tramandata gli antichi e di non molto accresciuta i moderni. [98]Anzi, non dirò solamente richiederlo la necessità del bene isporre i suoi pensieri, ma altresì la ricchezza e la co-
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pia, che pur è tanto pregevole in ogni lingua; e debito, non solamente bellezza, è il variar delle voci ove si convien più volte ridir la medesima cosa, o ragionarne a lungo come si fa ne’ libri, né ad ogni materia si confa il ragionar metaforico in supplimento del proprio. [99]Come dunque chi a un sonetto, cosa di cinquanta parole, consentisse la libertà dell’usar voci non isceltissime e pure, non ben farebbe; altresì, e peggio, chi a un volume non concedesse maggior libertà di quella a che giustamente si obliga un sonetto.
[100]5. Corre appresso molti per regola del migliore scrivere italiano partirsi quanto il più far si può dal latino. [101]Io non vo’ farmi a disputar questa quistione, nella quale v’è il suo che dire per amendue le parti, e il suo non saper che dire chi la s’inghiotte così intera come si fa delle regole generali, havendo ella tante e sì svariate eccettioni che di poco non le riman forma di regola. [102]Quanto a’ vocaboli, de’ quali soli ho preso qui a ragionare, dicami chi veramente il sa, perché cœlum e terra, corpus e anima, vinum e aqua, amor e dolor etc. ci dian queste ottime voci italiane: cielo, terra, corpo, anima, vino, acqua, amore, dolore etc.; e non altresì examen, fulmen, celebris, imperium, scena, calumnia, tugurium, insolitus, exclamatio, hospes, nuntius, delictum, propensio, decens etc., sì che dobbiam dire disaminamento o esaminanza, non esame, saetta o folgore, che pur sono voci latine, non fulmine, consueto o usato, non solito, e inusitato, disusato, strano, non insolito; e così d’altri, e molto più se non ha
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venti scambio di voce tanto italiana che non sia punto latina? [103]Né varrebbe punto il dire gli antichi haver trascelte dalla lingua latina le voci sole esse dicevoli ad usarsi nell’italiana. [104]Leggasi Ser Brunetto e il Convivio di Dante, e parecchi opere del Boccacci, e ’l volgarizzamento di Pier Crescenzi e l’altro d’Albertan Giudice, e vi si troveranno per entro a sì gran copia vocaboli intolerabilmente latini che adoperati oggidì sentirebbono del pedantesco. [105]La lingua latina è la miniera dell’italiana e può ognun cavarne quel che gli fa bisogno, salvo il suo dovere al giudicio e all’uso; e ogni tal voce, usata o no che l’habbian gli antichi, pur sarà antica e buona al pari dell’altre. [106]Così a me ne pare; paiane come vuole a chi siegue altri principi.
[107]6. Dove habbiamo nelle scritture antiche per esempio il nome, e non il verbo o l’avverbio, o questo e non quegli, il farlisi da sé stesso con discretione e consentimento del giudicioso orecchio l’ho per licenza da non doversi contendere o disdire a veruno. Similmente de’ semplici far composti, massimamente valendosi delle particelle che pur si danno per giunta a certe voci, e han forza qual di trasmutarne il significato in contrario, qual d’ingrandirlo o in altre maniere qualificarlo: [108]come a dire stra, onde straricco, stravolto; tra e tras in trasognato, trasandato, trasmesso; di e dis in dimesso, diporre, dismesso, disdire; fra in framettere, fraporre, frastornare; e sotto e con e tante altre che ve ne ha e possono applicarsi ad altre voci etiandio con ingegno.
[109]7. Finalmente, i vocaboli propri de’ mestieri, delle
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arti, delle professioni, delle scienze, son dessi i veri quegli che corrono per le botteghe, per le scuole, per gli uffici, per i mestieri, e vanità sarebbe il cercarli appresso gli antichi, che delle mille parti non ne hanno le due, e quelle stesse tolte di bocca al mestier che le usa; come il Barberini quelle poche anticaglie che ha della marinaresca nel Documento della Prudenza, il volgarizzator del Crescenzi dall’agricoltura, Dante dalla filosofia nel Convivio e nel Paradiso, i Villani dall’arte militare com’era in uso a que’ tempi, etc. [110]E ben sarebbe fatica e opera di gran merito per chi si prendesse a compilarne un vocabolario da sé, massimamente se alle semplici e nude voci aggiugnesse i modi propri di ciascuna arte e professione, che ciascuna gli usa proprissimi, e si convengono sapere da chi non vuole in materie particolari adoperar maniere communi e le più volte aliene e disconce. [111]Io per mio uso v’ho spesa intorno qualche non infelice fatica, ma cosa non dirò buona, ma certamente ottima non ci può venire altronde che da Firenze.
[112]E delle voci italiane siane in questo poco detto a
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bastanza, sì veramente che vi s’intenda per tutto doversi adoperare il giudicio e presupporre lo studio, che l’uno senza l’altro non basta a far maestro; e in chi si truovano amendue, voglionsi se non seguitare, certamente non gittarsi a riprendere certe diversità che non si affanno alle regolette che gli appena scolari nel cinguettare in buona lingua hanno per avventura udite o lette, e senza più credutele come si fa de’ principi che chiamano per sé noti, e con esse in pugno la prenderebbono contro all’Oracolo della lingua italiana. [113]Dal poi richiedersi studio, e perciò tempo, è necessario a seguirne il sempre farsi migliore; e pure, intanto scrivendo e paragonando le prime fatiche con le ultime, dispiacere a sé stesso in quelle, emendarle se può, rammaricarsene se non può; ed io son un di questi. [114]Scrivendo (dicea di sé stesso il dottore Sant’Agostino) imparo a scrivere, tutto insieme discepolo e maestro di me medesimo. [115]Perciò, quanto altri più vede e sa, tanto meno s’arrischia allo scrivere sotto le sue opere il fecit, ma, come quel gran maestro nell’arte sua, il faciebat, riserbandosi, in quanto non le dà per interamente perfette, il rifarvi sopra la penna a ritoccarle, e torne, e migliorare, e mutare quel che sfuggì da gli occhi che havea quando scrisse, e questi d’hora il veggono, e lor dispiace. [116]Ed io, senza maravigliarmene, ho veduto huomini di grande ingegno pu-
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blicare al mondo i loro componimenti di qualunque materia si fossero, e sostenervi, quante propositioni, alrettante evidenze; poscia a non molto ritrattarle come fallacie. [117]Come altresì volere i suoi pensieri per regola di tutto il genere umano in quanto è sapere, e le sue regole emendatione di tutti, etiandio i più riveriti e ammirati poeti greci e latini, o di qualunque altra maniera scrittori dell’antichità, seguitati da gl’Italiani altrettanto buoni maestri in quel medesimo genere di componimenti; quasi non fosser loro venute in mente quelle non sottilissime osservationi, e con un giudicio superiore non le havessero ributtate come non convenevoli d’osservarsi.
Denno, fenno e puonno adoperati in prosa.
ccxiv. [1]Tutti e tre questi modi propri del verbo truovansi adoperati in prosa (ma con più licenza che il lecito non consente) dal volgarizzatore d’Albertan Giudice; e per me vaglia il saperlo a nulla più che saperlo.
[2]Denno dunque per debbono hallo parecchi volte;
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basti allegarne due capi del ii trattato: c. 38 «Li buoni denno amare li giudici», e quivi appresso «Li rei denno temere li giudici»; c. 47 «Denno esser fatte», «Far denno incontanente», «Cotali religiosi non denno combattere con le mani.
[3]Puonno per possono è nel medesimo trattato, c. 2: «Il segreto consiglio celar non puonno».
[4]Fenno per fecero quivi medesimo, c. 34 «Quelli che ti fenno questa ingiuria»; c. 36 «Con quella forma lo fenno»; c. 47 «Come etc. molti pugnatori fenno».
Il dimostrativo dato alla particella che dove parrebbe doverlesi il soggiuntivo.
ccxv. [1]L’orecchio avvezzo a udire il soggiuntivo soggiunto alla particella che, di leggieri avverrà, in chi non è nulla sperto ne’ buoni autori, che udendole dato il dimostrativo, se ne risenta, e la lingua gridi farsi fuor di regola, peroché contra natura di tal particella e contro alla consuetudine dell’usarla. [2]Ma l’uno e l’al-
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tro tanto non possibile a sostenersi vero, quanto è vero haver detto il Boccacci, n. 79 [62], «Io fo boto, che io mi tengo a poco, ch’io non ti do tale in su la testa che il naso ti caschi nelle calcagna»; e n. 42 [41] «Presso fu che di letitia non morì»; e n. [v 6 22] «A poco si tenne che quivi, con un coltello che a lato havea, amendue non gli uccise»; e n. 20 [20] «E specialmente lei, che è la più piacevole ch’io vidi mai»; e n. 98 [57] «Dobbiam credere che dispongono e governano noi»; [3]Am. ant. f. 72 «Niuno dubita che le cose con malagevolezza cercate sono più gratiosamente trovate»; e f. 293 «Parmi che al tutto son bestiali»; e f. 157 «Usanza romana è che le svariate cose danno dilettevole sapore»; [4]Pass. f. 125 «E può avvenire che [il peccatore] per lo sdegno si dispera e non va a confessarsi da altro sacerdote»; e f. 336 «Dio vieta che non si dee ricorrere a loro»; [5]M. Vill. l. 6 c. 41 «Di poco fallò che non entrarono nella terra»; e l. 3 c. 50 «A pena fu ritenuto che non cadde»; e l. 4 c. 39 «Il quale, vedendosi in tanta noia di sollecita guardia, fue hora che innanzi vorrebbe essere stato altrove», per havrebbe voluto.
Ancor la particella sì veramente accompagnata col dimostrativo.
ccxvi. [1]Non vi bisogna preambolo, essendo questa e la precedente una medesima osservatione. [2]Adunque eccone testimonio il Bocc. n. 2 [10] «Son dispo-
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sto a farlo sì veramente che io voglio prima andare a Roma»; n. 19 [22] «Sì veramente che tu mi prometterai»; n. 27 [68] «Voi udirete novelle che vi piaceranno sì veramente se io l’ho buone»; n. 28 [76] «Sì veramente che etc. si trovava»; n. 95 [22] «Voi potrete partire sì veramente che voi al vostro marito etc. quelle gratie gli renderete etc.»; [2]Am. ant. f. 215 «Concedette che una sua figluola andasse a lei sì veramente che non le lasciava portare niuna cosa da mangiare». [3]Tutto suona ‘in tal modo’, o ‘per modo che’ etc.
Certe voci del genere feminile che accresciute divengono maschie.
ccxvii. [1]Paroloni, scrisse il Davanzati nel i de gli Annali di Tacito, e letteroni nel terzo; e v’hebbe a cui leggendolo parve trasformatione sì contro alle leggi della natura, che cercò nell’Errata se lo stampatore se ne accusava come d’error troppo maschio, parendogli le gran parole essere parolone, e le lettere, col divenir maiuscole, non farsi letteroni ma letterone. [2]Miracolo che non gli risovvenisse le lanterne ingrandite diventar lanternoni, sì come appresso il Crescenzi le forche forconi, le ronche appresso il Boccacci ronconi, le unghie nell’Inferno di Dante unghioni, le volpi e le falci in M. Villani esser volponi e falcioni, e le finestre finestroni, le barche barconi, le rose rosoni, le macchie macchioni, le stanghe stangoni, e così l’altre femine che si crescono con la medesima terminatione. [3]Il diminuir no che di tanto non si privilegia, e quindi barchet-
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ta, forchetta, finestra etc., benché pur v’habbia appresso G. Villani e Boccacci Filoc. l. 6 n. 40 i colonnelli in vece di colonnette.
Proprietà de’ verbi che servono alla memoria.
ccxviii. [1]Ricordare, rimembrare, rammentare, dimenticare ben si sono usati alla maniera commune io mi ricordo, io mi dimentico etc., ma parecchi volte ancora com’ella fosse terza persona: [2]Bocc. Fiamm. l. 4 n. 95 «Egli mi ricorda», cioè memini, e l. 3 n. 30 «E ricordami che io etc.», e n. 56 «Mi ricorda ch’io piansi»; e Nov. Intr. [107] «Ricordivi che noi siam tutte femine», n. 17 «Di tanto mi ricorda che etc.», n. 27 [24] «Ricordavi egli che voi mai haveste etc.»; [3]Alb. Giud. Tratt. 1 c. 25 e 26 «Ti ricordi [memineris] di lodarlo»; Pass. f. 75 «Sempre che all’huomo ricorda del peccato»; M. Vill. l. 9 c. 15 «I savi che ricordano delle cose antiche»; N. ant. 25 rimémbravi (meministi); Am. ant. f. 248 «Non mi dimentica che la ’nvidia etc.»; Petr. son. 13 [15 12] «Ma rispondemi Amor – Non ti rimembra / che questo etc.».
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ccxix. [1]Ben si dice «succedere alcuno all’imperio» e altrsì bene «l’imperio succedere ad alcuno». [2]Ne son piene le cronache de’ tre Villani: Giovanni l. 5 c. 37 «Le sue case succedettono per retaggio a’ Conti etc.», l. 12 c. 6 «A cui succedea il reame di Cicilia», e c. 50 e 53, e 84 «Il paese che gli succedea per retaggio», c. 106 «Al quale succedea d’essere Re di Cicilia», e quivi «Il Regno di Puglia etc. che gli succedea»; M. Vill. l. 2 c. 28 «A cui succedea l’Imperio», l. 10 c. 70 «A cui la corona succedé»; F. Vill. c. 76 «Il reame succedette a Carlo».
