Regole grammaticali della volgar lingua

edizione a cura di Claudio Marazzini e Simone Fornara

Autore:
Giovan Francesco Fortunio | Fortunio Giovanni Francesco

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AGLI STUDIOSI DELLA REGOLATA VOLGAR LINGUA GIOVANNI FRANCESCO FORTUNIO

Soleva io nella mia verde etade, sincerissimi lettori miei, quanto di otioso tempo dallo essercitio mio delle civili leggi mi venia concesso, tanto nella lettura delle volgari cose di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, dilettevolmente ispendere. E scernendo tra' scritti loro, li lumi dell'arte poetica e oratoria, non meno spessi, che a noi nella serena notte, si mostrino le stelle, e non con minor luce che in qualunque più lodato auttore latino, risplendere, non mi potea venir pensato che sanza alcuna regola di grammaticali parole, la volgar lingua così armonizzatamente trattassono. E con più cura alquanto rileggendoli, e il mio aviso non vano ritrovando, per ammaestramento di me medesimo, quelli finimenti di voci che a ffare o generali regole, overo con poche eccettioni, mi paressono convenevoli, cominciai a raccogliere. E venemi fra breve tempo sì ben fatto, che il variar delle voci nelli numeri degli nomi, gli casi che alli pronomi si convengono, le congiugationi, e declinationi delli verbi agevolmente ritrovai. E quindi, la orthographia dalla latina assai diversa comprendendo, mi parve che come li grammatici latini, dalla osservatione degli approvati auttori loro, latine regole hanno posto insieme, così nella volgar lingua, la quale invece di quella hoggidì usiamo communamente, con la osservatione delli sopranomati tre auttori, in ciò degli altri primi, ad ogni studioso di lei, il medesimo poter essere concesso. E non contentandomi io solamente di esse grammaticali norme, ad haver delli più riposti vocaboli, della costrutione varia delli verbi, della volgar arte metrica contezza, più oltre mi diedi, e non sanza studio, e fatica, delle già dette cose, cinque libbri partitamente ciascuno di loro la sola sua materia trattante, adunai insieme, niuna cosa avisandomi meno che di mandargli ad universal noticia di ogniuno in luce. Ma da molti giuditiosi, e cari amici miei, che di lor lettura fatti erano sovente partecipi, più volte essendo con lor preghere costretto di farle vosco della volgar lingua studiosi, esser communi, del tutto negarlo non mi è paruto convenevole, come che io habbia sempre portato fermissima oppenione, e porti, di tal mia fatica non solo non ricevere per merito alcuna lode, ma appo diverse maniere di genti, varij e diversi biasimi riportarne, però che alcuni diranno, anzi dicono, tale mia impresa esser stata e vana, e quale onde nascer non possa alcun profitevole frutto, perché volendo dar regole alla volgar lingua, sarebbe di mistieri, overo tutti gli idiomi delle diverse italiche regioni, il che dicono impossibile essere, ad uniformi e medesime regole del parlar e scriver sottoporre, overamente per ciascuno di loro ordinar diverse regole, conciosiacosa che (come si vede) non solo le regioni, ma tutte le lor cittadi, e castella hanno tra sé molto diverso modo di prononciare, e seguentemente di scrivere. Oltre che il volgare, secondo l'uso che è mutabile si varia, il che non così del latino sopra l'arte fondato, suole avenire, come dice Dante nel principio de' suo' Convivi; il perché in quella, come in cosa mobile, regole generali né particolari che stabili siano, fondar non si possono, dimostrandoloci etiandio il medesimo Dante nel canto XXVI del Paradiso, quando in persona del primo huomo parlando, disse: “Opera natural è c'huom favella; Ma se così o così natura lascia Poi far a voi, secondo che vi abbella”, poco da poi soggiongendo: “Ché l'uso de' mortali è come fronda In ramo, che sen va e l'altra vene”. Altri poi (per aventura) da men cattivo intendimento mossi, dicono che, come che altro che ben non sia le regole dagli auttori toschi usate intendere, e quelle intese, dimostrare altrui, a me, come ad huomo di professione molto diversa, e di loquela alla tosca poco somigliante, meno che di fare ogni altra cosa richiedersi, perché, volendo io dar norme della tosca lingua, tutto che vere nelli miei scritti le porgesse, con maniera di parlare da quella degli auttori diversa porgendole, e in quello ch'io volesse altrui insegnare errando, opera né a me lodevole, né ad alcun altro dilettevole potrebbe riuscire. Altri sono poi di piggior (per quanto a me ne paia) intendimento, e quali dicono di soverchio essere le volgari norme, perché la volgar lingua dalla latina originata, sì nel parlar come nel scrivere deve seguitarsi, scrivendosi, e dicendosi, io dixi, epso scripse, un saxo, molte parte e molte morte, e l'equale, e sancto, prompto, con infiniti altri simili, che più tosto giudicar si possono voci latine, che volgari, il qual modo questi cotali massimamente lodano, e dicono esser bastevole. E altri poi la imperfettion delle regole, altri la dispositione e divisione loro non che la elocutione forse biasimeranno; agli primi parrebbemi potersi brevemente rispondendogli dire che, essendo stati gli auttori predetti di lingua tosca e quella meno assai di qualunque altro idioma italico corrotta, e la quale sola il regolato ordine di parlare ci può porgere, né sconvenirsi a me delle regole di lei per me ritrovate farvi copiosi e meno a voi appararle volontieri. Né deve alcuno mover la mutation de l'uso a noi apposta per ciò che, se vogliamo ben considerare il parlar delli già detti auttori e quello che tra huomeni scienti hora si usa, ritrovaremo assai poco l'uno dall'altro differente, e se noi poniamo ben mente, vederemo che tutti li pellegrini italici ingegni di qualunque si voglia regione che di scriver rime prendano diletto, quanto più possono il stile del Petrarca, e di Dante se ingegnano, con quelle istesse loro tosche parole di seguitare. E quantunque alcuni vocaboli mutati, e altri spenti, e altri novamente rinati si trovassero. Questo istesso ancho Horatio nell'arte sua poetica, alla lingua latina per la variatione de' secoli, dice adivenire, né per tanto molti huomeni eccellentissimi di componer regole della grammatica, gli antichi approvati auttori loro tuttavia seguendo si sono rimasti, né si rimangono. E come che Prisciano dalla prima parola dell'opera sua incominciandosi, fosse da sopravegnenti grammatici ripreso, non per ciò gli è tolto che li buoni grammaticali ammaestramenti, non siano dagl'emparanti le buone lettere ricevutti, per ciò che non al modo di porgere esse regole, ma chente elle si siano le a noi porte, si deve havere riguardo. Alla raggione delli seguitatori della latina lingua in ogni suo volgare scrivere, si può ancho così rispondere: che la latina lingua la quale prima romana si chiamava, per la Italia diffusa, indi pigliando il nome, per ciò che tutti li Italici, e dotti e indotti (benché con diversa tra loro maniera di dire), quella usavano, per le varie incursioni de' barbari fu in questa, che noi volgar chiamiamo, trasfusa, e così divenne assai diversa lingua da quella (la quale tra pochi si rimase intiera) e fu ricevuta dalle regioni come non meno atta che l'altra ad isprimer li concetti nostri, qual si può conoscer nelle opere delli spesso sopranomati auttori; e questa dobbiamo affaticarsi far dovitiosa, seguendo con la penna non il latino, il quale have pronontiar diverso, ma talmente, come nella volgar più tersa lingua li vocaboli siano pronontiati. A quegli veramente che diranno queste mie regole esser manchevoli, e con inordinata dispositione distinte e meno che elegantemente proposte, il tutto posso io confessare dandomi a vedere che, se' latini grammatici, il cui numero è infinito, d'altri auttori trahendone le lor regole non sanza riprensione sono passati che in ciò, gli errori miei (discendendo io nel campo primo volgare grammatico) fussono ripresi meno, havendo io forse datta cagione a più alti ingegni, e più essercitati nella volgar lingua che 'l mio non sia, a nuove norme per commune utilitate riformare, perché come scrisse Dante, “Poca favilla gran fiamma seconda: Forse diretr'a me con miglior voci Si pregherà perché Cirra risponda”. E se tali eccellenti padri della lingua non degneranno discendere a così bassa impresa, non mancheranno degli mezzani li quali volontieri isporrannosi a pigliarla, perché quanto agevole sia alle cose già ritrovate aggiungere, e quanto di diletto a molti porga il riprender altrui, avisandosi con l'uno e l'altro acquistar fama, gli antichi tempi non che li moderni ne rendono testimonio, perché (come si legge) né ad Homero riputato divino più tosto che humano, né al mantoan poeta che di pari seco giostra, né a qualunque orator o grammatico quantunque eccellentissimo si fusse, mancarono mai acerbissimi riprensori. Che dunque pensar di me si deve, che non solo con alcuno apprestamento di parole ornate, ma con quali mi sono occorse, questo principio di mia nova grammatica vi ho porto? Tanto mi resta di speranza che niun vento si troverà il quale così bassa polvere possa né voglia sollevar da terra, qua e là con la sua bufera dimenandola; ma (a qualunque modo si sia), havendovi io dato quanto le facultadi del mio ingegno sono state bastevoli, e per dar più se potuto havessono, dovete me haver iscusato recandovi alla mente il detto del festevolissimo poeta Martiale, il quale di se stesso parlando disse tra l'opere de' scrittori alcune cose esser bone, molte cattive, e in maggior numero piggiori, il qual detto estender si puote non solo a scritti de' poeti ma degli oratori ancho e grammatici, e agli altri scrittori, non vi scordando però della pliniana sententia intorno a ciò: che nessuno libbro tanto è cattivo, che alcuna cosa di buono trarsene non si possa. Questi dui primi libbri, onde il modo del dirittamente parlare e correttamente scrivere, non sanza conoscer (leggendoli) li corrigimenti, di molti errori di tutte le stampe di ambi li poeti, con la dichiaratione, di non pochi loro velati intendimenti dagli loro interpreti male dichiariti ricevete, gli altri non dopo molto aspettando, se questi del tutto non vi saranno spiaciuti. Di tanto vi prego, che non vogliate di loro far giuditio nella prima vista, come molti fanno, ma solo quando alla fine della lettura loro sarete pervenuti, per ciò che, se alcuni spini (forse) nella prima entrata di questo mio orticello vi offenderanno, fiori poi che vi dilettino so che nel mezzo, e ogn'hor più oltr'andando, ritroverete.

LIBRO PRIMO

Le parti della volgar grammatica, così bastevoli per cognitione di lei, come necessarie, sono quattro: nome, pronome, verbo, adverbio. Di ciascuna delle quali regolatamente ragionar intendendone, dal nome pigliando principio, dico la prima regola del nome essere, che li nomi li quali in alcuna di queste vocali e overo o finiscono il loro minor numero, in questa vocale i il maggior harran terminato. Dell'uno non ha mestieri essempi, perché ad ognuno è noto dirsi un bello più belli, un sasso più sassi, e così gli altri tali. E in tale norma si comprendono ancho quelli nomi, cui si preponga feminile articolo, come la mano le mani: Petrarca, nel sonetto XXI: “Col cor levando al ciel ambo le mani”; e Dante nel canto VIII dell'Inferno: “Allhora stese al legno ambe le mani”; e così negli altri lochi. Solo ritrovo Dante haver posto nella sua canzone la quale incomincia Tre donne intorno il cor mi son venute, la voce del numero del meno, con lo significato del numero del più, dicendo: “Hai ragunato e stretto ad ambe mano. Quel che sì tosto ti si fa luntano”; e in medesima maniera, nella sua Comedia, parmi che la detta voce una sol volta usasse, nel canto IV del Paradiso quando disse: “Per questo la scrittura condescende A vostra facultate, e piedi e mano Attribuisce a Dio, e altro intende”. Questa voce mane veramente non la ritrovo se non con significanza della mattina, come Petrarca: “Stamane era un fanciullo e hor son vecchio”; e Dante: “Fatto havea di qua mane e di là sera”; e così in tutti gli altri lochi di essi auttori che noi seguimo. Delli secondi nomi parimente in e terminanti, infiniti sono gli essempi, delli quali pochi (la tediosa lunghezza fuggendo) trascriverò: Petrarca, nel sonetto CLXXIII: “Dolci ire, dolci sdegni e dolci paci”, e nel quarto verso: “Hor di dolce ora, hor pien di dolci faci”. Morte, medesimamente, ha morti, nel numero maggiore: Petrarca nel sonetto XXXVI: “Mi vedete stratiar a mille morti”. Così dicemo una parte più parti: Dante nel canto XX dell'Inferno: “Per lo pantan c'havea da tutte parti”; e altrimenti non si trova. Onde li testi li quali nel canto XXVII del Paradiso così si trovan scritti: “Le parte sue vivissime et eccelse Sì uniforme son”, di dui errori sono machiati, perché, come noi diciamo nel primo numero biforme deiforme, così è da dirsi uniforme, e nel secondo numero uniformi. Questa istessa regola adunque segue questa voce consorte, come dimostra Dante nel canto XII dell'Inferno dicendo: “Ove le due nature son consorti”; come che il medesimo poeta, intento all'altezza del soggetto, forse più, che al regolato ordine di rime, e di grammatica, ne fosse alquanto licentioso trasgressore, dicendo nel canto XXI del Paradiso: “Perché predestinata fosti sola A questo officio tra le tue consorte?”; la qual licentia in questo, e nelli sottonotati essempi, gli parve per auttorità poetica (forse) doverli essere senza biasimo concessa; però disse nel canto XXVII del Paradiso: “Dinanzi agli occhi miei le quattro face”; e nel canto XV: “Quelle sustantie pie, Ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?”. E che tal voce nel minor numero così finisca, dimostralo nel canto XXVI del Paradiso: “E per auttoritade a lui concorde”. Né altrimenti è posta questa voce pingue, nel canto XI dell'Inferno: “Ma dimmi: quei della palude pingue”; e nel canto XXIII del Paradiso: “Se mo sonasser tutte quelle lingue Che Polinnia con le sue sore fero Del latte lor dolcissimo più pingue”. Questo altro nome ape altresì con tal finimento è posto nel numero plurale nel canto XVIII del Purgatorio: “sono in voi sì come studio in ape In far lor mele”; ma nel canto XXXI del Paradiso regolatamente scritto si trova: “Sì come schiera de api che se infiora”. Dape ancho, e prece pose nel maggior numero: il primo nel canto XXIII del Paradiso: “Così la mente mia tra quelle dape”; il secondo nel canto XX del Purgatorio: “Tanto è disposto a tutte nostre prece”. Ma qui è da notare, che molte voci, le quali nel primo numero in o finiscono, non solo in i come è sopradetto sono finienti nel secondo, ma alcuni ancho in a, e in e si trovano terminare, come per li sotto notati essempi apparerà: Petrarca nel sonetto CXXIII: “E ricercarmi le midolle e gli ossi”; e altrove: “Spirito ignudo od huom di carne e ossa”; e nel Triumpho secondo dell'Amor: “Vidi il pianto di Egeria; in vece d'osse”. Da questo singular numero membro nascono medesimamente li plurali, nelle dette tre vocali finienti: Petrarca nella canzone ultima: “Nei dolci membri del tuo caro figlio”; e Dante nel canto XVI dell'Inferno: “Ahimè, che piaghe vidi nei lor membri”; e nel canto VI del Purgatorio: “Hai tu mutato e rinovato membre?”; e canto XXIX dell'Inferno: “Che suol uscir delle marcite membre”; Petrarca nella canzone XXVI: “Ove le belle membra Pose colei che sola mi par donna”; e questo finimento è sempre usato da messer Giovanni Boccaccio e frequentato dalli dui poeti nostri. Questo istesso si trova in questo nome muro: Petrarca nella canzone XLIII: “Muri eran d'alabastro, e 'l tetto d'oro”; e nel sonetto XXX: “Né di mure o di poggio o di ram' ombra”; e Dante nel canto IV: “Sette volte cerchiato d'alte mura”. Da vestigio parimente nasce nel maggior numero vestigi: Petrarca nel sonetto CCLXVI: “Lei non trovo io: ma suoi santi vestigi”; e Dante nel canto XXXI del Paradiso: “lassar le tue vestige”; e Petrarca nel sonetto CCLXIII: “Di vaga fera le vestigia sparse”. Corno, come che nel numero maggiore corna regolarmente faccia, corni ancho si legge: Dante nel canto XVIII del Paradiso: “Però mira nei corni della croce”; e il Boccaccio nel suo libro intitolato Dameto (non essendo error di stampa) corne lasciò scritto che scritti con penna non ho veduto. Cotali finimenti ha il numero del più di questo nome calcagno: Dante nel canto XIX dell'Inferno: “Tal era qui da' calcagni alle punte”; e nel canto XIX del Purgatorio: “Bastiti, e batti a terra le calcagne”; il Boccaccio, nel Decamerone alla giornata ottava, nella novella del giudice marchigiano, intorno al mezzo dice: “Le brache ne venero incontanente insino alle calcagna”. Un ciglio e più cigli e ciglia, dir si puote, se l'auttorità di Dante appo noi vale, nel canto III del Purgatorio dicendo: “Ma l'un dei cigli un colpo havea diviso”; e nel canto XXIX: “Che tutti ardesser disopra dai cigli”; e nel canto XIX del Paradiso: “Cotal si fece, e sì levai li cigli”; e nel canto XV dell'Inferno: “E sì ver' noi aguzzavan le ciglia”; e nel VII del Purgatorio “chinò le ciglia”; Petrarca nel sonetto CLXVI: “Gli occhi sereni e le stellanti ciglia”; e altrove: “Dal bel seren delle tranquille ciglia”. Questi medesimi finimenti ritrovo in queste voci castello, strido, dito: Petrarca nella canzone XXXIII: “Per oro, per cittadi o per castella”; Dante nel canto penultimo dell'Inferno: “D'haver tradito te con le castella”; e nel canto XV: “Per difender lor ville e lor castelli”; e nel canto XVIII: “Più e più fossi cingon li castelli”; Petrarca nella canzone XXX: “Se nol temprasser dolorosi stridi”; e nel sonetto CCXXII e nella canzone ultima: “E ho già da vicin l'ultime strida”; Dante nel canto primo dell'Inferno: “Ove udirai le disperate strida”; Petrarca nel sonetto CLXVI: “Deti schietti soavi, a tempo ignudi”; Dante nel canto XII del Purgatorio: “E con le deta della destra scempie”. Ginocchio have altresì nel plural numero ginocchi: Dante nel canto IV del Purgatorio: “Sedeva e abbracciava le ginocchia”. Ginocchie ancho diremo, se torre essempio del finimento de voci dal mezzo de' versi non si disconvene dal Petrarca ove è scritto: “E perché inchinar a Dio convene Le ginocchie e la mente”. Questo vocabol quadrello, che strale dinota, nel numero del meno una sol volta usato lo trovo da Dante nel canto II del Paradiso ove dice: “E forsi tanto quanto quadrel posa E vola e dalla noce si dischiava”. Nel numero del più ponelo Petrarca nella preallegata canzone XXXIII: “S'io 'l dissi mai l'aurate sue quadrella”; e nella canzone VI: “Quadrella, dal voler mio non si svoglia”. Onde imponendo fine a più simili essempi, io direi, che tutti li nomi li quali nella latina lingua si dicono neutri, nella volgare havessono il maggior numero in a finiente sì come in quella, per questi nomi braccia, legna, labbra, fila, vestimenta, latora, corpora, e simili, se io non trovassi molti delli detti nomi neutri, haver il finimento loro, in esso numero in i solamente, come sasso, scanno, regno, tormento, monile, e altri tali, e molti, li quali sono in quella lingua di genere maschile, che il lor maggior numero in questa terminano, come li neutri in essa. E oltre li sopra notati essempi, ancho appare in questi numeri: anella, che anelli non si legge; sacca: Dante nel canto XXII del Paradiso: “le cocolle Fatte son sacca di farina ria”; da riso risa: Petrarca: “So fra lunghi sospiri e brevi risa”; e così sempre il ritrovemo. Coltella, frutta, letta, ramora, e altri tali, si apparano in molti lochi avanti a chi legge la prosa del volgar Cicerone certaldese; però non trascrivo essempi. Il perché io mi aviso doversi seguire quello che più frequentemente usano gli auttori nostri, pur peccati diremo, come Petrarca, non peccata, come Dante.