[3]Succedere per ‘avvenire’ assolutamente si tien più coll’uso che coll’autorità. [4]Così il Davanzati disse nel xii de gli Annali «Succedevano queste cose per essere i Parti impacciati etc.». [5]Ma dove il succedere è ‘venir dietro’, si de’ havere per ottimamente detto. [6]Così il Boccacci n. 79 [4] «Alle quali [apparenze] come gli effetti succedano, anche veggiamo tutto giorno».
Quanto che per avvegnaché, ancorché, benché etc.
ccxx. [1]Di questa ottima particella il Vocabolario ha un solo esempio, tratto dalla Cronaca di Pier Velluti, testo a penna. [2]Cento di miglior mano se ne possono allegare, e ne bastin per saggio questi pochi tutti del
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l. 9 della Cronaca di M. Villani: c. 7 «E quanto che questi servigi perduti conturbassono assai il nostro Comune, quello che non si potea smaltire era che etc.»; c. 8 «E quanto che dalle ragioni di sopra fossono indotti, pur gl’indusse in sospetto etc.»; c. 13 «E quanto che all’anima poco fruttasse, pure nello stremo fe’ testamento»; c. 39 «E quanto che sua vita fosse con molta guardia e cautela, difendere non si seppe da morte»; c. 41 «Quanto che la pace fatta tra due Re d’Inghilterra e di Francia fosse nonnulla, nondimeno etc.»; c. 59 «Le parole, quanto che assai fossono amorevoli, furono gravi e sospettose al tiranno etc.».
Del per di bene e vagamente usato.
ccxxi. [1]Truovasi parecchi volte il sì e ’l no accompagnato col del dove pur si potrebbe col di: Bocc. n. 17 [94] «Antigono rispose del sì»; F. Vill. c. 70 «Verisimile parea del sì»; Bocc. n. 7 [20] del no; n. 36 [33] «Tutti affermaron del no»; M. Vill. l. 8 c. 88 «Havendo risposto del no».
[2]E altrimenti G. Vill. l. 7 c. 7 «Il Re Manfredi prese partito del combattere»; Bocc. n. 17 [102] «Domandato da lei del come»; così ancora n. 77 [39] «Né vedendo il come».
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Né non non valer più che né solo.
ccxxii. [1]Un foglio intero d’esempi se ne potrebbe allegare, ma a dir vero senza altro maggior merito che di patienza leggendoli. [2]Bastino questi pochi: Bocc. n. 12 [12] «Né gà mai non mi avvenne»; n. 26 [46] «Né io non v’ho ingannata per torvi il vostro»; Brun. Tesoretto [f. 40] «Né di mente non gli esce»; Albertano Giudice l’ha cento volte, e quattro d’esse nel picciol capo 27 del tratt. 1; [3]Pass. f. 20 «Né non me ricordava»; f. 35 «Né non dee il buon huomo cercare etc.»; e quivi pure «Non se ne curava, né non lasciava il bene»; f. 85 «Né non haveva dolore, né non haveva proponimento»; G. Vill. l. 5 c. 29 «Né nullo popolo o setta non ha tanta Signoria»; e l. 7 c. 5 etc.
Senza più non significare altrimenti da quel che suona.
ccxxiii. [1]Questa forma, senza più, usata a maniera d’avverbio, il Vocabolario insegna valere ‘dopo, appresso, subinde’, e ne allega in fede un solo esempio del Boccacci, Intr. [105] «Le vivande dilicatamente fatte vennero, e finissimi vini fur presti, e senza più chetamente li tre famigliari serviron le tavole».
[2]Ma io non so farmi a intendere come senza più vaglia per ‘dopo’ o ‘appresso’ o per null’altro che senza più,
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sì bello e chiaro da sé che non ha mestieri chiosa né interprete. [3]Quattro esempi, tutti e quattro del Boccacci, ne apporterò; voi a ciascun di loro applicate il dopo e l’appresso, a vedere se si comporta coll’intention dell’autore: n. 29 [4] «Havea un suo figliuol piccolo senza più»; n. 18 [7] «Essendosi morta la donna di Gualtieri et a lui un figliuol maschio et una femmina piccoli fanciulli rimasi di lei senza più»; n. 13 [37] «L’abate, con gli due cavalieri e con Alessandro senza più [cioè soli essi] entrarono al Papa»; n. 88 [11] «Hebbero etc. del pesce d’Arno fritto senza più», praetereaque nihil.
Una libbra e mezzo è ben detto.
ccxxiv. [1]L’ho dalle giuste bilance di G. Villani, che nel l. 12 c. 12 lasciò la memoria che libbra una e mezzo è forma di buon peso, né si dee voler farvi la giunta di quel poco più che havrebbe il dire libbra una e mezza. [2]Con Giovanni si accorda Matteo suo fratello, dicendo l. 10 c. 31 «Un’hora e mezzo».
[3]E non è sola questa voce ad usarsi non accordata, ma in maniera da sé: Bocc. n. 48 [41] «E tanto [cioè tanta] fu la paura che di questo le nacque»; G. Vill. l. 11 c. 139 «Che tutta fu vero [una profezia]»; e l. 12 «La qual cosa non fu vero»; Petr. son. 136 [168 5-6] «Talhor menzogna e talhor vero / ho ritrovate le parole sue».
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Sanare neutro, enfiare attivo, ammalare neutro passivo.
ccxxv. [1]Il non trovar nel Vocabolario esempio di questi verbi, l’un neutro e l’altro attivo, il terzo neutro passivo, potrebbe agevolmente condurvi a metter mano al non si può e ferir con esso, e pentirvene, peroché «Piaga per allentar d’arco non sana», disse il Petrarca son. 70 [90 14], «La mia mente s’argomentava di sanare»; e di poi Cresc. l. 1 c. 5 «Soglion bene smaltire ed esser di lunga vita, e ne’ lor corpi tosto sanano le piaghe».
[2]Quanto ad enfiare attivo, di che i Morali di S. Gregorio, volgarizzamento di lingua giudicata poco autorevole, non fan pruova che basti, eccone del buon secolo il Crescenzi l. 9 c. 14 «Si fanno nei cavalli, e specialmente nel capo, diverse piaghe, e le più son piccole ed enfiano il detto capo»; e detto ivi appresso «Quando le gangole cominciano ad enfiare», soggiugne, «soprabbondino gli umori ed enfino di soperchio le gambe».
[3]Del terzo ho G. Villani, che lasciò scritto l. 6 c. 42 «Federigo Imperadore etc. si ammalò forte».
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Particelle etiandio con vaghezza non che sol lecitamente trasposte.
ccxxvi. [1]Gli antichi prosatori hanno assai delle volte trasposte alcune particelle, da osservarsi utilmente da’ meno sperti accioché non le credano o licenze poetiche o errori, e da’ più savi accioché pur le adoprino dove e quando la materia e l’orecchia il comporteranno. [2]Esempi ne allegherò in numero più che bastevole a far vedere che il così trasporre non fu stranezza d’una o due volte, ma uso.
[3]Bocc. Fiamm. l. 1 al principio [n. 8] «Io ci pur sono», in vece d’«Io pur ci sono»; e simile de’ seguenti: Fiamm. l. 4 n. 37 «Ogni dura cosa in processo di tempo si pur matura e ammollisce»; e n. 41 «E s’ella gli pur piace»; e n. 178 «Quando gli pur piacesse»; e n. 151 «Vi pur si beve»; Lab. n. 91 «Poi ne domandi, tel pur dirò»; Amet. f. 33 «appena mi pur rispose»; e f. 34 «Vel pure dirò»; nov. 75 [18] «Io ci pur verrò»; n. 79 [69] «Che io vi pur rimanessi»; n. 98 [48] «Vel pur mandò» e [60] «Il pur farò»; N. ant. 35 «Vedendo il Re ch’ei si pur rammaricava»; e 62 «Ma da che vi pur piace» etc.; che tutte sono traspositioni della medesima particella pure. [4]Le seguenti saranno di mi, vi, ti, ci etc. posposte ad il, la, lo, com’è facile ad osservare.
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[5]G. Vill. l. 12 c. 113 «Per dare alcun diletto etc. il ci misi»; Bocc. Fiamm. l. 4 n. 112 «Ma tutto il si perdono»; nov. 41 [7] «Sì come la sua fortuna il vi guidò»; n. 49 [16] «Il ti recherò»; n. 79 [15] «Io il vi dirò», [30] «Voi il vi potete vedere», [32] «Che essere il vi facciate»; n. 85 [34] «Quando il ti diceva»; n. 27 [56] «Che io il vi prometta»; n. 30 [3] «Io il vi vo’ dire»; G. Vill. l. 12 c. 44 «Se l’havesson preso il s’havrebbon tenuto etc.».
[6]Bocc. Fiamm. l. 7 n. 14 «Quivi la mi par vedere»; nov. 38 [8] «Egli la si prenderà»; n. 79 [53] «Per cui io potendo la mi facessi», [111] «Non la ci farà»; n. 85 [5] «La vi dirò»; N. ant. 2 «Se non la mi dirai», n. 3 «La ti dono volentieri», n. 35 «Che trarre lo ne potessero», n. 74 «Io lo mi terrò» etc.
Fidare e confidare ancor senza affisso. Fido ottima voce da prosa.
ccxxvii. [1]Più volentieri si è detto fidarsi e confidarsi neutro passivo, che neutro. [2]Un solo esempio ha il Vocabolario di fidare senza l’affisso: Dante, Inf. 11 [53] «Colui che in lui fida». [3]Aggiungansi questi pochi altri: Par. 18 [10] «Non perch’io del mio parlar disfidi»; Bocc. Filoc. l. 7 n. 76 «Nella vostra nobiltà confido»; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 9 «Li non conti sono da schifare come nemici e non è da fidare in loro». [4]E confidarsi col terzo caso il truovo in M. Vill. l. 4 c.
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91 «Niuna terra si volea più confidare alla loro promessa».
[5]Al fido della nov. 48 del Boccacci aggiungasi l’altro della n. 41 [54]: «Compagno migliore né più fido», e quivi medesimo [60] «Né più forte né più fido compagno di me»; e quello d’Albertano Giudice, Tratt. 2 c. 20 «Nessuno è assai fido a cui elli teme».
Diventare esser buona voce.
ccxxviii. [1]Il Vocabolario non l’ha; crescendo col tempo havralla; intanto, accioché niun la rifiuti come fosse illegittima, eccola nel Crescenzi proem. «Diventano ereditari etc.»; l. 3 c. 8 «Il campo non diventa fruttifero»; e l. 6 c. 21 «Diventeranno dolci»; e quivi appresso: «Diventeranno altrettali».
Se talento per gratia, dono etc. habbia esempio d’autorità.
ccxxix. [1]Se gli antichi nostri italiani ci udissero, ragionando d’alcuno, dirne «Egli ha talento di predicare, di dipingere, di governare», dove noi vorremmo significare ‘attitudine, dispositione, gratia, dono, etc.’, essi intenderebbono ch’egli ne ha volontà o desiderio; peroché appresso loro «Haver talento di mangiare» era ‘haverne voglia o desio’, «Vivere a suo talento», «Essere di mal talento», «Venire o sorger talento» etc. tutto si riferiva a volontà, appetito, brama etc.
[2]Pur nel Passavanti truovo questa voce sustituita a
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significare i quinque talenta dell’Evangelio: f[f]. 24[-25] «Al servo che nascose il talento del suo Signore etc. fu tolto il talento. E sarà giudicato disleale servo colui che il talento perderà»; e f. 25 «Intendesi per lo talento commesso al servo la grazia, il conoscimento, il tempo, il buon volere che Iddio dà all’huomo». [3]La quale interpretatione verissima, e perciò amplissima, pare che con questo medesimo tanto distendersi renda men proprio il talento al senso in che noi l’usiamo.
[4]Ma forse, prima del Passavanti, il maestro di Dante l’adoperò come noi strettamente, colà dove nel Tesoretto disse così: [f. 18] «Ed io non mi trametto / di punto così stretto, / e non aggio talento / a sì gran fondamento / trattar con uomo nato». [5]Qui talento pare haver forza di ‘sufficienza, attitudine etc.’ più tosto che di ‘voglia’ o ‘desiderio’.
Compositione e componimento.
ccxxx. [1]«Per lo più componimento si dice di poesie e d’altre scritture d’invenzione»: così ne parla il Vocabolario; e truovo appresso alcuni regola ferma il non potersi usare compositione in materia d’ingegno, ma sol ne’ mescolamenti delle qualità o de’ corpi sensibili. [2]Gran segreto di natura! Mentre pur l’uno e l’altro nome proviene dal medesimo verbo comporre, e tanto il componimento quanto la composizione accozzano e permischiano varie cose in uno, tal che mal si potrebbe rispondere a chi dicesse che o né l’un né l’altro, o vagliono amendue. [3]Il Caro nelle sue Lettere, f. 33,
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50, 52, 84, 99, 106 etc. usò compositione per quello stesso che gli altri chiamano componimento, in quanto è lavoro d’inventione e fattura d’ingegno.
Dovitie per ricchezze.
ccxxxi. [1]Dovitia e divitia è veramente ‘copia’ e ‘abbondanza’, e altresì come ricchezza suol darsi al bene e al male, potendosi così havere agi come disagi a dovitia. In tal sentimento nol truovo usato fuor che in numero singolare.