La seconda regola sarà, che li nomi nel numero primo in a terminanti, nel secondo, regolarmente in e fanno il finimento loro, come stella stelle, bella belle, vesta veste, greggia gregge, come che, questo ultimo nome, nel latino sia de genere maschile e così usato (se dir non vogliamo usurpato), da dicitori moderni non di oscuro nome, nella volgar lingua. Ma io, lettori miei (come vi preposi prima), il Petrarca, massimamente parmi in ogni voce doversi seguitare, et egli dice nella canzon della Italia: “Fere selvagge e mansuete gregge”; Dante nel canto XV dell'Inferno: “O figliuol mio, qual di questa greggia”; e altrove: “D'anime ignude vidi molte gregge”. Dissi questo proceder regolarmente, perché sono alcuni nomi, delli quali tutto che il minor numero finisca in a, il maggiore in i è terminante, come poeta poeti, propheta propheti, geometra geometri, pianeta pianeti, e altri simili. Ma come poco è avanti detto l'uso delli nostri auttori sarà nostra insegna. Né in questa seconda regola più mi estenderò, dalla terza chiamato, la quale non meno di utile che la seconda, vi promette.

La terza adunque regola, dalle due preposte nascente fia tale, che li nomi li quali si ritrovano, haver per finimento nel numero minore a et e, ponno in e e in i terminar il maggiore, come nelli sottonotati essempi apparirà: fronda e fronde si legge nel singular numero, però fronde, e frondi, nel plural si ritrova: Petrarca, nelli sonetti: “Che da bei rami mai non mosse fronda”; e nel sonetto XXVII: “Defendi l'honorata e sacra fronde”; e nel sonetto CLXIV: “L'aura serena che fra verdi fronde”; e nella canzone XXXI: “Alla dolce ombra delle belle frondi”. Il medesimo si ritrova in questo nome loda e lode: Dante nel canto XXX del Paradiso: “Fosse conchiuso tutto in una loda”; e Petrarca, nella canzone XXVIII: “In qualche bella lode”; e altrove: “Le degne lode, il gran pregio e il valore”; e in altra parte: “Che per lodi anzi Dio preghi mi rende”. E perché laude nel solo si trova come nel canto XIX del Paradiso: “Vid'io farsi quel segno che di laude”, nel moltiplicato laudi, e non laude, ritrovemo: Petrarca, nella canzone VI: “So ben io ch'a voler chiuder in versi Suo laudi fora stanco”. E come che nel primo numero froda e frode si legga, pur nel maggiore, non mi sovene haverlo ritrovato: Dante nel canto XVII: “E quella sozza imagine di froda”; e nel canto XI: “E perché frode è de l'huom proprio male”; e poco poi: “La frode onde ogni conscienza è morsa”. Ma chi seguendo la regola delli già detti, ponesse il maggior numero, non credo che errasse. Questo istesso dico di canzona e canzone. Ale e ali, arme e armi, parimente si trovano nel moltiplicato numero, perché nel solo si trovano haver ancho duplicato finimento in a e in e come gli altri, sopratoccati in questa regola. Che ala singular numero sia, niuno è che dubiti; e che ancho si dica una ale dimostraloci pur Dante nel canto XXIX del Purgatorio, ove dice del griphon parlando: “Et esso tendea in su l'una e l'altra ale”; e in tal modo si usa hoggi di questa voce, dagli habitanti a piè dell'alpi verso il monte de l'Averno, e da lei nasce il maggior numero ali, come “Sopra gli homeri havea due grandi ali” disse Petrarca, nel primo Triumpho dell'Amore, e così in molti altri lochi nei versi suoi. E ale non meno spesso, si legge, da questo singular numero ala, descendente, come nel sonetto CCLXVII: “Io pensava assai destro esser su l'ale, Non per la forza, ma di chi le spiega”. Arme in singular voce pose Dante nella canzon sua notabile che incomincia Così nel mio parlar voglio esser aspro, ove dice: “Ma come havesin ali Giungono altrui e spezza ciascuna arme, Sì che da lei non so né posso aitarme”; e nel suo Convito sopra la canzone la quale incomincia Voi ch'entendendo il terzo ciel movete, dice: “Discocca l'arco di colui al quale ogni arme è leggiere”; e questo, Giovanni Boccaccio nella giornata terza, confirmando, nella novella d'un palafrenere disse: “Pur vedendo il Re senza alcuna arme, diliberò di far vista di dormire”. E da questa singular voce deriva, la plural armi: Dante nel canto XVII dell'Inferno: “Che passa monti e spezza mura e armi”. E di questo minor numero arma, posto dal Boccaccio nella sesta giornata nella canzone da Elisa cantata, dicendo: “E ciascuna mia arma puosi in terra”, nasce il maggior numero arme, usato sempre dal Petrarca e da Dante in molti lochi nelli quali tal voce occorra.