[2]Altresì solo in plurale, dovitie e divitie per ‘ricchezze’, e non ve ne ha solo un misero paio d’esempi e non so di che autori. [3]Veggasi Dante nel Convivio f. 80 e 81, e vi si troveranno indifferentemente divitie e ricchezze parecchi volte. Veggasi Alb. Giud. Tratt. 2 c. 34, 36, 42 etc. e similmente ne havrà esempi a dovitia.
Il superlativo col secondo caso.
ccxxxii. [1]Non accioché l’usiate, ma solamente il sappiate e sapendolo non condanniate per la legge non si può chi l’usasse, ricordo haver Dante nel suo Convivio accompagnato latinissimamente il superlativo col secondo caso plurale, e ciò delle volte parecchi: f. 32 «La rettorica è soavissima di tutte l’altre scienze», cioè infra tutte l’altre scienze; e così de’ seguenti: f. 26 «La natura humana è perfettissima di tutte l’altre nature»; e quivi medesimo «L’huomo è perfettissimo di tutti gli animali»; f. 46 «Gentilissima di tutte le cose che il sole allumina» etc.
Degnare attivo, neutro, neutro passivo.
ccxxxiii. [1]«Degnare uno d’alcuna gratia» o «Degnarsi di fargliela» e simiglianti modi, gli ho per mio
bisogno cercati in quanto è lungo tutto il buon secolo della lingua, né fino ad hora (fuor solamente una volta) v’ho trovato degnare altrimenti che a maniera di neutro: «Degnò crearne», «Degnò mostrare», «Non degna sì basso», «Non degna di sottomettersi», e gli altri esempi che ne ha il Vocabolario.
[2]L’Ariosto l’usò neutro passivo: c. 19 st. 18 «Se ne va sola e non si degnerebbe / compagno haver»; il Casa nel Galateo similmente: «Il quale degnato vi siete d’entrare etc.»; il Caro e più spesso e più liberamente nelle sue Lettere: f. 101, 103, 105, 129, 131, 139 etc. si degni, si è degnata, «Vi degnate di farlo» etc.; e attivamente f. 38 «Quando mi degnate delle vostre», f. 59 «Mi degnate ancora della gratia», e f. 30 «Essere stato degnato da voi per amico» etc.
[3]Hor quell’un esempio che ne posso alllegare di buon autore è d’Albertan Giudice f. 36: «Maggiormente si degnò di manifestarsi alle femmine». [4]Altri per avventura ve ne havrà in altri autori, e per la loro rarità, trovati, non si vorrebbono trascurare.
Qual sia l’imperativo di trarre.
ccxxxiv. [1]Da tanti esempi che del verbo trarre si allegano per moltissimi tempi, non si trae quel ch’è più necessario a saperne, che imperativo egli s’habbia.
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[2]Traianne da’ buoni autori almen quanto basti a sicurarci del vero: Barb. f. 263 «Tirati verso terra / e trai l’un lato a terra»; Cresc. l. 4 c. 43 «Quando ha del sapore quello che basta, trai il filo acconciamente»; e l. 6 c. 20 «Poi quando la vorrai piantare, aprila e trane il seme». [3]E qui vuole avvertirsi che il dire trane e non tranne è quanto dire che, spiccatone l’affisso, rimarrebbe trai, secondo la regola xxxii. Così ancora Albertano Tratt. 1 c. 10 «Se l’occhio tuo ti scandalezza, traloti»; e c. 19 «Pon mente chente sia la cosa che tu ami, e s’ella è ria, trai lo collo di sotto quel giogo». [4]Finalmente il Boccacci, Fiamm. l. 4 n. 46 ha un tal diverso imperativo: «Traggi a me di cuore etc.». [5]Adunque trai, o se v’aggrada traggi, è l’imperativo di trarre.
Il sesto caso dato a certi verbi in iscambio del terzo.
ccxxxv. [1]L’uso, che in ciò è padrone, ha così voluto, che certi verbi volentieri si accompagnino etiandio col sesto caso, avvegnaché paian debiti solamente al terzo. [2]Così il Passavanti usò parecchi volte confessarsi dal prete, e Bocc. n. 23 [8] «Da lui si volea confessare»; e nel Filoc. l. 3 n. 385 «Andate e da me tornerete»; e n. 28 [30] «Se ne andò dal negromante»; e n. 36 [11] «Volendo venir da lei»; e n. 39 [9] «Se a lui piacesse, da lui ve-
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nisse»; e n. 99 [68] «Venuto da lui»; e Pass. f. 95 «Domandarono da Iesu Christo»; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 1 «Domandar da altrui»; e Tratt. 2 c. 1 «Da loro addimanda consiglio», dove ha poco appresso a loro; e c. 4 ha di nuovo da loro.
[3]Al contrario, il terzo caso si è dato a più altri che parevano obligati al sesto; Bocc. proem. [Intr. 20] «Senza lasciarsi parlare ad alcuno», e n. 94 [33] «Sentendosi al suo marito domandare etc.».
La voce simile restituita alla prosa.
ccxxxvi. [1]Simigliante, non simile, per ‘conforme’, vuole alcuno che debba scriversi in prosa. Non gli gravi di rivelarcene la ragione. [2]Eccola tutta intera: il Vocabolario non ne allega esempio fuor che di poeta, per modo che un d’essi, preso dal Boccacci, è del Boccacci in quanto poeta nella canzona in che si chiude la novantesima delle novelle.
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[3]Tutto è vero; e vero altresì è che il Vocabolario non niega Dante nel Convivio, f. 39, haverne in dieci linee quattro esempi: «Che il servo non possa simile beneficio rendere al Signore»; «Quello che è dissimile per sé, si faccia simile»; «La quale, se non simile è per sé, almeno etc.»; «E così fa simile a quella etc.». [4]Non niega haverlo nelle sue prose il Boccacci due volte nella nov. 37 [3 e 21] e nella 21 [Intr. 10], 32 [3], 45 [22], 49 [3] etc.; havere il Crescenzi detto, l. 2 c. 13, «L’ultimo cibo nutricante è simile al nudrito»; e in tutti i buoni prosatori trovarsi simile delle volte quante, cercandole e contandole, si farebbe una gran penitenza.
Si allegano esempi in pruova del doversi consentire l’arbitrio dello scrivere con varietà, dov’ella è lecita.
ccxxxvii. [1]Per quanto professiate di tenervi legato e stretto al puro scrivere degli antichi, non sarà mai che non usiate parecchi modi e voci, dell’usar le quali non havrete altra ragione fuor solamente il così piacervi e così volere; e ciò per la varietà ch’è nella nostra lingua come in ogni altra; e d’arbitrio o di gusto, non di ragione (almeno il più delle volte), è l’apprendersi più volentieri all’uno che all’altro; dal che siegue il doversi consentire ad ognuno quel che ognuno consente a sé medesimo, né percioché io scriva alla tal maniera, condannare chi scrive alla tal altra, ha-
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vendo così egli della sua, come io della mia, libera l’elettione. [2]Poco addietro, alla regola clvii, ho null’altro che accennata una moltitudine di voci che ammettono diversità nello scriversi; piacemi in questa giunta allegarne tutto alla rinfusa parecchi esempi, obligandomi a questa legge: che i due diversi modi che apporterò si truovino l’uno pochi versi lungi dall’altro, e al più che sia nella medesima faccia, ancorché tal volta in dodicesimo. [3]Così apparirà meglio quanto sia fuor di ragione il volerci ristrignere ad usar per tutto e sempre la medesima forma dello scrivere e il medesimo adoperar delle voci. Hor veniamo a gli esempi.
[4]Cresc. l. 5 proem. «Ciascuno arbore», ivi appresso «Delle singolari arbori». Am. ant. f. 37 e 447 «Ciascheduno a ciascuna cosa etc.». G. Vill. l. 4 c. 7 «Tra le fosse» e subito «Era in su i fossi». Bocc. Fiamm. l. 5 n. 25 «Verso di te», quattro versi vicino «Verso me». Alb. Giud. Tratt. 1 c. 64 «Diman farò bene, domane farò bene». [5]G. Vill. l. 12 c. 31 «Rimettere tra’ ribelli certi Ghibellini caporali e altri possenti stati rubelli». Am. ant. f. 254 assimigliare e assomigliare. Pass. f. 357 sognare neutro, ivi appresso sognarsi. Fiamm. l. 2 n. 29 «Considerando ancora dove tu vadi, che posto che colà [tu] vada ove nascesti». Cresc. l. 1 c. 5 la buccia e quivi medesimo il buccio; e l. 1 c. 10 citerna e cisterna. [6]Am. ant. f. 396 «Se tu volessi adulare a Dionisio» e quattro versi appresso «Non
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aduleresti Dionisio». Bocc. Lab. n. 44 domandare e dimandare variato più volte. Cresc. l. 2 c. 4 «Alcune sono sì come membri uficiali ne gli animali, alcune sono sì come membra che son dette simiglianti». Bocc. n. 99 [2] «Haveva alle sue parole fatta fine», due versi vicino «Nel fine delle sue parole». Cresc. l. 2 c. 4 «Questa cosa addiviene nella gioventudine delle piante, per lo calore della loro gioventude»; e l. 2 c. 6 «Il sottile terrestro», poco appresso terrestre. [7]Pass. f. 101 nascosta e nascosa. Cresc. l. 2 c. 14 la palude e quivi stesso il palude. Bocc. proem. g. 4 [iv Intr. 44] «Cacciata havea il sole del cielo già ogni stella, e dalla terra l’humida ombra della notte». Alb. Giud. f. 9 c. 12 Evangelio e subito Vangelo. G. Vill. l. 7 c. 120 tre volte nipote e tre altre nepote. [8]Bocc. n. 34 [16] «Se stati siete o sete»; Amet. f. 97 siano e sieno. G. Vill. l. 7 c. 120 apparecchiamento di festa, poche parole appresso apparecchio della medesima. Bocc. n. 93 [40] «E farai a me fare verso di te quello che mai verso alcuno altro non feci»; Cresc. l. 4 c. 44 bollente e subito bogliente. [9]Bocc. n. 94 [32] «I gentili huomini honoratola e commendatala»; e nella medesima [24] «Essendo già vicino alla sua fine il mangiare», e
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appresso [26] «Senza attendere il fine del servo infermo». M. Vill. l. 2 c. 55 «Scesono dell’Alpe e da Monte Carelli». Dante, Par. 5 [101] «Traggono i pesci a ciò che vien di fuori», quattro versi vicino [104] «Trarsi ver noi». Alb. Giud. f. 14 in due righe corsali e corsari. Bocc. n. 1 [74] veggendo e subito [80] vedendoli. Alb. Giud. f. 40 «Nella sua carcere», lin. seguente «Nel carcere suo». [10]E così d’altre voci e modi a gran numero.
ccxxxviii. [1]Vuole aggiugnersi al Vocabolario, che, non havendolo, ha fatto credere non trovarsi: Bocc. n. 5 [17] «E senza più motteggiarla, temendo delle sue risposte etc.»; n. 10 [13] «Si proposero etc. di motteggiarlo»; e quivi medesimo [20] «Non guardando cui motteggiasse».
La particella non adoperata senza nuocere né giovare.
ccxxxix. [1]L’uso di questa particella, a chi non parla la nostra lingua per uso, sembra stranissimo, peroché, considerandola secondo la natura e la forza che ha di negare e distruggere quello a che s’appicca, pare che contradica dove tal volta, se nulla opera, maggiormente afferma; o, se non tanto, vi sta per modo che
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così non nuoce ponendosi come non gioverebbe levandosi. [2]Ne’ seguenti quattro esempi, che basteranno per mille, considerate se togliendola via non ne rimane il medesimo sentimento, ma forse l’orecchio non se ne troverebbe sì pago come pure essendovi: [3]Bocc. n. 16 [59] «Io non vi potrei di ciò altro dire senon che, se io potessi più esser tenuta che io non sono, tanto più vi sarei etc.»; e quivi appresso: «Diragli da mia parte che si guardi di non haver troppo credito o di non credere alle favole di Giannotto»; n. 32 [21] «Una cosa vi ricordo, che cosa che io vi dica voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona»; n. 38 [8] «Questo nostro fanciullo, il quale appena ancora non ha quattordici anni», cioè appena gli ha; e nell’Ameto f. 58 «Elli non havea appena finita la sua oratione etc.».
Se possa dirsi «una persona, il quale» e simile d’altri modi.
ccxl. [1]Del sì rispondono il Boccacci, il Passavanti ed altri, e potrà similmente dirsi «La Maestà, l’Altezza, la Signoria vostra, il quale etc.», soggiugnendo l’un genere differente dall’altro, come fosse quel voi del Caro nella sua lettera a Bernardo Tasso f. 121. [2]Pass. f. 265 «Quanto la persona è di maggior dignità, tanto in lui risiede etc. la virtù»; Bocc. n. 24
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[3] «Assai persone sono che, mentre che essi si sforzano etc.»; e n. 80 [60] «Ci è alcuna persona, il quale l’altr’hieri etc.»; Fiamm. l. 5 n. 132 «Diverse persone vantatisi ciò saper operare»; [3]Brun. Rett. [38v] «Due persone si tramettono lettere l’uno all’altro»; G. Vill. l. 7 c. 36 «Si rendé a patti, salve le persone, i quali se n’usciron fuori»; N. ant. 92 «Io sono acconcio di mostrare a quella bestia, lo quale si mostra sì rigoglioso e tanto fiero»; Bocc. n. 64 [13] «Quella bestia era pur disposto etc.».