La quarta regola sarà, che li nomi adiettivi il cui minor numero, nella volgar lingua, da questa vocale e sia terminato, rimaranno comuni all'uno e altro sesso, come debile, grave, amante. E alcuni nomi sostantivi sono, di incerto genere, che ambi li articoli, di maschio cioè, e di femina ricevono, perché nella volgar lingua, lo articolo dimostrante neutro genere non vene in consideratione, benché si legga lo ampio aria e lo tondo ethera: Dante, canto XXII del Paradiso: “Che lieta ven per questo ethera tondo”. Ma tal modo di dire, alla latina si appropinqua (seguendo la inflession greca) più che alla volgar lingua. Per essempio delli quali nomi, porrò questi dui: fonte e fine: Petrarca nel sonetto XX: “Cercate dunque fonte più tranquillo”; e nella canzone IV: “In una fonte ignuda”; e nella canzone XXX: “Due fonti ha: chi de l'una Bee, muor ridendo; chi de l'altra, scampa”; e nella canzone XVI: “Finir anzi 'l mio fine”; e altrove: “Signor de la mia fine”.

La quinta e ultima regola del nome sia, che molti nomi si trovano in medesima significatione e in variata voce, dell'uno e l'altro sesso, come loda e lodo. Del primo è detto disopra; del secondo: Dante nel canto III dell'Inferno: “Che visser senza fama e senza lodo”. Dimanda, dimando: Dante nel canto XVIII dell'Inferno: “Il buon maestro senza mia dimanda”; e nel canto XXIV dell'Inferno: “ché la dimanda honesta Si die seguir con l'opera tacendo”; e nel canto II dell'Inferno: “Questa chiese Lucia in suo dimando”; e nel canto X: “E io li sodisfeci al suo dimando”. Scritto, scritta: Dante nel canto XIX dell'Inferno: “Di parecchi anni mi mentì lo scritto”; e nel canto XI: “Di un grande avello, ov'io vidi una scritta”; e nel canto VIII: “Sovr'essa vedestù la scritta morta”. Lampo e lampa: Petrarca nelli sonetti: “le faville e il chiaro lampo”; e nella canzone ultima: “e con più chiara lampa”. Chiostro e chiostra: Petrarca nella canzone già detta: “al tuo virginal chiostro”; e nelli sonetti: “Per questa de' bei colli ombrosa chiostra”. Olivo, oliva: Dante: “E come a messaggier che porta olivo”; Petrarca nel sonetto CXCV: “Non lauro o palma, ma tranquilla oliva”. Costume e costuma: del primo non ha mistier essempio; del secondo, Dante nel canto XXIX dell'Inferno: “E Nicolò che la costuma ricca Del garofono prima discoperse”. Calle e calla: del primo, Petrarca nelli sonetti: “quanto è spinoso calle”; Dante: “quanto è duro calle Lo scender e salir per l'altrui scale”; e nel canto IX del Purgatorio: “Disse egli a me: Non s'apre questa calla”. Bisogno, bisogna: Petrarca: “Che io potesse al bisogno prender l'arme”; e altrove: “È bisogno ch'io dica”; Dante nel canto XXIII dell'Inferno: “Mal contava la bisogna”; e canto ultimo del Purgatorio: “Madonna, mia bisogna Voi conoscete”. E questa voce feminile, sempre quasi, usa il Boccaccio, ma della varietà della significatione, si dirà nel seguente libro. Buco, buca: del primo, Dante nel canto XXXII dell'Inferno: “S'io havesse le rime aspre e chiocce, Come si converrebbe al tristo buco”; e in fine del medesimo canto: “Ch'io vidi dui ghiacciati in una buca”. Vela, velo; candela, candelo: delle voci feminili non si dubbia, però solo porrò li essempi de l'altre due. Della prima Dante nel canto II del Purgatorio: “Sì che remo non vuol né altro velo”; nel canto XI del Paradiso: “Firmossi come a candelier candelo”. Cerchio, cerchia: Dante nel canto V dell'Inferno: “Così discesi del cerchio primaio Giù nel secondo”; e altrove: “Da quelle cerchie eterne ci partimmo”. Aiuto, aita: Petrarca nella canzone che incomincia Deh, porgi aiuto all'affannato ingegno, e nel Triumpho II dell'Amor: “E sel non fosse la discreta aita”, e così altrove; e Dante in molti lochi, ha usato l'una e l'altra voce. Prego, preghera: del primo Dante nel canto XXVI dell'Inferno: “E pregoti che 'l prego vaglia mille”; e altrove: “Chi il prego aspetta”; Petrarca nelle canzoni: “Perché porger al ciel cotanti preghi?”; e nel sonetto XXV: “Se la preghera mia non è superba”. Orecchio, orecchia: Dante: “Spesse fiate m'intronan l'orecchi”, e: “Un c'havea ma' ch'un'orecchia sola”. Favilli, Faville: Dante nel canto XX del Paradiso: “Come parea ardente in quei favilli”; di faville è di soverchio addur essempi. Puzza e puzzo: del primo Boccaccio nella seconda giornata, nella novella di Andreuccio ove dice: “E a se medesimo dispiacendo per la puzza che a llui di lui veniva”; e poco più oltre: “Che vuol dir questo? Io sento la maggior puzza che mai mi paresse sentire”. Del secondo nella medesima novella intorno al fine: “Di fame e di puzzo, tra' vermini del morto corpo convenir morire”. Ma a me giova di creder, che 'l Boccaccio lasciasse scritto, in ciascun loco puzzo, non puzza; e così è l'uso della tosca lingua come dimostra Dante in più lochi, doversi dire, e prima nel canto XI dell'Inferno: “E quivi per l'horribile soperchio Del grande puzzo che l'abisso gitta”; e nel XXIX canto dell'Inferno: “e tal puzzo ne usciva Qual suol uscir dalle marcite membre”; e nel canto XIX del Purgatorio: “Quel mi svegliò col puzzo che ne usciva”; e altrove disse: “Che haverle dentro e sostener lo puzzo”; onde Landino nel canto X sopra quel verso: “Che fin là su facea spiacer suo lezzo”, dice “puzzo è che getta una cosa marza e fragida”. Pezzo e pezza dicesi: Boccaccio nella giornata VII nella novella di Arriguccio geloso: “Havendo Roberto un gran pezzo fuggito”; e nella giornata ottava, nella novella del prete da Varlungo: “Se Dio mi salvi che son venuto a star teco un pezzo”; e nella giornata settima, nella novella di Lidia: “È buona pezza ch'io mi deliberai”; e nella giornata VIII nella novella delli due compagni: “Una grandissima pezza sentì tal dolore che parea che morisse”; e nella giornata II nella novella de' tre gioveni fiorentini: “Simile a buona pezza non mi tornerà”. Detto quanto a me par bastevole delli nomi, seguentemente parmi doversi dir delli pronomi che gli rappresentano. La prima dunque loro regola serà, che questi pronomi: egli, ei, questi, quei, quelli, altri, regolarmente si pongono nel caso retto, così del maggior numero come del minore. Delli dui primi, nel minor numero non bisogna trascriver essempi, perché ripiena ne è la Comedia di Dante; ma perché di rado, nel maggior numero si ritrovano, non posporrò di ritrarne alcuno: Dante nel canto X: “Egli han quell'arte, disse, male appresa”; e nel canto IV dell'Inferno: “ei non peccaro”; e poco poi: “Ch'ei sì mi fecer della loro schiera”; e nel canto XII: “Ei son tiranni”. Dissi che regolarmente nel caso retto si ritrovano, perché si trovano ancho negli oblichi: Dante nel canto X sopranotato: “Fat'ei saper che fu perch'io pensava”; e nel canto V: “E per lo amor ch'ei mena”. Degli altri li quali pur hanno voce di maggior numero, che nel minore ancho si ritrovino apparirà nelli sotto notati essempi: Dante nel canto I dell'Inferno: “E come quei che con lena affanata”; e nel canto II: “E qual è quei che disvuol ciò che volle”; e nel canto VIII: “E disser: Va' tu solo, e quei sen vada”; e così in altri lochi. Nel maggior numero trovasi nel canto preallegato: “Per quel amor ch'ei mena, e quei verranno”; e in oblico caso nel canto II: “Che honora te e quei ch'oduto l'hanno”. Essempio dell'altre voci, in uno e altro numero: Dante nel canto primo del Purgatorio: “Questi non vide mai l'ultima sera”; Petrarca nella canzone ultima: “Questi m'ha fatto”; e poi: “Questi in sua prima età”; e Dante nel canto IV: “Questi chi son c'hanno cotanta horranza?”. Questo in retto e oblico si dice ancho, come si legge appresso Dante nel canto XVI dell'Inferno: “Questo l'orme di cui pestar mi vedi”; e nel canto XXX dell'Inferno: “Tu di' ver di questo”; e poi nel canto XXVIII (per essempio di questa voce quelli): “io son Beltram dal Bornio, quelli Che dette al Re Giovanni i mai conforti”. Che altri medesimamente in uno e altro numero, si ritrovi, in retto caso e in oblico infiniti sono gli essempi, come Dante nel canto V dell'Inferno: “Venite a noi parlar, s'altri nol nega”; e nel canto XXI dell'Inferno: “Altri fa remi e altri volge sarte”; e Petrarca nelli sonetti: “Che altri che me non ho di cui mi lagne”; Boccaccio nel capitolo II della prima giornata: “Altri in contraria oppenion tirati”; e molti simili. Ma si deve ancho sapere, che quando si pongono in solo numero non se li aggiunge mai sustantivo, ma nel multiplicato altrimenti; onde non si dirà questi homoquei libroaltri modo, ma ben questi homeni, quei libri e altri modi e per altri porti: Dante nel canto III dell'Inferno: “Per altre vie, per altri porti”.