[4]Il così parlare sappiasi che non è obligo, ma licenza, e ben si potranno accordare i generi, come fece il Passavanti f. 158 «Se la persona non sapesse ben conoscere etc., innanzi ch’ella cominci, dicendo ella com’ella sa etc.».
Dierono esser terminatione usata.
ccxli. [1]Forse, come da diede si è formato diedero, così da die’, dierono. Che che ne sia, l’usarono e più altri, e il Boccacci n. 17 [60] «Più non si dierono impaccio»; e proem. g. 9 [Intr. 6] «A sonare si dierono»; e M. Vill. l. 1 c. 44 «Per comune consiglio dierono per tre anni etc.»; e c. 73 «Dierono al Comune di Firenze etc.».
Per quello che più volentieri accompagnarsi col soggiuntivo.
ccxlii. [1]Ho detto «più volentieri», atteso il pur trovarsi col dimostrativo; vero è che del primo v’ha in troppo maggior numero esempi.
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[2]Bocc. n. 11 [7] «Oltre a questo, la Chiesa (per quello che si dica) è sì piena di gente»; n. 15 [20] «Né mai, per quello che io sentissi»; e nella med. [28] «Con nostro padre (per quello ch’ella mi dica) stette»; n. 17 [9] «La quale (per quello che ciascun che la vedeva dicesse) era etc.»; n. 19 [13] «Per quello che a me paia, tu hai poco riguardo alla natura delle cose»; ivi medesimo [54]: «Per quello che io habbia poi sentito, la fece uccidere»; n. 27 [29] «Per quello che io presuma, egli se ne andò disperato»; quivi pure [57] «Tedaldo non è punto morto, per quello che mi si dimostri»; n. 28 [63] «Per quello che mi paia»; e così n. 100 [3], e Lab. n. 31, e Fiamm. l. 4 n. 9 e n. 68, e l. 5 n. 7 etc.
[3]Col dimostrativo eccolo usato dallo stesso Boccacci, n. 8 [4] «Erminio de’ Grimaldi, il quale (per quello che da tutti era creduto) trapassava etc.»; n. 12 [27] «L’havea liberato, et a buono albergo (per quello che gli pareva) condotto»; n. 26 [15] «E per quello che io truovo, egli etc.»; n. 33 [13] «Per quello che etc. mi pare haver compreso»; Pass. f. 94 «Ma per quello ch’io veggo».
Rena e arena, e quinci arenare e arrenare.
ccxliii. [1]L’arena, che che altri si dica, è voce così ben della prosa come del verso, ancorché il Vocabola-
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rio non ne apporti più che un esempio del Boccacci nel Filoc. l. 1 n. 37. Ma ella v’è nel medesimo Filoc. l. 6 n. 204 e 263, e l. 7 n. 15 e 32; e nell’Amet. f. 54; e Pier Crescenzi l. 2 c. 21 ha «Diserto d’arene»; e c. 26 «Magre e asciutte arene»; e quivi medesimo «Polvere arenosa»; e l. 5 c. 6 «Terren arenoso».
[2]Adunque da rena si formerà arrenare, per lo raddoppiar che suole l’a dove s’appicca; da arena, arenare; e questo secondo a me pare il più legittimo scrivere, se, così come credo, d’arena si è fatto rena, mozzandone l’a ch’era il suo capo, come pur si è fatto in questi tronchi di voci: pistola, Vangelo, storia, stremo, sposto, dificio, resia, brobbio e gnudo d’Albertano, strolaghi, Taliani di M. Villani l. 1 c. 2, spresso del medesimo l. 1 c. 96, e quel di che sia più caro haver qualche autorità, sendo per essendo, ch’è del medesimo M. Villani, l. 5 c. 41, c. 46, l. 6 c. 2 etc.
Capére e capire.
ccxliv. [1]Capire per ‘comprendere coll’intelletto’ appresso alcuni corre in uso d’attivo e passivo: Davanzati Annali 12 «Non ho divise queste cose seguite in più anni perché meglio si capiscano». [2]Fra’ Poeti antichi f. 44, Antonio Pucci comincia un sonetto con questo verso: «S’io fosse quel che vostra mente ca-
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pe». [3]Ma per ‘haver luogo’ o ‘comprendere come luogo’, dicono che mal si adoprerebbe attivo né capire né capére, che più volentieri si è detto da’ buoni autori. [4]Dunque mal disse il Tasso nell’Aminta «Che fai fra questi chiostri / che la grandezza tua capir non ponno?» [5]Male l’Ariosto c. 3 st. 21 «Che la potea capir tutta distesa»; e c. 9 st. 68, dove Orlando infilza sei huomini e li sostien tutti nella medesima lancia: «E perch’ella non basta / a più capir, lasciò il settimo fuore»; e c. 13 st. 37 una mensa etc. «cape con tutta la famiglia il ladro»; c. 14 st. 128 «Che quella fossa a capir tutti è stretta»; c. 15 st. 63 «Il popolo capir che vi dimora / non pon diciotto mila gran contrade»; c. 17 st. 4 «C’habbia il lor ventre a capir tanta carne»; c. 22 st. 33 «A pena i gaudi lor capiano i petti»; c. 33 st. 58 «Chi era ben tal che la potea capire» etc.
[6]Tutto questo, o quasi tutto, è ‘comprender di luogo’; e se a dir bene si dovea dire «la tal cosa non cape nella tale» (e così veramente disser gli antichi), come si è approvato dall’Academia che corresse la lingua del Furioso il dire «la tal cosa non cape la tale»? [7]Forse parve a que’ valenti huomini havervene esempio in
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Dante, Purg. 18 [59-60] «E questa prima voglia / merto di lode o di biasmo non cape», il qual cape, se può usarsi attivo col merito, perché non ancora co’ corpi? [8]E Par. 28 [67-69] «Maggior bontà vuol far maggior salute, / maggior salute maggior corpo cape, / s’egli ha le parti ugualmente compiute». [9]Con tutto nondimeno questo cape di Dante e quell’altro del Pucci che sono antichi, io non m’ardirei d’usarlo atttivo o passivo, per ‘comprendere’ né di luogo né di mente né d’animo, peroché ho osservato gli altri buoni antichi essersene studiosamente guardati.
Le frutta, le legna, le vestigia.
ccxlv. [1]Se v’è avvenuto di scrivere frutta, legna, vestigia in plurale, e altri vel rimprovera come senza esempio, rispondetegli che pur ve ne ha quanto basta a non potersi dire che non ve ne habbia. [2]Cioè di frutta (ma veramente per ‘danno’) G. Vill. l. 10 c. 27 «Die’ le male frutta a’ suoi consorti»; Dante, Inf. 33 [119] «Io son quel da le frutta del mal horto»; e per frutta vere Barb. f. 66 «Da simil insegnato / sempre sarai su le frutta parando». Di legna, Pass. due volte nel f. 22 «Tagliando le legna»; Am. ant. f. 311 le legna; Dante, Purg. 28 [114] «Di diverse virtù diverse legna». [3]Di vestigia, Alb. Giud. Tratt. 2 c. 50 «Seguendo le vestigia». [4]Il vero si è che l’ordinario a trovarsi nelle buone scritture è frutti, frutte, legne, vestigi e vestigie in prosa.
Se a pruova possa valere per pruova.
[ccxlvbis] [1]Questa forma avverbiale a pruova, o come altri scrivono a prova, vale quanto a gara, a com-
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petenza, e non ancora quel che diciamo ab esperto, come a dire «Ben il so a pruova» cioè per isperienza. [2]Io in tal forza l’ho usata nelle prime mie stampe, e me ne scarico sopra il Boccacci, che m’insegnò a così errare, errando egli colà dove scrisse, nella Fiamm. l. 4 n. 115: «Certo egli pare incredibile a tutti, ma non a me misera, come a colei che a pruova sente e conosce ciò esser vero»; e M. Vill. l. 9 c. 26 «Cercando di mettersi a pruova di spegnere la compagna».
Abbisognare, deliberare, derogare col quarto caso.
ccxlvi. [1]Ve ne do questi pochi esempi, perché un dì vi porrebbono esser bisogno, né li troverete nel Vocabolario.
[2]Brun. Eth. f. 51 «La dilettatione si è forma compiuta, la quale non abbisogna al suo compimento né tempo né movimento».
[3]Alb. Giud. Tratt. 2 c. 14 «Tutte le cose con l’amico delibera, ma prima di lui».
[4]M. Vill. l. 4 c. 77 «Fu derogata la franchigia de’ Toscani»; e c. 72 «Dirogare le loro ragioni».
Adulare, richiedere, rinuntiare col terzo caso.
ccxlvii. [1]Né altresì di questi troverete esempio, fuor solamente uno del Maestruzzo d’adulare col terzo caso. [2]Eccovene, in quindici versi, tre dell’autore
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degli Ammaestramenti degli antichi f. 396: «E da guardarsi di non adulare a’ rei»; «Chi a coloro che mal fanno studia d’adulare»; «Se tu volessi adulare a Dionisio»; e quivi appresso «Non aduleresti Dionisio», ch’è quarto caso.
[3]M. Vill. l. 6 c. 36 «Havendo richiesto a’ Viniziani la città»; Bocc. n. 80 «Richiedegli i danni» e [62] «Se richiesta gli fosse [la chiave]»; Dante, Inf. 19 [66] «Dunque che a me richiedi?».
[4]G. Vill. l. 12 c. 18 «Rinuntiare all’uscio»; M. Vill. l. 5 c. 55 «Rinuntiassono agli uffici del Comune»; e l. 9 c. 98 «Rinuntiare al nome e diritto, all’omaggio, al dominio, alla sovranità» etc.
Costà per colà.
ccxlviii. [1]Il così adoperare costà che vaglia per colà è stato arbitrio degli scrittori non perché tale avverbio di sua natura il vaglia, né io il truovo in tal modo usato fuor solamente ragionando con alcuno cui si voglia rimuovere e dilungare da sé; dove, in ragione di proprietà, costì, costà e cotesto è delle persone già lontane con le quali si parla e delle cose che ivi medesimo sono. [2]Hor del costà così usato, che altrettanto significherebbe sustituendogli là o colà, eccone quattro esempi: Bocc. Lab. n. 124 «Fatti in costà: se Dio m’aiuti, tu non mi toccherai»; nov. 26 [40] «Fatti in costà, non mi toccare»; Dante, Inf. 8 [42] «Dicendo:
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– Via costà con gli altri cani»; e Inf. 22 [96] «Disse: – Fatti in costà malvagio uccello»: cioè ‘lievati di qui, fatti in colà’; ma questo non così ben sonerebbe come in costà.
Vicinanza per ‘prossimità’.
ccxlix. [1]Che vicinanza non vaglia ‘prossimità’ ma «ristretto d’abituri contigui gli uni a gli altri, o abitator della vicinanza», come l’espone il Vocabolario, parrà strano a sentire, ma il dovrà credere a gli esempi che se ne allegano, tutti in confermatione del sopradetto, e niuno a mostrare vicinanza essersi mai usato per prossimità. [2]E pur veramente l’usarono Cresc. l. 11 c. 5 «L’altezza e bassezza [del luogo], le assai acque e le poche, la lor malizia e bontà, la vicinanza de’ monti, paludi, lacumi etc.»; M. Vill. l. 4 c. 64 «Per la vicinanza che detto castello [San Miniato] ha con la nostra città e con l’altre di Toscana»; e l. 5 c. 74 «Confinavali [i poderi] secondo che trovava l’usata vicinanza»; e forse ancor quello del l. 1 c. ult. «Abboccaronsi con l’armata d’Inghilterra nella vicinanza delle loro marine».
Chiunque dato a cosa.
ccl. [1]V’è autore che alla particella chiunque niega ella già mai trovarsi accompagnata con cosa, ma solo e sempre con persona; e dove appresso il Crescenzi l. 5 c. 19 n. 4 si legge «Legato con chiunque legame»,
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doversi leggere «con chentunque legame»; [2]e dice vero quanto all’essersi mutata quella voce in questa nel Crescenzi stampato in Firenze l’anno 1605, ma che diremo della storia di G. Villani, stampata pure in Firenze corretta e alla sua vera lettione ridotta, nel cui l. 10 c. 70 io leggo «Nullo Re, Principe o Barone etc., Cherici o Laici di chiunque stato fosse»; e prima del Villani, Brunetto nella Rettorica [33v] «Chiunque uccidesse il tiranno, prendesse dal Senato chiunque merito volesse», cioè ‘qualunque rimuneratione volesse’. [3]Il che vaglia a sapere non per adoperarlo, ma per non farsi a correre affermando non essersi adoperato già mai da buon autore di lingua.
Celeste ottima voce in prosa.
ccli. [1]L’havere il Vocabolario un solo esempio della voce celeste, e questo medesimo di poeta, e di celestiale due esempi d’ottimi prosatori, ha fatto credere a parecchi quella essere voce propria del verso, questa del verso e della prosa. [2]Ma il Filocolo del Boccacci pure è prosa, ed ha l. 7 n. 127 «Quali celesti regni più belli etc.»; e n. 350 «Il celeste regno». [3]E prosa è la Cronaca di Giovanni Villani, e vi si legge l. 11 c. 2 «Sopra ogni corso celesto», e quivi medesimo «Per lo corso celesto» (terminatione all’antica); e c. 67 «Per grandi congiunzioni de’ corpi celesti»; e l. 12 c. 83 «Il signore etc. del corso celeste»; e troppi più esempi ve ne ha in questi medesimi e in altri ottimi autori.
[4]Come dunque il Passavanti f. 61 lasciò scritto «Ser-
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basi l’eterna eredità» e tre versi appresso «L’eternale dannatione», così va celeste e perpetuo, e se altri ve ne ha, che può ben dirsi celeste e celestiale, perpetuo e perpetuale, eterno ed eternale; né l’un serve alla prosa meno dell’altro.
Se di fatto vaglia ‘subitamente’ e non altro. E della voce realmente.
cclii. [1]Vale tant’altro che non può valere ‘subitamente’ qui dove l’adoperò il Passavanti f. 106: «Ciò è che l’uomo di fatto si confessi o in voto», e vuol dire ‘o il faccia, o il desideri’; e f. 56 «Per opera e di fatto»; e f. 285 «Quando la persona desidera di manifestare alcun bene ch’ell’habbia e di fatto il manifesta», cioè come soglion dire de facto; e f. 346 «Adoperandosi il diavolo, il quale dà volentieri favore ad ogni mala operazione e prende potestà e balìa sopra quelle cotali persone, le quali, se non realmente e di fatto, almeno secondo la intentione sono malefici». [2]Nel qual testo guadagniamo alla buona lingua la voce realmente per ‘veramente’ e non per solo ‘regalmente’, come l’ha il Vocabolario; dove altresì di fatto si ristrigne a significare ‘subitamente, immantinente’, o ad esser termine legale: ciò che non compete a niun de gli esempi qui allegati. [3]Né in termine legale sarà veramente avverbio appresso ser Brunetto nella Rettorica: [23v] «Quando la controversia è di fatto», cioè quæstio facti; e pur quivi: [23r] «Di questo nasce una cotale quistione, s’egli fece questo fatto o no, et è appellata quistione di fatto».
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Adesso per ‘hora’ e ‘subito’ essere ottima voce.
ccliii. [1]Non so come s’acconciano la coscienza quegli che havran nelle loro scritture un centinaio di modi e voci delle quali non possono allegar esempio di verun antico, e l’avverbio adesso, a cui non manca né l’autorità de’ buoni antichi, né l’uso de’ miglior moderni, il rifiutano e dannano. [2]Io non l’adopero come già in altro tempo, non perché mi dispiaccia, ma perché non mi piace d’adoperarlo; adunque egli per ciò vuol dispiacere in altrui? [3]Ben è vero che in sentimento di ‘subito’ non ha hora quell’uso che ne’ secoli addietro; ma il dire «Come ancora adesso in certe Città», «Di questo mi sono ricordato adesso»; «Adesso non posso più»; «Non faceste questo error di venire adesso» – che tutto è del Caro nella Rettorica e nelle Lettere f. 16, 47, 105 – è continuo in uso.
[4]Hor quanto a gli antichi, il Vocabolario ne allega passi di Dante e del suo comento, del Petrarca e di Dante da Maiano. [5]Io ve ne aggiungo primieramente di Cecco di M. Angiolieri, antico al par di Dante Alighieri, come mostrano i due sonetti che gli scrisse e si leggono nel i libro de’ Poeti antichi, stampato in Napoli l’anno 1661. [6]Hor quivi medesimo alla p. 199 così parla Cecco: «E dilli che d’amor son morto adesso, / se non m’aita la soa zentilia». [7]Appresso, eccone quattro del Barb.: f. 35 «In questa gente ch’io descrivo
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adesso»; f. 258 «Quando fussi appresso / a porto o scoglio adesso»; f. 274 «Quando a poco presso / lo tuo Pedotta adesso / ponga cura d’intrare / soave etc.»; f. 299 «Leva chi falla adesso». [8]E ricordisi che il Barberino scriveva o poco avanti o nel medesimo tempo che il Boccacci. [9]E chi gli fece la Tavola delle voci e maniere di parlare più considerabili usate nell’opera, alla voce adesso soggiugne Dante, Purg. 24 [113] «“E noi venimmo al grand’albero adesso”; ove il Buti: “Adesso, cioè immantenente”; e notisi [dice] che quei signori della Crusca leggono “al grand’albero ad esso”, cioè ‘ad esso albero’»; ma che ivi adesso vaglia per ‘subito’ siegue a mostrarlo col Dittamondo di Fazio e altri esempi di prosatori.
[10]Ma d’adesso per hora, eccone due altri esempi, di Brunetto alla fine del Favolello: [f. 44] «Che ti piaccia dittare / e me scritto mandare / del tuo trovato adesso etc.»; e del suo discepolo Dante nel Conv. f. 19: «Questo è lo sovrano edificio del mundo, nel quale tutto il mundo s’inchiude, e di fuori del quale nulla è; et adesso non è il loco, ma formato fu solo nella prima mente etc.».
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Ambi, ambo, ambe, ambidue.
ccliv. [1]Il Castelvetro, nella risposta al Caro f. 102 etc., niega trovarsi la voce ambi fuorché in entrambi e in ambidue; la Visione del Boccacci haverne esempi, ma falsi; ambe non trovarsi altrimenti che componendo entrambe, o con appresso il sustantivo, come a dire «Ambe le chiavi», «Ambe le mani», ma non concedersi alla prosa l’usarlo, benché pur trovarsi usato «una sol fiata», dice egli (ma «una sol» per sola, che i nostri grammatici dannano per solecismo, è più raro a vedersi che ambi e ambe in prosa). [2]Finalmente, f. 98 della medesima risposta, niega ambo potersi dare a due plurali come fece il Caro nella famosa canzone, dicendo «Gigli e giacinti ambo insieme avvinti», nel che mi pare che dica vero e che ambo sia sol di due singolari.
[3]Quanto al Vocabolario, ei non ha esempio d’ambi, ambo, ambe in prosa, né d’ambidue, ambedue, ambo due. E a dir vero, è cosa più de’ moderni che de gli antichi. [4]Il Caro nelle lettere f. 138: «Io son tanto oltre con l’obligo e con l’affettione verso de l’uno e de l’altro, che mi reputo d’ambi figliuolo e fratelllo»; il Davanzati ne gli Annali l. 11 «Certo è che ambi morirono per un sogno»; l. 13 «Morendo ambi», e «Volendo ambi per forza il dominio»; e l. 14 «Scrisse che ambi erano scandalosi»; e nell’Istor. l. 2 due volte ambi e due ambo, e ogni altra volta che glie ne vien
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talento, l’usa in tutte le maniere contradette dal Castelvetro.
[5]Quanto a gl’antichi, eccone quel pochissimo che ne ho: Bocc. Amet. f. 9 «Compose ambo le mani», ed è esempio di prosa; Cresc. l. 9 c. 26 «Ambe le vene»; Alb. Giud. Tratt. 1 c. 44 «Ambidue erano giusti»; ivi appresso «Due ladroni posti lungo lui da ambedue le latora».
Poco meno per quasi.
cclv. [1]Il Vocabolario non l’ha. Hallo Alb. Giud. Tratt. 1 c. 35 «Fannosi pigri e lussuriosi e poco meno si disciolgono a tutti li rei vizi»; e quivi medesimo: «Li molti riposi fanno sì pigri huomini, che poco meno tutte le lor cose hanno in neghienza».
La particella non che non haver sempre forza avversativa e di negatione.
cclvi. [1]Non che (dice il Vocabolario) «particella avversativa e di negatione»: al che pare doversi aggiugnere «altre volte sì, altre no»; [2]e del no eccone testi-
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monio il Boccacci n. 97 [42]: «E per ciò, non che io faccia questo etc. [cioè ‘non solamente il farò’], ma se voi mi diceste che io dimorassi nel fuoco, credendovi io piacere, mi sarebbe diletto»; e n. 21 [6] «Non che la mattina, ma qualora il sole era più alto etc. vi si poteva andare». [3]Questi non che son sì da lungi a negare, che anzi maggiormente affermano la prima parte a cui si danno, con aggiugnere cosa maggiore nella seconda. [4]Così ancora i seguenti del medesimo Boccacci: Fiamm. l. 1 n. 70 «E ne’ cieli, non che esso sì come gli altri Dii sta Dio, ma ancora vi è tanto più che gli altri potente quanto etc.»; e l. 4 n. 144 «E non che esse, ma ancor le strane»; e quell’altro della nov. 40 [3] «Non che a voi [cioè ‘non solamente a voi’], ma a me etc. han contristati gli occhi».
cclvii. [1]Usare in sentimento d’‘adoperare’ dicono esser così legato al quarto caso («Usar sua ragione», «Usar bene il tempo» etc.) che per miracolo non si troverebbe usato altrimenti da scrittore del buon secolo. [2]Ma senza altro miracolo che di cercarlo dov’è, eccol trovato nel Boccacci Fiamm. l. 4 n. 75 «O quante volte mi ricorda che in tale accidente già l’arco mi cadde e le saette di mano; nell’usar del quale etc.». [3]E per non dire de gli altri, pur del buon secolo era il
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volgarizzatore d’Albertan Giudice, e ne habbiamo Tratt. 1 c. 2 «Usa più dell’orecchie che della lingua»; c. 6 «Da vedere è che di tale larghezza usiamo, che etc.»; e quivi stesso «Di tal larghezza usar dovemo, che etc.»; e c. 18 «È da usare del consiglio de gli amici»; e quivi appresso «Dee l’huomo usare di consiglio»; e c. 24 «Usa delle lor ricchezze temperatamente»; e c. 26 «Di tal superbia e di tali parole usano, che etc.»; e c. 38 «Usa le ricchezze accattate» e subito «Usa delle cose accattate». [4]E ve l’ha fino a sette volte nel medesimo capo e altre più nel rimanente dell’opera.
Medesimo non accordato né col genere né col numero.
cclviii. [1]Il così usarlo è stato non so se mi dica regola o vezzo dell’autore de gli Ammaestramenti de gli antichi, opera del buon secolo e grandemente lodata in purità di lingua; ma l’imitarlo in ciò non riuscirebbe punto
lodevole. [2]Eccone, de’ troppi che ne ha, certi pochi esempi: f. 49 «Nell’enfiatura medesimo»; f. 74 «Huomini amanti di sé medesimo»; f. 75 «Sé medesimo non sanno»; f. 322 «Lodano sé medesimo»; f. 323 «È bisogno ch’e’ medesimo si vergognino»; f. 330 «L’invidia prima nuoce a sé medesimo» etc.
Contrastano e contrastanno; soprastano e soprastanno; e così d’altri tempi.
cclix. [1]«Rade volte adivien ch’a l’alte imprese / Fortuna ingiuriosa non contrasti» disse il Petrarca c. 11 [53 85-86]: adunque contrasta e contrastano, come pur è in uso di scrivere e favellare. [2]Il Boccacci Fiamm. l. 1 n. 55 «Chi nel principio ben contrastette»,
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non contrastò: adunque contrastà e contrastanno, non contràsta e contràstano; se già non fosse per contradistinguere il presente dal passato, se a quello si de’ accentar l’ultima sillaba, come molti fanno al verbo soprastare.
[3]Dante, Inf. 18 [111] «De l’arco ove lo scoglio più sovrasta», rima d’appasta e basta; e come lui il Tasso, c. 20 st. 68 «Qual è il timido cigno a cui sovrasta». [4]Al contrario i prosatori seguenti: G. Vill. l. 12 c. 32, Alb. Giud. Tratt. 1 c. 3, e due volte Tratt. 2 c. 5 e c. 9, scrissero soprastà; e Bocc. Fiamm. l. 4 n. 156 e Cresc. l. 6 c. 13; e s’accorda con gli altri tempi che ne provengono Am. ant. f. 346 «A’ quali tu per dignità soprastai», non soprasti; e Bocc. principio della giornata vi [Intr. 9] soprastanno; e n. 42 [42] «Alquanto maravigliandosi soprastette». [5]Tutto altrimenti da quel soprastò, preterito, o soprastollo, che il Vocabolario allega come testo di G. Vill. l. 4 c. 14, essendo vero che il mio, che pur è de’ riscontrati co’ testi antichi e corretto etc., ha soprastatolo, non soprastollo. [6]Dal fin qui detto (che è quanto al presente ne ho), non mi par che possa didursi fuor
solamente una regola di procedere in questo come negli altri casi che hanno diversità: tenendosi all’esempio e all’uso, e in tutto dando la sua parte al giudicio.
Intravenire esser ben detto.
cclx. [1]Chi nel Vocabolario non truova altro che intervenire, non si faccia subito a credere che intravenire se ne sia sbandito come reo o non ottimo da usarsi, peroché l’usarono Brunetto Rett. [33r] «Tutte le
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cause che possono intravenire», Alb. Giud. Tratt. 2 c. 1 «Cose intravenute», e c. 25 «Ciò che può intravenire nel tuo animo pensa»; e per non multiplicare in esempi, egli appena mai scrive questo verbo altrimenti. [2]Così ancor va d’intermettere, interporre, interrompere etc., che ugualmente bene si scrivono intramettere, intraporre, intrarompere etc.
Intento non è voce solamente poetica.
cclxi. [1]Intento nome sustantivo che vale ‘intentione, fine, proposito, intendimento etc.’ non è voce da poterla adoperare solamente i poeti, ancor che nel Vocabolario non se ne alleghino esempi fuor che di Dante poeta; dove pur ve ne ha ancora di Dante prosatore, quanto basta all’intento di provarla voce non propria sol de’ poeti: nel Conv. f. 45 «La fabrica del rhetorico, la quale a ciascuna parte puon mano al principale intento», e f. 50 «E quivi pone lo intento tutto a far bello etc.».
cclxii. [1]‘Divenir povero’ è impoverire, e il Vocabolario ne allega ottimi esempi. [2]Ch’egli habbia ancor forza d’attivo, sì che possa far povero, io ne ho pochi autori a provarlo: gli Ammaestramenti de gli antichi f.