La seconda regola esser diremo che questi pronomi lui, lei, loro, cui, altrui, come persone agenti non si propongono a verbi operatione significanti, onde non si dirà lei mi vide, lui mi disse, ma ella mi vide, egli mi disse. E Antonio Bontempo nella interpetratione del sonetto XXIV del Petrarca incomincia Poco era ad appressarsi agli occhi miei, nel terzo verso, che dice: “Che, come vide lei cangiar Tesaglia”, non bene ivi dichiara quel pronome in caso retto, dicendo: “lei, cioè quella luce, vide cangiar, cioè arder Thesaglia”, intendendo della luce del sole, il perché il Philelpho lo chiama sciocco, interpretando egli poi più scioccamente: “lei, cioè la luna”, sognandosi non so che di un sdegno di madonna Laura torbidando ognhor più il chiarissimo, et elegante sonetto del poeta, il quale apertamente dice se poco più a llui si appressava la luce degli occhi di Laura, si serebbe trasformato in lauro, così come Thesaglia vide cangiar lei, cioè il lauro, alludendo alla trasformatione di Daphne. E perché nella canzone IV dice essersi trasfigurato in lauro, al fin della seconda stanza ove disse: “Facendomi d'huom vivo un lauro verde Che per fredda stagion foglia non perde”, acciò che dir non si potesse, che per le seguenti transfigurationi quella del lauro fosse mutata, dice nel fin della canzone: “Né per nuova figura il primo alloro Seppi lassar”, però soggionge che se non si potesse trasformar in lauro più ch'egli si sia, sarebbesi tramutato in alcuna delle pietre che nomina. E così lo intendimento è piano, e quel pronome lei è oblico caso, come è ancho nel sonetto CLIII che incomincia Questa fenice da l'aurata piuma, ove dice in fine: “Fama ne l'odorato e ricco grembo D'arabi monti lei ripone e cela, Che per lo nostro mar sì altera vola”, ove il Philelpho sognandosi all'usato, in queste interpetrationi, pensa lei esser caso retto, dicendo, che 'l poeta dir voglia, lei esser volata al cielo, riservata la sua pudicitia, nel suo grembo, non essendo il vero senso che, come persona agente, Laura celi, ma che la fama, celi lei cioè nasconda questa fenice nel grembo de li arabi monti; e sarà il sentimento tale, che come che per fama cioè per voce di ognuno si dica la fenice esser in Arabia, nel vero, non dimeno, è volata alle parti nostre, comparando alla fenice madonna Laura. Medesimamente questo pronome non è posto da Dante in caso retto, nel canto XXI del Purgatorio, ove si legge: “Ma perché lei che dì e notte fila Non havea tratta a fine”, ove la vera lettura è: “Ma per colei che dì e notte fila Non gli era tratta a fine la conocchia”. E così ho veduto scritto con penna, in uno antico libro di Dante mostratomi dallo eccellentissimo iureconsulto, e non meno elegantissimo e giuditioso orator e poeta messer Cornelio Castalio. E così parmi quadrar bene il senso, senza violenza della grammatica. Dissi di sopra tali pronomi non si preporre come persona operante a verbo, in però che, io gli trovo posposti in caso retto al verbo, in parlar (massimamente) reciproco, come si pone dal Petrarca nel sonetto XCIV ove dice: “e ciò che non è lei Già per antica usanza odia e disprezza”; e da Dante nelli suoi Conviti, nella canzon che incomincia Le dolci rime d'amor ch'io solia, ove nella terza stanza dice: “Poi chi pinge figura, Chi non pò esser lei non la pò porre”; il Boccaccio, nella giornata quinta nella novella di Pietro Boccamazza, appresso il principio disse: “Non essendosi tosto come lei de' fanti che venivano aveduto”; e nella prima giornata nella novella d'un monaco, alla fine: “Perché della sua colpa se stesso rimorso, si vergognò di fare al monaco quello che egli, sì come lui, havea meritato”; e nella seconda giornata, nella novella di Andreuccio, intorno alla fine: “Costoro che da l'altra parte erano sì come lui, maliciosi”; e nella giornata terza, nella novella di Tebaldo: “Maravigliossi forte Tebaldo che alcuno in tanto il somigliasse che fosse creduto lui”. Ma essendo questi essempi molto rari più volte io ho avisato, che veramente la regola sia generale, e che solamente siano sempre oblichi, e quando altrimenti si trovan posti nelli nostri auttori quello procedere per colpa de' scrittori o de' stampatori. E lo essempio allegato del Petrarca forse ne pò far fede, che non parrà sconvenevole, a chi con occhio giuditioso mira, che legger così si debbia: “E quel che non è in lei già per antica usanza odia e disprezza”, seguendo quel leggiadro dantesco sentimento, nella canzone che incomincia Amor che nella mente mi ragiona, ove dice: “Gentil è in donna quanto in lei si trova E tanto è bello quanto lei somiglia”. E dove nella predetta canzone dice: “Chi non pò esser lei”, dir si potrà che dopo quello infinito essere, mise lo accusativo, e non nominativo caso, come nella novella di Tebaldo detta di sopra, nella quale benché si legga in alcuni testi, sì come io ho addutto lo essempio, io non dimeno ho così letto in uno testo antico: “che fusse creduto esser lui”, e non “che fusse creduto lui”. E così è posto il pronome nel quarto caso, come nella medesima novella, poco più oltre, ove si legge: “conoscendolo esser lui”. Agli essempi del monaco, di Pietro Boccamazza, e di Andriuccio a me parrebbe poter dire, (rispondendo) senza biasmo, gli testi esser corrotti; e giovami di credere che sì come nella novella già detta di Andriuccio si legge più presso al fine: “Chi allhora veduti gli havesse male agevolmente haverebbe conosciuto chi più si fusse morto o l'arcivescovo o egli”, così disopra il Boccaccio lassasse inscritto: “Erano sì come egli malitiosi”, e non lui; e questa è la diritta grammaticale lettura, come ancho nella novella di Tophano, nella giornata settima si vede in ciò la osservantia dello auttore ove dice: “Se io fosse nella via come è egli, et egli fosse in casa come son io, in fe' di Dio ch'io dubito che voi non credesse che egli dicesse il vero. Ben potete a questo conoscere il senno suo. Egli dice appunto che io ho fatto ciò che io credo che habbia fatto egli. Esso mi credette spaventare col gettare non so che nel pozzo; ma hor volesse Iddio che egli vi si fusse gittato da dovero e affogatosi, che il vino il quale egli di soverchio ha bevuto si fusse molto ben inaquato”. Dove mi aviso che se in alcuno di questi lochi lui si havesse potuto dire senza errore, il Boccaccio per schifare la multiplice, e conculcata replicatione di medesime voci, che alla oratione l'ornamento diminuisce, detto l'haverebbe. E tali modi nelle opere sue, infiniti si leggono, ma della trascrittione di quello essempio solo voglio esser stato contento, non posponendo però di dire che dove nella novella di Pietro di Venziuolo, nella giornata quinta si legge: “che egli erano dell'altre savie com'ella fusse”, se lei vi havesse senza error di grammatica potuto haver loco, penso che detto haverebbe: “così savie come lei”. Onde la corretta lettura, nello essempio della novella del Boccamazza sarà: “sì tosto come ella de' fanti non s'havea aveduto”, e non come lei; e del monaco si leggerà: “che egli sì come esso havea meritato”, e non come lui; e nella novella di Masetto da Lampolecchio, nella giornata terza, ove si legge: “Elle non sanno delle sette volte le sei che elle si vogliano loro stesse”, in uno antico libro, non gli ho veduta iscritta quella parola loro, il che assai più a me piace, perché oltre che gli serebbe posta, contra la grammaticale norma, non ritrovandosi in alcuna parte degli auttori nostri, se non in caso oblico vi sarebbe di soverchio, perché un solo pronome vi basta come Dante nel canto IX dell'Inferno: “Così disse il maestro; et egli stessi Mi volse”; e nel canto XII: “E fe' di sé la vendetta egli stesso”, dove egli esso stesso bene non vi starebbe, e peggio egli lui stesso, tutto che alcun verbo vi fosse interposto che tanto è dire, che elle si vogliono loro stesse. Onde secondo la oppenione di colui che scrisse quel libro (chi che si fusse) e il giuditio mio (qual che si sia) leggeremo quello che elle si vogliano istesse, e così la grammatica non sarà violata, e il sentimento pur rimarrà intiero, et è il chiaro costrutto: non sano quel che si vogliano elle stesse; riportandomi però sempre all'originale libbro, di mano dello auttore, o vero ad essempio alcuno, che d'indi rittratto fusse, perché tanta varietà ritrovo, in quelli che mi sono venuti letti, che tutto che di antiquissimi ve ne siano stati maleagevolmente si pò discernere come lasciasse il suo facitor iscritto, se falce di giuditio non vi s'interpone. Il che se non havesse fatto il dottissimo Hermolao Barbaro, nelli pliniani volumi, Plinio, a mani nostre (come esser deve corretto) non sarebbe anchora forse pervenuto. Ma ritornando all'instituto nostro grammaticale dico, che contra la regola data per me, si potrebbe forse adducere in questo pronome altrui uno essempio del Petrarca nel sonetto LXIV ne l'ultimo verso, ove dice: “Che d'altrui colpa, altrui biasmo s'acquista”, facendo il secondo altrui nominativo, e biasmo accusativo, e acquista verbo attivo. Ma forse, con risservamento della grammatica, della quale esso Petrarca ne è stato diligentissimo osservatore, e con chiara inteligentia del sentimento suo, si potrà dire, che ambo quelle voci altrui siano nel caso genitivo, biasmo nominativo, e acquista verbo impersonale; e il senso latino sarebbe: ex alterius culpa alterius acquiritur calumnia, per la colpa di altrui acquistasi ancho il biasmo di altrui cioè di quel colpevole. Ma posto che confessar bisognasse che questo e gli altri pochi pronomi negli essempi per me sopratoccati, fussero posti nel caso primo, anchora sarei oso di dire la general mia regola non meritar riprensione, perché come ensegna Quintiliano, e gli altri maestri, della romana grammatica, et eloquentia, lo uso, e non lo abuso degli auttori dovemo seguitare, cioè che non quello che una volta o poche più, ma a quello che frequentemente usino nel dire, si deve haver riguardo. Ma di ciò, e di quanto ho detto, e son per dire, al giuditio vostro mi soppono, sinceri e candidissimi lettori. Questo ultimo pronome cui a me non sovene haverlo mai letto in parte, che caso retto giudicare da alcuno si potesse; e non si pò porre in loco di lui questa consimile voce chi, perché hanno tra sé nottabile differentia, che è cotale: cui, oltre che in casi oblichi si ponga sempre, e referisca l'uno e altro numero, e sesso, un caso solo sempre rappresenta, come Dante nel canto II dell'Inferno: “O donna di virtù, sola per cui”; e Petrarca nella canzone della Italia: “Voi cui fortuna ha posto in mano il freno”; e nel Triumpho della Divinità: “E doler mi vorrei, né so di cui”; e altrove disse: “Che altri che me non ho di cui mi lagne”; Dante nel canto primo dell'Inferno: “O felice colui cui ivi elegge!”, ove è caso non retto né persona agente, ma si sopra entende lo imperator che ivi regge. Quest'altra voce chi o vero che si pone per modo interrogativo in loco di quis latino, e ponesi sempre nel caso retto come Petrarca: “Chi el crederà, perché giurando il dica?”; e Dante: “Chi è colui che 'l nostro monte cerchia?”; “Questi chi sono”; e così negli altri lochi. O vero si pone relativamente, e quantunque si ponga in caso oblico, sempre have dentro il caso retto inchiuso, e dui casi rappresenta sempre, come nelli sottonotati essempi apparirà: Petrarca, nel sonetto VII: “Che per cosa mirabile si addita Chi vol far d'Helicona nascer fiume”, ove chi si rissolve in quello il quale; e nelle canzoni: “Più si disdice a chi più pregio brama”, cioè colui il quale; e nel sonetto CCLXVII: “Non per la forza, ma di chi le spiega”, cioè di colui il quale. E che referisca ancho il feminil sesso, Petrarca nella canzone IV in persona di Laura: “I' non son forsi chi tu credi”, lo dimostra. E così in infiniti altri lochi in niuno delli quali potrebbe esser posto cui dirittamente, come ancho chi non havrebbe loco in alcuno di quelli o simili essempi prima posti di cui. Onde ritrovandosi altrimenti scritto io giudico che sia error di stampa, o vero abuso, come nella canzone XVIII del Petrarca: “Dieder a chi più fur nel mondo amici”; e nelli sonetti: “Meco pensando: A chi fu questo intorno?”; in l'uno e altro loco de' quali, cui lassò il Petrarca di sua mano (forse) scritto, e così altrove, dove tal maniera di dire si trovasse nel suo volume, ma come io ho predetto, de l'uso frequentato si fan norme. Quindi si compone chiunque di medesima significatione che è questa voce latina quicumque e dinota ciascuno che e giungese con lo indicativo, come il suo semplice ancho fa, e da Petrarca sempre è posto in caso retto, come nella canzone V: “Chiunque alberga tra Garona e il monte”; e nel sonetto XXIII: “e così vada Chiunque amor legitimo scompagna”; Dante nel canto III del Purgatorio: “chiunque Tu se'”. E quando si aggiunge a verbo di modo soggiontivo, significa semplicemente ciascuno, e ivi si aggiunge altro relativo espresso, come Petrarca nel sonetto CCLXVIII ove dice: “e proval ben chiunque Infin a qui che d'amor parli o scriva”, cioè il quale. Nelle prose del Boccaccio si trova in caso oblico in molti lochi; perché il derivato, segue la natura, ond'ei deriva, li essempi non trascrivo. E devesi notare, che questa dittione qualunque, significa quel medesimo, ma con diferentia si pongono da non esser negletta, perché chiunque, non si aggiunge mai con nome sostantivo, e dir non potrassi, chiunque animale, ma sì bene qualunque, come Petrarca nella sestina prima: “A qualunque animale alberga in terra”; e Dante: “Qualunque cibo per qualunque luna”, tutto che in molti lochi si legga senza sostantivo, sì come chiunque: Dante nel canto III: “Batte col remo qualunque si adaggia”; e nel canto XIV del Purgatorio: “Anciderammi qualunque mi apprende”; e Dante nel canto XI dell'Inferno: “Qualunque priva sé del vostro mondo”; e Petrarca nel sonetto CCLVI ponendo tal voce in caso oblico senza retto incluso: “Togliendo anzi per lei sempre trar guai Che cantar per qualunque”; Dante nel canto ultimo del Purgatorio: “Qualunque quella ruba o quella schianta”; “Sappia qualunque il mio nome domanda”; e altrove. Questa particola che talhor si pone in loco di pronome relativo, e rappresenta ambi li numeri e sessi, e ponesi ancho in oblico caso: Petrarca nel sonetto Quel ch'in Thesalia hebbe le man sì pronte, e nel sonetto La donna che 'l mio cor nel viso porta, e nel sonetto primo Voi ch'ascoltate, e altrove: “Le piaghe che fino al cor mi vanno”; Dante nel canto V dell'Inferno: “Per tor il biasmo in che era condotta”. E quindi si compone cheunque, che quello dinota che quicquid latino, e nella volgar lingua dicesi che che: Petrarca nel Triumpho del Tempo: “Ma cheunque si parli il volgo o scriva”. E non solo questo relativo che nel retto si aggiunge all'indicativo, ma anchora a soggiontivo modo come fa quando è adverbio: Petrarca nel sonetto XXX: “Né nebbia che 'l ciel copra o 'l mondo bagni”; e nel sonetto CXXVII: “Ch'altro lume non è ch'infiammi o guide”; e nel sonetto CXXXVIII: “L'altro è d'un marmo che si mova o spiri”. Né quivi tacerò, che questa particola quale non si trova in loco di relativo il quale come molti pongono, ma ben have talhora quello inchiuso come nella canzone della Italia: “Qual più gente possede, Colui è più da' suoi nimici avolto”, cioè quello il quale ha più gente; talhora vi si pospone il relativo espresso, come Dante nel canto XII dell'Inferno: “Qual che per violentia in altrui noccia”; e alcune volte qualità, e alcune sostantia significa: Petrarca nella canzone IV: “Qual mi fec'io, quando primer m'accorsi”; e nella canzone III: “Qual torna a casa e qual si annida in selva”; e con interogatione si usa come il Petrarca: “Qual mio destin, qual forza, qual inganno Mi riconduce disarmato in campo?”; e qual sei tu? per quello che si dice domandando, chi sei tu? usa frequentemente il Boccaccio. E per comparatione si pone, e vol per rispondente tale, o ver cotale: Dante, nel canto II dell'Inferno: “Quale è colui che disvuol ciò che vuolle, tal mi feci io”; e nel canto V: “Quali columbe dal disio portate”; e poi soggionge: “Cotali uscir della schiera ove è Dido”. Talhora si pone con la significatione di qualunque: Petrarca: “Qual donna attende a gloriosa fama, Colei miri”; e nella canzone XXX: “Qual più diversa e nova Cosa si trova in qualche stranio clima”; e così in più altri luoghi.