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371 «Che l’accidia impoverisce spiritualmente», rubbr. 1; e seguita «Sì come la pigrizia impoverisce nelle cose temporali, così etc.»; Petr. son. 283 [326 1-4] «Hor hai fatto l’estremo di tua possa / o crudel morte, hor hai ’l regno d’Amore / impoverito, hor di bellezza il fiore / e ’l lume hai spento e chiuso in poca fossa»; e son. 286 [329 2] «O stelle congiurate a impoverirme».
Del potersi o no scrivere esempio e tempio.
cclxiii. [1]Esempio non ha esempli. Così tutto a maniera d’oracolo ha pronuntiato un non mi si ricorda chi stans pede in uno, dove né pur bastano due a chi vuol diffinire come ex tripode. [2]Hor se altri non vuole usare né esemplo né templo (che van del pari), e col suo esempio e col suo tempio passar nondimeno franco e sicuro, primieramente domandi: dov’è hora la regola che ci danno, e se ne fa tanto romore, del doverci il più che far si possa dilungar dal latino? per-
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ciò tanti scambiamenti di lettere si fanno, che tal volta l’orecchio se ne risente; perché non si usa ancor qui? [3]Risponderassi che potendosi dire esempio, potrebbe dirsi ancora esempiare nome e verbo, in vece d’esemplare; e non potendosi per niuna autorità che il consenta, adunque la l essere immobile in esemplo. [4]Ma se ciò è, che diremo di templo, da cui non i Templieri, ma, come ha tante volte il Villani, ce ne provennero i Tempieri? [5]V’ha delle voci latine che nel nostro italiano mai non dispongono la pl; così Platone, platano, plebe, Plinio, placare etc., nol niego, sol che si avverta ch’elle son prime sillabe, e s’io non voglio non mi nuocono coll’esempio. [6]Ma vo’ che ritorcendo in contrario l’argomento anche mi giovino, peroché mi si dica exemplum e templum che han di più che duplum e amplum? Quanto al similmente finire tutti sono un medesimo plum. Hor puossi dire altrimenti che doppio? E se può dirsi amplo, non altresì ampio? Ve ne ha mille esempi. [7]Ma nelle cose arbitrarie, diranno, mal si argomenta a pari; gli scrittori antichi, così scrivendo, haver prescritto il non iscrivere altrimenti; cerchisi, e non si troverà che esempio habbia esemplo.
[8]Questa è l’altra parte, e contiene in sé la ragione aperta e ’l conseguente involto; peroché se esempio non ha esemplo, come potrà altro che scorrettamente usarsi? [9]Ma che ve ne habbia, a me ne son testimoni li miei occhi, i quali in leggendo, come più d’una volta han fatto, quanti autori di buona lingua allego in quest’opera, parecchi ve ne hanno scontrati per entro, ma trascuratili, peroché non ancor m’era venuto a notitia questa diffinitione del non ve n’essere esemplo. Pur di certi pochissimi mi si ricorda. [10]E primiera mente il Petrcarca canz. 49 [366 53 e 57] ha esempio, rima di tempio: «Vergine sola al mondo senza esem-
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pio, / al vero Dio sacrato e vivo tempio»; oh! diranno, ella è scorrettione e vuolsi leggere esemplo e templo; adunque mi correggano questi altri due del medesimo nella canz. 4 [23 9-12]: «Di ch’io son fatto a molta gente esempio; / benché il mio duro scempio / sia scritto altrove etc.». [11]Qui non rimane a dire se non che può concedersi a’ poeti: ma poeta non è il Passavanti, e l’ha ben tre volte nel f. 3, benché assai più volte esemplo; non è poeta Dante nelle prose del suo Convivio, e ve l’ha f. 51, 52, 57, 62 due volte etc.; non G. Villani, che havendo scritto l. 12 c. 43 «Dare esempio», e convenendogli usar questa medesima voce nel medesimo capo, amò meglio di scrivere «Antichi assempri» che esempli, e come lui Matteo nella sua Cronaca parecchi volte.
[12]Quanto poi si è alla voce tempio e tempi, «Comandò [scrisse il Bocc. Filoc. l. 7 n. 507] che abbattesse i falsi idoli a riverentia fatti de’ falsi Dii, e de’ tempi fatti a loro facesse tempi al vero Dio dedicati». Hallo altresì il medesimo libro n. 197, e la Fiamm. l. 4 n. 168 e n. 173; e G. Vill. l. 1 c. 59 e c. 60 due volte, l. 2 c. 1, l. 8 c. 62; Dante, Conv. f. 21 etc.
[13]Il Davanzati non solamente ha tempio e tempi, né forse mai altrimenti, ma ancora tempii, sciolto il dittongo io in due i, il che ho scritto altrove parermi che non si possa più in tempio che in occhio, raggio, specchio, mucchio, vecchio etc., che non ci danno vecchii, mucchii, specchii, raggii, occhii, ma occhi, raggi etc., e così tempi.
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Parete e trave in genere mascolino.
cclxiv. [1]Non m’è avvenuto di trovar questi due nomi maschi, fuor che parete nell’Ariosto, c. 12 st. 10 «Nulla de’ muri appar né de’ pareti», e trave in F. Barb. f. 235 «Di quel che va sì grave, / che par che porti un trave».
Tempi del verbo caggio.
cclxv. [1]Bene avvisa il Vocabolario il verbo caggio trovarsi solo in alcuni tempi, e ne apporta due esempi di poeti, caggendo e caggia in rima. [2]Questi miei saranno di prosatori: caggiano è del Cresc. l. 2 c. 23, l. 6 c. 2, l. 9 c. 104; caggia del med. l. 9 c. 89; «Guarda che non cagge» è d’Alb. Giud. Tratt. 1 c. 2 e 10; e «Caggi in bugia» del med. Tratt. 1 c. 25.
[3]Così il Bocc. n. 46 [38] disse «Accioché tu veggi», ciò che altrimenti scrisse n. 85 [36] «Io vorrò che tu mi vegghi un poco etc.», e n. 93 [17] «Né mai ad altro che tu mi vegghi mi trasse».
Tutto dì, tutto gente e simili ben detto.
cclxvi. [1]Il così dar la voce tutto a sustantivi senza nulla fra mezzo non solamente non è, come altri ha creduto, vezzo di lingua da sentirsi tutto dì in bocca ma non mai leggersi in carta di buono autore; che anzi tutto all’opposto: non so che v’habbia scrittore antico d’autorità il quale, se non continuo, almeno so-
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ventemente non l’usasse; e bastino per i mille questi pochi esempi, anzi questi troppi per i nessuni che se ne vorrebbono allegare.
[2]Brun. Tesoretto [f. 42] «E tutta terra e mare / di tutte creature»; N. ant. 20 «Da tutte parti»; n. 51«Mondo di tutte lordure»; Dante, Conv. f. 41 «Tutte volte che il gigante era stanco»; f. 80 «Con tutta licenza, con tutta franchezza d’animo»; Am. ant. f. 70 «Tutte cose molto nobili e preclare sono molto rade, tutte cose desiderate più dilettano»; [3]G. Vill. l. 11 c. 1 «In tutte parti», c. 2 «Per tutte genti»; l. 4 c. 18 «Di tutte cose etc.»; M. Vill. l. 9 c. 28 «Provocato in tutte maniere»; Cresc. l. 1 c. 5 «Tutto dì»; l. 6 c. 2 «Tutte cose etc. sono migliori»; Pass. f. 61 «Careggiato da tutta gente», f. 298 «Tutto dì interviene»; Bocc. n. 77 [137] «La fante vostra v’è tutto dì oggi andata cercando», e n. 79, havendo detto [4] «Veggiamo tutto il dì», pochi versi appresso soggiunse «Tutto giorno»; n. 100 [13] «Honorerebbonla in tutte cose sì come donna etc.». [4]Ne’ quali esempi si possono agevolmente discernere le differenze de’ modi, che non è in tutti il medesimo.
Gesti e tratto.
cclxvii. [1]L’una e l’altra di queste voci è assai in uso a’ moderni, ancorché non se ne apporti esempio di scrittore antico. [2]«Di volto e gesti gravi» disse il Davanzati nel i delle Istorie, e quivi pure un’altra volta,
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e nel l. 14 «Atteggiamenti e gesti». [3]E prima di lui l’Ariosto, c. 7 st. 55 «Tanto ne’ gesti era amoroso», c. 10 st. 36 «Ch’egli conobbe ai gesti et alle gonne», c. 16 st. 10 «Affettuosi gesti», c. 25 st. 55 «Né ch’io sia donna alcun mio gesto niega», c. 31 st. 38 «E mostrava ne’ gesti e nel sembiante» etc.
[4]Pur questa è voce antichissima quanto il Barb., che l’usò f. 104 «Pur sien cotai di fuor li gesti tuoi: / netto parlar e bello / rider s’avvien che dello / far tel convegna».
[5]Tratto per ‘maniera’, onde sogliam dire bel tratto, nobil tratto, tratto villano etc., in tal sentimento non ha esempio nel Vocabolario. [6]Pur è del medesimo Barb. f. 238 «Che soglion serbar questi / di maggior tratti agresti», e f. 179 «Poi fa ragion che non faccia i tuoi tratti», cioè il tuo procedere che suol dirsi.
Possendo per potendo.
cclxviii. [1]Possendo, ancorché non ne leggiate esempio al v. potere, ve ne ha moltitudine, e appresso il Petrarca quasi per tutto, e nel Bocc. n. 88 [4] e due volte n. 98 [3 e 116], e in G. Vill. l. 8 c. 49, c. 69, l. 9 c. 21, c. 194; e in M. Vill. l. 11 c. 18; e nel Pass., Omel. d’Origene e cento altri.
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A soverchio e che diminuito.
cclxix. [1]Non è fallo da condannarsi, ma vezzo da ben usarsi tal volta, il così adoperare l’a che non operi nulla. «Ahi cattivello a te» disse il Boccacci Lab. n. 293, e n. 279 «Sì ben le pare di saper dire a lei», e nov. 27 [57] «La cui morte io ho tanto pianta, quanto dolente a me»; e M. Vill. l. 7 c. 66 «Feciono a sapere al Re», e l. 5 c. 27 «Il feciono a sapere allo ’mperadore»; e forse ancor questi d’Alb. Giud. Tratt. 2 c. 3 «Quando consigliano a gli huomini stolti», e c. 37 «Quando ad alcuno consiglia», peroché consigliare non sostiene il terzo caso per regola.
[2]Scemo è il che ne’ seguenti esempi: Bocc. n. 99 [101] «M. Torello in quell’habito che era», cioè in che; Brun. Tesoretto [f. 42] «Là via ch’io m’era messo», e quivi medesimo [f. 44] «A tutte le carate che voi oro pesate etc.». [3]E somiglianti a questi altri molti se ne truovano in buoni autori, e giovi il saperlo almeno a sapere che, se son licenze, non però sono falli.
Improprietà somiglianti a sproposito e pure non senza esempio.
cclxx. [1]Ricordami d’havere udito un predicatore, huomo di grandissima voce benché di non così grandissimo grido, il quale in certa solennità disse che il tal santo, subito entrato in cielo, s’inginocchiò in terra e
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quivi adorò, e poi fece e disse quel che il valente huomo volle fargli fare e seppe fargli dire. [2]Hor quell’entrare in cielo e inginocchiarsi in terra parve ad alcuni giovani che l’udirono un così gran fare, che mossero la questione del quanto per ciò si dovettero allungare quelle ginocchia, e simile altre ciance in beffe del misero predicatore; il quale per terra havea inteso il suolo su dove il santo stava in piedi, fosse poi cielo o che altro si voglia; e non male, peroché veramente è in uso il trasferirsi il nome d’una materia ad un’altra da cui si ha il medesimo effetto. [3]Eccolo nel Boccacci, appunto in questo nome di terra, colà dove nella n. 41 [29], descrivendo una battaglia in mare, dice: «Il che vedendo i Rodiani, gittate in terra l’armi, quasi ad una voce tutti si confessarono prigioni». [4]Hor qui la terra non fu altro che il tavolato della nave sul quale gittarono l’armi, ed è un tal fare che suol dirsi gittarle in terra.
[5]Hor che direbbono que’ beffatori, se nella n. 77 del medesimo scrittore leggessero [142] «Cominciò a mugghiare che pareva un leone». [6]In che nuova Africa e Nuovo Mondo mugghiano i lioni e per iscambio rugghiano i buoi? E quell’altro di G. Vill. l. 1 c. 60 «La grande faccellina»: come faccellina, se grande? E del medesimo l. 11 c. 2 «Visibilmente udì un fracasso»: miracolo che gli occhi odano visibilmente. [7]Né punto meglio in proprietà di parlare F. Vill. c. 97 «La gente a piè più chetamente cavalca» etc.
[8]E quanto alla presente giunta, basti sin qui. Non perché manchi materia da proseguire, ma il troppo altro che fare, e ’l troppo increscevole far che è questo, me ne tolgon per hora l’uno il tempo, l’altro la voglia.
il fine
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indice
a
A si è alle volte posto soverchio v.g. «Ahi dolente a me», p. 422.
Abbenché non ha esempio, né vuole usarsi, p. 248.
Abbisognare si truova col quarto caso, p. 403.
Accenti, come vogliano usarsi, p. 59.
Accento de’ preteriti imperfetti, amavamo, leggevamo, havevamo etc., secondo gli esempi de gli antichi, de’ posarsi sopra la penultima sillaba, e dire amavàmo etc., p. 338.
Accento, col trasporsi, muta alcune vocali ne’ verbi debbo, esco, odo, p. 183.
Accento discioglie i dittonghi quando passa da essi più innanzi, v.g. si dice suona e siede, ma non suonava e siedeva, p. 184.
Acciò mal si adopera per ad hoc ut, dovendosi dire accioché, p. 31.
Accorciar non si dee la prima voce di niun verbo, salvo quella d’essere, p. 217.
Adulare ad alcuno ha buoni esempi, p. 408.
Adesso per ‘hora’ e ‘subito’ è ottima voce, p. 403.
Aere è ottima voce e d’amendue i generi, p. 340.
Affissi mi ti si etc. non raddoppian la consonante quando si aggiungono a voci tronche, v.g. non si dirà levammi per mi levai, ma levami, e così di tutti gli altri, p. 83.
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Aggettivi ben tramezzati da’ sustantivi, come a dire «Pieni di tanta meraviglia e di così nuova», p. 113.
Aggettivi bene adoperati in forma d’avverbio, come «Rado interviene», «Bianco vestita» e simili, p. 178.
Aiutare si truova col terzo caso, p. 323.
Alcuna cosa è ben detto in vece d’un poco, p. 63.
Altresì può stare in principio di periodo, p. 296.
Altri pronome si adopera in tutti i casi, non solamente nel retto, p. 222.
Altro per lo pronome altri è fallo, ivi.
Altrui in caso retto ha di buoni esempi, ma meglio è astenersene, p. 223.
Ambasciata non significa solamente quel che dice l’ambasciadore, p. 345.
Ambi, ambo, ambe, ambidue, ambedue appena hanno esempi in prosa antica, p. 410.
Ammalarsi ha esempio, p. 384.
Anche è miglior voce che anco, p. 131.
Andare ha più volentieri andrò, andrai etc. che anderò, anderai etc., p. 52.
Andare da uno per «ad uno» è ben detto, p. 391.
Appo non si dà solamente a persone, ma ancora a cose, p. 253.
Appostatamente non vale solamente ‘apposta’, ma ancora l’apposite de’ Latini, p. 352.
Aprì preterito è ben detto, non solamente aperse, p. 220
A pruova significa ‘a competenza’; può ancora significare ‘per pruova’, p. 402.
Aquamorta, Aquaviva e simili ben detti, p. 280.
Arbore si truova in genere feminile, p. 358.
Ardire, osare e credere si sono usati con di e senza, p. 136.
Arena e rena, arenare e arrenare, tutto è ben detto, p. 399.
Articoli, non si debbono necessariamente replicare ad ogni nome, ma un solo ne può regger molti, p. 146.
Avvegnaché non sempre obliga al soggiuntivo, p. 218.
Avverbi coll’articolo, p. 312.
Avverbi, non si debbono spezzare, dicendo v.g. «Chiara e distintamente» etc., p. 35.
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Avverbi, si adoperan come aggettivi, e aggettivi come avverbi, p. 178.
b
Bandire non è ‘mandare in bando’, ma ‘publicare’, p. 263.
Battaglia si truova detta di due soli combattenti, p. 275.
Benissimo avverbio, forse non ha esempio, p. 248.
Bisognevole è ciò che fa bisogno, non chi ha bisogno, p. 192.
c
Caggio ancor in prosa da caggi, caggia, caggiano, p. 419.
Cale e calere mal si adoperan come nomi; son verbo, ed hanno altri tempi, p. 241.
Capire appena ha esempio d’attivo appresso gli antichi, i quali han detto «La tal cosa cape nella tale», non «La tal cosa cape la tale», p. 400.
Capo per ‘guidatore’ si dice ancora di molti, p. 249.
Carcere è d’amendue i generi, p. 147.
Causa e causare sono cosa diversa da cagione e cagionare, p. 353.
Celeste è ottima voce in prosa, p. 406.
Ci avverbio vale ancora per ne, da, di, p. 224.
Ci avverbio si dà a cose presenti, vi a lontane, p. 269.
Ciascheduno è ottima voce, e del Boccacci, p. 160.
Cielo usato porsi con di, da etc. in vece di del, dal etc., e così d’altri nomi, p. 189.
Che si è adoperato per in che, p. 422.
Che accompagnata col dimostrativo dove parrebbe doverlesi il soggiuntivo, p. 376.
Che stranamente accordata coll’infinito, p. 51.
Che che pericolo ne corra è stato detto, p. 230.
Chi si è dato al plurale, «Chi pensano», «Chi tolgono» etc., p. 353.
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Chiedere si truova col sesto caso, p. 357.
Chiunque si è dato non solamente a persona, ma ancor a cosa, né però è da usarsi, p. 405.
Cognomi, amano d’esser terminati in i, ma non sempre, p. 129.
Come può accompagnarsi col primo e col quarto o sest caso, e dire come io e come me, p. 108.
Come che non significa ‘percioché’, ma ‘benché, ancora che’ etc., p. 31; tal volta vale per ‘comunque’, p. 34.
Compianto è ancora d’un solo, p. 275.
Compositione e componimento, in che differiscano, p. 388.
Concesse e concesso per concedé e conceduto ha esempi di prosa, p. 355.
Conciosia cosa che e con ciofosse cosa che non sempre obligano al soggiuntivo, p. 219.
Confidarsi si truova col terzo caso, p. 386.
Con il, con li, con i, co i non sono più in buon uso, p. 113.
Con la, con le etc. e colla, colle etc. è ugualmente ben detto, p. 348.
Contento nome sustantivo ha esempio, p. 34.
Contro e contra, non è regola certa che quella serva solo al secondo e terzo caso, questa al quarto, p. 48.
Con tutto che, cioè ‘benché’, si può dare al dimostrativo, p. 354.
Con tutto che, con tutto, tuttoché e tutto sono un medesimo avverbio; con che tempi si accompagnino, p. 134.
Convenire verbo ben si accorda co’ sustantivi, come a dire «Conviensi l’huomo confessare» etc.; così ancora divenire e penare, p. 126.
Costà si è adoperato per colà in certi modi di favellare, p. 404.
Costì, costà e cotesto si debbono al luogo e alle cose del lontano con cui si parla; pur cotesto si truova usato altramente, p. 242.
Costui ben si adopera senza di in secondo caso, e ancora colui, p. 56.
Credere, vedi ardire.
Cui, secondo e quarto caso, ben si scrive in prosa senza arti-
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colo, p. 56. Nel terzo caso è più de’ poeti, ivi; cui in primo caso ha esempi da non imitare, p. 58.
d
Da poi è avverbio, e mal si usa come prepositione, e vuol dopo sé il che, p. 39.
Debbe per debet è ben detto, p. 302.
Degnare appena ha esempio antico d’altro che neutro, p. 346.
Deliberare una cosa ha esempio, p. 358.
Del sì, del no etc. ottimamente si dice, p. 338.
Denno per debbono ha esempio in prosa, ma non è da seguitarsi, p. 332.
Dentro e di fuori è meglio che di dentro e fuori, p. 120.
Derogare si truova col quarto caso, p. 358.
Devo, devi, deve etc. ha molti esempi, p. 109.
Dich’io per dico io si truova usato, p. 131.
Dici per di’ ha esempi in prosa, p. 219.
Dierono è ben detto per dederunt, p. 354.
Di fatto non significa solo ‘subitamente’, ma ancora quel che suol dirsi de facto, p. 362.
Di già appena ha esempio d’antico, p. 219.
Di lui, di lei etc. per suo, come si truovi usato e come no, p. 279.
Dimostrativo adoperato dove parrebbe doversi il soggiuntivo, p. 195.
Di presente non significa ‘al presente’, ma ‘subito’, p. 288.
Divenire, vedi convenire.
Diventare è buona voce, p. 343.
Dopo è prepositione e non vuole il che dopo sé; né si scrive doppo, né dopò, p. 37.
Dovere si dice, e non devere, perché l’accento non preme la prima e, p. 164.
Dovitia è ‘abbondanza’, dovitie vale ancora per ‘ricchezze’, p. 345.
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e
Eclissi è di genere mascolino, p. 297.
Egli ed ei possono adoperarsi per eglino, cioè darsi al plurale, p. 165.
Ella, elle, elli son casi retti, benché usati da’ poeti come obliqui, p. 90.
Empiere, compiere etc. han l’accento nella penultima sillaba; empire, compito etc. hanno esempio, p. 317.
Enfiare si può usare attivo, p. 341.
Esempio ed esempi per esemplo ed esempli è ben detto, p. 374.
Essere verbo, in tutti i tempi ammette dopo sé il quarto caso, p. 109.
Esso a modo d’avverbio non si muta, e mal si dice con essa lei, con essi loro, p. 35.
Et è stata in uso a gli antichi, come hora ed o e, p. 142.
f
Faccio per fo ha qualche esempio in prosa, p. 218.
Fallare non val solamente mancare, ma ancora errare, p. 188.
Fenno per fecero ha esempio in prosa, ma non è ben detto, p. 333.
Fiata è di tre e di due sillabe, p. 262.
Fidare e confidare usati neutri, fuori dell’ordinario, p. 343.
Fido ha più d’un esempio in prosa, p. 344.
Figliuoli si dice ancora delle femine, p. 62; figlio è più del verso, p. 63.
Finita è nome come uscita, partita etc., p. 260.
Fiorenza è den detto, Firenze meglio, perché più usato, p. 230.
Frutta in plurale ha esempio, p. 359.
Fussi e fossi etc. è ben detto, p. 127.
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g
Garrire si truova col terzo caso, p. 319.
Gerondi assoluti col primo e col sesto caso che ammettono in più modi, p. 90.
Gerondi posti senza affisso e per qual cagione, p. 161.
Gerondio ben si pone in forza di participio, v.g. «L’uccise dormendo» in vece di dormente, p. 34.
Gesti per ‘atteggiamenti’ ha un esempio d’antico e molti di moderni, p. 379.
Gioventù è voce vecchia e buona, p. 214.
Giusto prepositione si suol dare al maschio, giusta alla femina, p. 222.
Gli pronome mal si dà al terzo caso plurale, e male a cosa di genere feminino, ancorché singolare, p. 125.
Gli non si apostrofa innanzi a parola che non cominci da i, p. 128.
h
Habituro è buona voce e serve ancora a palagi e corti, p. 261.
Havere ed essere tal volta si tacciono dove parrebbe necessario l’esprimerli, p. 238.
Havere posto per essere si dà singolare anche al plurale e non altramente, p. 312.
i
I può raddoppiarsi e no ne' preteriti de' verbi della quarta maniera, e dire io udì e io udii, p. 146. Non si vuol raddoppiare nel plurale a' nomi il cui singolare finisce in io d'una sillaba sola, né dire specchii, occhii etc., p. ivi.
Iddio ben si adopera in tutti i casi, p. 102.
Il usato d'antiporsi a mi, ti, vi, etc. v.g. «Il vi dirò» per «Vel dirò», p. 343.
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Il perché si è detto in vece di per lo che, del quale non v'ha esempio, p. 198.
Il più come ben si adoperi in diversi modi, p. 101.
Impaurire ben si adopera attivo, p. 298.
Impoverire si è adoperato attivo, p. 374.
Inchinare neutro si truova col terzo caso, p. 220.
Infinito si fa nome, etiandio in plurale, p. 221.
Infinito di verbo attivo adoperato in forza di passivo senza affisso, v.g. «Fu condannato a impiccare», cioè ad essere impiccato, p. 75.
Infinito riceve il primo e 'l quarto caso, e quel che sia da osservare nel darli, p. 234.
Intento n.s. ha esempio in prosa, p. 384.
Intervenire si dice ancor bene intravenire, p. 373.
Intramettersi, tramettersi etc. vogliono il secondo caso, p. 300.
Invidiare alcuno appena ha esempio, in vece d'invidiare alcuna cosa ad alcuno, p. 229.
l
L non de' terminare le voci che l'hanno nel plurale, né dir v.g. «I giovanil furori», p. 201.
La per ella si truova usato, p. 275.
La e lo antiposti a mi, ti, ci, si etc., v.g. «La vi dirò» per «Ve la dirò», p. 342.
Lasciamo stare può valere ancora per 'non solamente', p. 313.
Le usato dagli antichi in vece di lo non è da volersi più adoperare, p. 141.
Legna in plurale ha esempio di prosa, p. 359.
Lì e là sono indifferenti a stato e a moto, p. 216.
Lui per a lui, come cui per a cui si truova usato, p. 298.
Lui, lei, loro non sono da usarsi in caso retto, essendo obliqui, p. 88.
Lungo prepositione ben si può dare a persona, e «Lungo il mare» v.g. si dice non di chi va per mare, ma sul lito, p. 309.
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m
M in fine delle voci tronche tal volta si ritiene, tal altra si muta in n, p. 202.
Mai non significa numquam, ma unquam; a far che nieghi convien dire non mai, p. 40; se già non vi fosse altra particella negante, p. 44.
Malamente non significa solo 'crudelmente', ma ancora 'male', p. 305.
Mandar dicendo, mandar pregando etc. è ottimamente detto, p. 86.
Mangiare e bere si è più volentieri usato senza da, «Dar mangiare», «Dar bere», p. 79.
Massime avverbio appena ha esempio, p. 110.
Medesimo ben si adopera in forma d'avverbio, non accordandolo al genere del luogo a cui si dà, p. 60.
Medesimo si truova non accordato, né in genere né in numero, ma non vorrebbe usarsi, p. 371.