La terza regola sarà che questi pronomi colui, costei, costoro, coloro, esto, esso, ello con le lor feminili voci, si pongono in tutti li casi. Degli retti non vi è dubbio, e massimamente nelli tre ultimi li quali generalmente nel primo caso si trovano, come in molti simili alli pochi seguenti essempi si legge: Petrarca nel sonetto che incomincia Quest'anima gentil che si diparte nel quinto verso: “Se ella riman fra 'l terzo lume e Marte”; e nel verso XI: “Et essa sola havrà la fama e il grido”; e nel seguente verso: “Nel quinto giro non habitrebbe ella”; e nel Triumpho della Divinità: “Quando ciò fia nol so, sassel propri essa”; Dante nel canto XVIII dell'Inferno: “Ello passò per l'isola di Lenno”; e nel canto primo dell'Inferno: “Esta selva selvaggia”; e nel canto VI: “esti tormenti Cresceranno ei?”. E nel primo caso sempre li usa il Boccaccio e però non pongo suoi essempi; ma non mi par di posporre li essempi nelli quali siano in casi oblichi: Petrarca nella canzone XXXIII: “Di girmene con ella in sul carro di Helia”; e nel sonetto CCLII: “Ove son le bellezze accolte in ella”; e nel sonetto CCLV: “L'human legnaggio, che senza ella è quasi”; e nel primo Triumpho dell'Amore: “e sarai d'elli”; né in altri lochi trovo il Petrarca haverlo usato, il che mi aviso procedesse per lo accomodarsi di rime, e nella canzone penultima: “E le mie d'esto ingrato”. Ma nella Comedia di Dante più alquanto licentioso, in più lochi si ritrova, e ancho in mezzo verso come nel canto IX dell'Inferno: “Ch'io stessi fermo e inchinassi ad esso”, dove il Landino nel suo commento molto sconvenevolmente interpreta adesso per adverbio di tempo dicendo: “adesso cioè al presente e senza indugio”, essendo senza alcun dubbio pronome, oltre che la elegante volgar lingua, in loco di testé o ver hora o ver mo non usa adesso, né mi sovene haverlo letto in loco alcuno degli auttori nostri; ma sono due dittioni, prepositione e pronome, e scriver si deveno distinte come nel canto VIII del Purgatorio: “Tra le grand'ombre e parleremo ad esse”; e nel canto XXI dell'Inferno: “I' vedea lei, ma non vedea in essa”; e nel canto V: “qual loco è da essa”; e nel canto XIV del Purgatorio: “Giamai rimanga d'essi testimonio”; e nel canto primo dell'Inferno: “Se voi campar d'esto loco selvaggio”; e nel canto II dell'Inferno: “Né fiamma d'esto incendio non mi assale”; e nel canto III dell'Inferno: “Che alcuna gloria i rei havrebber d'elli”; e nel canto XXVII del Purgatorio: “Seder ti poi e poi andar tra elli”; e nel canto III dell'Inferno: “Voci alte e fioche e suon di man con elle”; e così in molti altri lochi che non trascrivo.