Medesimo è idem, stesso è ipse, ma non sempre, p. 165.
Mediante avverbio si può dare ancora al plurale, p. 306.
Messe, sottomesse etc. preteriti per mise, sottomise etc. si truova, p. 313.
Mezzo a maniera d'avverbio, dato a cosa di genere feminile, è ben detto, v.g. «Un’hora e mezzo», p. 341.
Minacciare si truova col terzo caso, p. 287.
Molti forti per molto forti e simili è ben detto, p. 160.
Morse è preterito di mordere, non di morire, p. 106.
Motteggiare si truova attivo, p. 353.
Muovere ben si adopera neutro assoluto, p. 294.
Muto per mutolo ha esempi di prosa, p. 218.
n
Navilio sono molti legni insieme, p. 181.
Né non non vale più che né solo, p. 230, 339.
Nessuno è ottima voce, p. 301.
Niente si adopera a significar 'qualche cosa', p. 230.
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Niuno può significare 'alcuno', p. 230.
Noce arbore si truova in genere feminile, p. 320.
Nomi usati in amendue i generi, p. 178.
Nomi mascolini in ore adoperati con cose di genere feminile, p. 233.
Nomi che significan moltitudine ricevono il verbo in plurale, v.g. «La gente che v'erano», p. 192.
Nomi in singolare e in plurale posti insieme ricevono il verbo accordato con qual d'essi si vuole, p. 285.
Nomi di maschio e di femina posti insieme, qual regola servino nell'accordar quel che siegue coll'un d'essi, p. 188.
Non in molti luoghi si adopera senza nuocere né giovare, p. 354.
Non che non ha sempre forza avversativa e di negatione, p. 369.
Non per tanto non vale 'non perciò', ma 'nondimeno'; pure il primo ha esempi, p. 113.
Nudo per ignudo ha molti esempi di prosa, p. 218.
o
Ogni si truova dato al plurale, ma non è da usarsi, p. 248.
Ogni si può apostrofare davanti a ogni vocale, p. 128.
Ogni cosa riceve il genere mascolino, v.g. «Ogni cosa è pieno», p. 192.
Ogni Santi e Ognissanti, specolatione da nulla a distinguerli, p. 246.
Ognuno non è solo di più insieme, e può adoperarsi per ciascuno; e similmente ogni, p. 61.
Onde avverbio, adoperato per di cui, de' quali e simili stranamente, p. 81.
Ormai per omai e oramai si truova usato, p. 220.
Osare, vedi ardire.
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p
Parete non è di genere mascolino, p. 377.
Parole disusate da fuggirsi, p. 136.
Particelle gli, chi, che, sì come etc. stranamente accordate, p. 47.
Participare si truova col quarto caso, p. 298.
Participi assoluti ammettono il primo e ’l secondo caso, p. 96.
Participi preteriti retti dal verbo havere si accordano volentieri col nome, ma possono ancor discordare in genere e in numero, p. 152; il medesimo è de’ retti dal verbo essere, p. 156; il medesimo è ancora degli assoluti non retti espressamente né da havere né da essere, p. ivi.
Participi d’alcuni verbi ricevono l’essere in maniera oggi strana, p. 116.
Participi, quali richieggano il verbo havere e quali l’essere, e quali accettino l’uno e l’altro, p. 206.
Participi potuto e voluto innanzi all’infinito, quando vgliano l’essere e quando l’havere, p. 211.
Partire per discedere si è usato neutro passivo e neutro, coll’affisso e senza, p. 294.
Pater nostri, ave marie, credo in Deo sono ben detti, p. 103.
Penare, vedi convenire.
Perdere non dà nel preterito perse, ma perdé, p. 106.
Per lo e per il, come si debbano usare, p. 196.
Però non vale solamente ‘per ciò’, ma ancora ‘nondimeno’, p. 283.
Per quello che più volentieri si accompagna col sggiuntivo che col dimostrativo, p. 356.
Persona il quale e simili è ben detto, p. 355.
Per tutto Italia e per tutta Italia, l’uno e l’altro è ben detto, p. 144.
Piovere adoperato attivo, p. 78.
Pochi honesti costumi e simili è ben detto, p. 161.
Poco meno è ben detto per ‘quasi’, p. 369.
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Por mente si è usato assai col quarto caso, oltre al terzo, p. 308.
Porta e uscio usati indifferentemente, p. 242.
Possendo si è molte volte usato in prosa per potendo, p. 380.
Presto avverbio è ben usato, p. 112.
Preteriti de’ verbi, come si formino: se ne danno regole o modi dalla p. 179.
Preteriti della prima maniera de’ verbi, ben si adoperano scemi, levandone una sillaba, v.g. dimentico per dimenticato, uso per usato etc., p. 226.
Primogenito si muta col genere e col numero, p. 63.
Promesse per promisit si truova, p. 313.
Promettere si è adoperato per ‘minacciare’, p. 223.
Protestare de’ dirsi, non protestarsi, p. 167.
Puonno per possono ha esempio in prosa, ma non vuole usarsi, p. 333.
Puote non è preterito, ma presente, p. 120.
Pure usato di posporsi a varie particelle, p. 342.
q
Qualche col plurale ha un esempio, p. 248.
Qualunque si è dato al plurale, p. ivi.
Quanto che è ottimo e vale ‘ancorché, benché’ etc., p. 338.
Quantunque è certo che si è usato e può usarsi avverbio, p. 168.
Quello il quale si truova posto per illud quod, p. 171.
Questo si può dare a cosa altrui ma presente, v.g. «Queste tue lagrime», p. 292.
Questo e quello sustantivi in vece di questi e quegli non sono da volersi usare significando persone; e pur come possa salvarsi, p. 175.
Qui non serve solo a stato, ma ad ogni maniera di moto, p. 217.
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r
Richiedere ad alcuno alcuna cosa è ben detto, p. 361.
Rinuntiare all’uficio etc. è ben detto, p. ivi.
s
S innanzi ad altra consonante in principio di parola, che servitù metta, p. 205.
Salvo, salvo che, salvo se, tutto è ben detto, p. 144.
Sanare si truova neutro e può usarsi, p. 341.
Saramento, non sacramento, si è detto per ‘giuramento’, p. 59.
Scordare per ‘dimenticare’ è buona voce dell’uso, ma senza esempio antico, p. 304.
Sdrucire e sdruscire non significa solamente ‘scucire’, p. 108.
Se, seconda persona del verbo essere, è più regolato che sei o se’, p. 173.
Se bene avverbio è cosa moderna, p. 219.
Se non fosse è meglio detto che se non fosse stato, p. 224.
Senza più non significa ‘dopo, appresso, etc.’, ma quel che suona, p. 52.
Signoreggiare si truova col terzo caso, p. 319.
Sii e sia in seconda persona è ugualmente ben detto, p. 111.
Simile è ottima voce in prosa, p. 392.
Sincopare le voci è lecito ancora a’ prosatori, v.g. vivrò, sgombrò, oprare, cadrà etc., p. 306.
Sì veramente si truova bene accompagnato col dimostrativo, p. 335.
Soffrì per sofferse ha buoni esempi, p. 181.
Sol per sola, v.g. «Una sol volta», si danna di solecismo, p. 201.
Sovràsta e soprastà, contràstano e contrastànno, se e come si truovino usati, p. 371.
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Sparto è della prosa altresì come sparso, p. 223.
Sperare si è adoperato per temere, p. 219.
Succedere si dice ugualmente bene della cosa e della persona, p. 337.
Succedere per ‘avvenire’ in buona lingua è sol delle cose che vengon dietro, non di tutte quelle che avvengono, p. ivi.
Suoi per loro ha moltissimi esempi, ma meglio si fa non imitandoli, p. 173.
Superlativi, si sono usati con particelle d’accrescimento, v.g. «Molto ricchissimo» etc., p. 172.
Superlativo, si truova col secondo caso, p. 347.
Supplire si truova col terzo caso, p. 319.
Sustantivi de’ quali l’uno è come cosa dell’altro posson ricevere il medesimo e diverso articolo, e dirsi v.g. «La statua di marmo» e «del marmo», p. 168.
t
Talento significa ‘volontà, appetito etc.’; forse ancora ‘abilità, attitudine’, p. 345.
Tanta poca gente e simili è ben detto, p. 160.
Templo, v. esempio.
Terminatione de’ preteriti in aro e iro, v.g. amaro, usciro, sta bene ancora in prosa, p. 289.
Terminatione de’ tempi passati in ia, v.g. udia, servia, seguia, e ameria, havria, potria etc. fu molto in uso a’ prosatori antichi ed è buona, p. 170.
Terminatione in emo nel presente de’ verbi della seconda maniera, come semo, havemo, dovemo etc., è ottima, p. 158.
Terminationi straordinarie di nomi nel plurale, v.g. le arcora e le membra, p. 277.
Testimonio vale ancora per ‘testimonianza’ e può dirsi dar testimonio etc., p. 290.
Timido si truova per ‘da temersi’, come pauroso è chi ha e chi mette paura, p. 299.
Trarre dà nell’imperativo trai, p. 349.
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Trasandare adoperato attivo, e se debba dirsi trasvada o trasandi etc., p. 309.
Tratto per ‘maniera’ ha esempi antichi, p. 421.
Trave ha un esempio di feminino, p. 377.
Tristezza è ben usata per ‘malinconia’, p. 232.
Troncamento, con quali maniere di voci possa usarsi, p. 199.
Troppi larghi parti per troppo è ben detto, p. 160.
Tutti e tre, tutti e quattro etc. usato dirsi da gli antichi e ben detto, p. 83.
Tutto dì, tutta gente e simili è ben detto, p. 378.
v
Varietà grande e lecita in moltissime voci e modi, p. 134; se ne allegano autorità di scrittori, p. 351.
Vascello è voce moderna e buona, p. 107.
Vdire si dice, non odire, perché l’accento ch’era su l’o d’odo è passato innanzi, p. 356.
Venire da uno per ad uno è ben detto, p. 349.
Verbi impersonali piovere, tonare etc. adoperati attivi, p. 78.
Verbi che d’attivi divengon neutri, di neutri attivi etc., se ne apportano molti, p. 267.
Verbi, alcuni accettano indifferentemente il secondo e ’l sesto caso, p. 245.
Verbi che servono alla memoria, hanno una lor maniera singolare, p. 347.
Verbi che traspongono l’l e l’n, tolgo, togli, piango, piagni, che regola habbiano, p. 58.
Verbi scorrettamente usati in diversi lor tempi:
non si de’ dire io amavo, leggevo, udivo, ma io amava, leggeva, udiva etc., p. 50;
non quegli amorono, studiorono, imparorono etc. della pri-
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ma maniera de’ verbi, ma quegli amarono, studiarono etc., p. 51;
non io amarò, studiarò, impararò etc. della medesima prima maniera, ma io amerò, studierò etc., p. 82;
non noi ameressimo, leggeressimo, udiressimo per amaremus, legeremus, audiremus, e così di tutti i verbi, ma noi ameremmo, leggeremmo, udiremmo etc., p. 80;
non noi amassimo, leggessimo, udissimo, per amavimus, legimus, audivimus e così de gli altri, ma noi amammo, leggemmo, udimmo etc., p. 81;
non ch’io legghi, dichi, habbi, facci etc. e che legghino, dichino, habbino, faccino etc., ma ch’io legga, dica etc., leggano, dicano etc., e così di tutti i verbi che non sono della prima maniera, p. 84;
non io sarebbi, vorrebbi etc., per io sarei, vorrei etc., p. 240; non se voi volessi, credessi etc., e se volessivo, credessivo, etc., per se voleste, credeste etc., p. ivi;
non voi amavi, voi credevi, vedevi etc. per voi amavate, credevate etc., p. 241;
non cercono, guardono, amono etc. della prima maniera, come fossero delle tre altre, p. 242;
non credano, odano, temano per credunt, audiunt, timent, come fssero della prima maniera, p. ivi;
non noi vissimo, vidimo, hebbimo etc. per vivemmo, vedemmo, havemmo etc., p. ivi;
non vi m’amasti, voi l’uccidesti, voi mi dicesti etc. per voi m’amaste, voi l’uccideste etc., p. ivi.
Verbo in singolare ben si dà a cose in numero plurale, v.g. «Fu tagliate le teste a molti» etc., p. 265.
Vero sta bene non accordato né in genere né in numero, p. 341.
Veruno può valere per ‘niuno’, p. 135.
Vestigia ha qualche esempio in prosa, p. 359.
Vi avverbio, vedi ci.
Vicinanza vale ancora per ‘prossimità’, p. 362.
Voci italiane, quali sieno da potersi usare, se ne parla a lungo p. 320 etc.
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Voci del genere feminile, accresciute divengono maschie, v.g. lettere dà letteroni etc., p. 335.
Volsi è preterito del verbo volgere, non di volere, che dà volli, volle, vollero, p. 86.
Voluto e potuto: innanzi all’infinito, quando vogliano l’essere e quando l’havere, v.g. non ho potuto o non son potuto passare, p. 211, etc.
Vorrei e vorrebbe si è detto per havrei e havrebbe voluto, p. 225.
Vsare si è usato ancora col secondo caso, p. 370.
Vscire si dice, non escire, perché l’accento ch’era su l’e d’esco è passato innanzi, p. 163.
Vscire si è usato molto più col secondo caso che col sesto, p. 171.
Vuo’ per voglio è mal detto; il suo accorciato è vo’, vuo’ è di vuoi, p. 226.
z
Z e t, ragioni pro e contra amendue, p. 63.
il fine