La quarta regola serà che questi pronomi oblichi me, te, , convertono e in i quando si congiongon al verbo immediatamente, come dissemi, fecemi, consumati; overo quando l overo r precede i che ad uno e altro modo si dice, come ferirmi e ferirme, farmi farme, calmi calme, valmi valme, e quando separatamente si pronuntia dal verbo: Dante nel canto primo del Purgatorio: “E purgan sé sotto la tua bailia”; e inanzi: “Dove l'humano spirito si purga”; e quando è gionta con gerondio. Ma quando tra alcuno di questi pronomi, e il verbo se interpone dittione alcuna, la terminatione in e sempre si usa, come Dante: “Consuma dentro te con la tua rabbia”; e nel canto II: “Me degno a ciò né io né altri crede”. Medesimamente, quando prepositione precede o segue, come di me, di te, di sé, non de mi, de ti, de si, come è il comune abuso delli Italici; e meco, teco, seco, e li soggiontivi che in e e in i finir possono, come tu m'infiammi o tu m'infiamme. Né parmi di tacere che in loco di questo plural pronome noi si pone, senza diferentia questa particola ci, overo ne, come dimostra Dante nel canto VIII dell'Inferno dicendo: “Non ci pò tor alcun: da tal ne è dato”; e nel canto IV: “Andiam, ché la via lunga ne sospinge”; e nel canto V: “Cotai parole da lor ci fur sporte”; e nel canto VI: “Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo”, ove per error di stampa si scorse si legge nelle stampe di lettera corsiva, come poco più di sotto abbiando per abbaiando; e nel canto XI: “Ci raccostammo dietro ad un coperchio”; e nel canto XV: “Degli altri fia laudabile tacerci”; e così in infiniti altri lochi. Pongonsi non dimeno per particole repletive, senza che rappresentino altra voce, come Dante nel canto XXX dell'Inferno: “E più d'un mezzo di traverso non ci ha”; e nel canto primo del Purgatorio: “Come tu di', non ci ha mistier lusinga”; e così molti altri simili, e nelle prose del Boccaccio tal modo è frequente: “Che ci faciamo noi qui? Parmi che noi se ne andiamo”, e questo, secondo l'uso della tosca lingua. In loco veramente di voi si pone vi, come dissevi fecivi, vi dissi vi feci, né bisognano a ciò essempi. E in terza persona singular dissiti o ti dissi, dissili o li dissi, parlando di voce maschile; perché parlando di feminile dirassi le dissi, e non li dissi come Petrarca nella canzone IV parlando della memoria disse: “E un pensier che solo angoscia dalle”; e nel sonetto CLXXVII: “Basciale il piede, o la man bella e bianca; Dille, il basciar sie in vece di parole”; e così in più lochi; e Dante parlando di Beatrice: “Dille, dille Che ti diseti con le dolci stille”; e questo sempre osserva il Boccaccio e se altrimenti si legge, come in alcun loco, in ogni stampa si trova, devesi imputar allo errore del stampatore, come nel canto XXX dell'Inferno parlando di Ecuba si legge in alcuni testi: “Tanto dolor gli fe' la mente torta”, e tal lettura segue il Landino di questa come dell'altre regole della volgar lingua trascurato osservatore, e nelle stampe corsive si legge meno corrottamente, ma non senza errore: “Tanto dolor la fe' la mente torta”, ove le fe' legger si deve. E dove nel canto XIX del Purgatorio parlandosi de' geomanti si legge: “Surge per via che poco le sta bruna”, è manifesto error medesimamente attribuendosi lo pronome di femina a maschio, contrario a quel di sopra, onde leggerassi che poco li sta bruna o poco lor sta bruna. E forse non sconvenevolmente poria dirsi in questo loco li non esser come pronome, ma come adverbio locale, e serà il senso, che cioè in quel loco in oriente, la via onde surge la lor maggior fortuna sta poco bruna per lo appropinquarsi dell'alba; né veggio io come le si potesse riferire all'alba o vero alla maggior fortuna. Pur in questo io non fermo il piede non essendo professor di geomantia. Medesimo error di stampa non corretto è nella settima giornata, nella novella di Lodovico ove così si legge: “Anichino che di piacergli disiderava”, di donna parlando. E se si dicesse che Petrarca nel sonetto CLIV parlando di Laura disse: “o pur non molesto Gli sia il mio stil”, risponderei che appellandola novo fior d'honestate e leggiadria, hebbe rispetto di concordar il pronome con la voce maschile del fiore a llei imposta, non con il natural sesso di lei.

La quinta regola chiudente li pronomi, sarà degli articoli, li quali, per hora Prisciano in ciò seguendo, tra essi mi ha parso connumerar. E dico che nella volgar lingua sono solamente dui, perché come ho già sopradetto, lo articolo del neutro nome non vi si considera perché vi è solo il suono di voce maschile e feminile. Gli articoli della prima nel minor numero è il o vero lo, e del maggiore gli, li, i, e; della seconda la nel numero del meno, le nel numero del più. Ma gli dui articoli ultimi si giongono regolarmente con adiettivi nomi, più che con sostantivi, e gli altri dui si giongono con gli uni e gli altri, onde dirassi e rei come Dante nel canto III: “Alcuna gloria e rei havrebber d'elli”; e tale articolo è molto usato dal Boccaccio. E dirassi gli huomini, le donne, e buoni, i cattivi, la tua virtude, le tue virtudi. Ma degli articoli del minor numero maschile è da sapere, che non si pongono senza diferentia, perché dove la voce seguente comincia da vocale lo si dice, non il come Petrarca: “Lo ardente nodo ov'io fui d'ora in hora”; “L'oro e le perle e i fior vermigli e bianchi”; e così altrove. E dove la voce che segue ha principio da consonante, il si dice come il mio adversario, il successor di Carlo, il mal mi preme, il cantar nuoce, e rarissime volte altrimenti disse il Petrarca. Ma Dante senza diferentia, molto spesso l'uno e l'altro giunse a consonanti, come nel canto II: “Lo giorno se n'andava”; e nel canto VII: “Mal dar e mal tener lo mondo pulcro Ha tolto loro”; e nel medesimo canto: “Lo buon maestro disse”; e nel canto VIII: “E il buon maestro disse: Homai figliuolo”, havendo poco innanzi detto: “Lo duca mio discese nella barca”; “Lo collo poi con le braccia m'avinse”; e così in infiniti lochi delli seguenti canti, che troppo a me sarebbe il trascriver tedioso, e altrui il legger. Né mi pare in questo loco tacere che dove nel caso retto del primo numero si dice il, non si potrebbe el regolatamente dirsi, parimente ove negli oblichi si pone del non vi si porrebbe dil essere posto. Né parmi essere indegno di notitia questo: che quando alcuno degli articoli già detti si aggiungono al verbo, tutto che habbiano la voce loro, la significatione è di pronome, onde quando si dice digli o gli disse, il sentimento è di' a lui, così le di' ch'io sarò là tosto ch'io possa, cioè di' a llei. Questo istesso, in questa altra particola li si osserva come li dirai, cioè a llui dirai. Segue il trattato degli verbi dei quali, come delle due parti già dette regolarmente ragionando, così dicemo, che

La prima regola sia, che nella volgar lingua solo due congiugationi delli verbi si possono (per mio giuditio) considerare. La prima è quando la terza persona del primo numero del modo indicativo, e presente tempo finisce in questa vocale a come per cagion di essempio: quello ama, quello insegna, e altri simili. La seconda congiugatione èe, quando delli verbi, la terza persona predetta, questa altra vocale e have per finimento, come quelli lege, questo scrive. E così tutti gli altri verbi (se dirittamente si declinano) a queste due sole terminationi si trovano ridutti, di ciascuna delle quali, parmi bisognevole declinar un verbo per li tempi, e modi che siano necessarij alla cognition della volgar lingua, poi declinare li dui verbi nelli quali si risolvono molti loro tempi, cioè sono e haggio, e quelli declinati, di ogni notabile desinentia soggionger li essempi.

Io amo, tu ami, quello ama, noi amiamo o vero amemo, voi amate, quelli amano; io amava, tu amavi, quello amava, noi amavamo, voi amavate, quelli amavano; io amai, tu amasti, quello amoe, noi amassimo, voi amaste, quelli amarono; io amerò, tu amerai, quello amerà, noi ameremo, voi amerete, quelli ameranno. Le voci dello modo imperativo non porrò perché tutte sono nello indicativo; la diferentia è nella pronuntiatione: quelle con dimostrativo, e humile, queste con imperioso e altero modo si dicono. Medesimamente perché le voci del modo desiderativo si trovano nel soggiontivo, quelle lassando, a queste che sono necessarie valicarò: che io, che tu, che quello ame overo ami, che noi amiamo, che voi amiate, che quelli ameno; io amerei, o ver s'io amassi, tu ameressi o ameresti, over se tu amassi, quello amerebbe o vero ameria o ver se egli amasse. Amare dicesi ne l'infinito modo. Di questo verbo e altri tali pospono li altri tempi e modi, perché risolvendosi in altro verbo, e participio, non vengono nella volgar inflessione in consideratione alcuna, perché sono per rilevar solo il latino: il che non è per hora mia impresa, ma solo trattar delle volgari voci le quali hanno in sé il finimento di quel verbo. Pur come ho predetto non mi rimarrò di declinare li dui verbi nelli quali gran parte degli altri tutti si risolvono, declinato prima però, il verbo della seconda congiugatione come che li dui seguenti ancho ne siano.

Io scrivo, tu scrivi, quello scrive, noi scrivemo overo scriviamo, voi scrivete, quelli scrivono; io scriveva, tu scrivevi, quello scriveva, noi scrivevamo, voi scrivavate, quelli scrivevano; io scrissi, tu scrivesti, colui scrisse, noi scrivessimo, voi scriveste, coloro scrissero overo scrissono; io scriverò, tu scriverai, questi scriverà, noi scriveremo, voi scriverete, que' scriveranno; che io scriva, che tu scrive, scrivi e scriva, che quello scriva, che noi scriviamo, che voi scriviate, che quelli scrivano; io scriverei o ver s'io scrivessi, tu scriveressi over scriveresti e se tu scrivessi, quello scriveria o scriverebbe e se ei scrivesse o ver scrivessi, noi scrivessimo o scriveressimo, voi scrivereste, quegli scriveriano. Nel modo infinito scrivere si dice. Degl'infiniti parleremo dopo la declinatione delli dui seguenti verbi, delli quali sì per la resolutione in loro degli altri verbi, sì etiandio perché sono alquanto anomali, sarà la inflessione loro agli imparanti non inutile. Della trasmutatione delle vocali nelli verbi, si dirà altrove. Io haggio o vero io ho e ancho io habbo, tu hai, quello have overo ha, noi havemo overo habbiamo, voi havete, quegli hanno; io haveva e per sincopa havea, tu havevi, quello haveva, noi havevamo, voi havevate, quegli haveano; io hebbi overo hei: Dante nel canto primo dell'Inferno: “Poi c'hei possato un poco il corpo lasso”; tu havesti, quello hebbe, noi havessimo o ver per sincopa havemmo, voi haveste, quelli hebbero overo hebbono; io havrò, tu havrai, quello haverà, noi haveremo, voi harrete per sincopa o vero haverete, quelli haveranno. Nel modo soggiontivo: che io haggia o vero habbia, che tu haggi, habbi, habbie e habbia, che quello habbia overo haggia e per sincopa haia, che noi habbiamo overo haggiamo, voi habbiate overo haggiate, quelli habbino overo haggiano; io haverei o s'io havessi, tu havessi, quello haveria overo haverebbe over se havesse, noi haveressimo e per sincopa harremmo over se havessi, voi havreste over se haveste, quelli havriano, havrebber over se havessono. Gli altri tempi si risolvono in questo stesso verbo, però mi pare di soverchio porli. Che ne l'infinito si dica havere niuno è che non sappia; ma haver si scrive e dice, rimovendo quella vocale. Haver si dice ancho quando è nome, e significa l'altrui ricchezza, qual che si sia: Dante nel canto XI dell'Inferno: “e nel suo havere Ruine, incendi né tollette dannose”. E così in molti lochi del Boccaccio. Io sono, tu sei, quello è overo è, noi semo over siamo, voi siete, quelli sono overo enno; io era, tu eri, quello era, noi eravamo, voi eravate, quelli erano; io fui, tu fosti, quel fue, noi fossimo, voi foste, quelli forono overo foro; io sarò, tu sarai, quello sarà o vero fia, noi saremo, voi sarete, quelli saranno; ch'io sia, tu sii, sie e sia, che quello sia, noi siamo, voi siate, quelli siano; ch'io fossi e fosse e sarei, tu fossi e saressi, colui fosse e saria o fora o sarebbe, noi fossimo e saressimo, voi foste e sareste, quelli fossono e sariano o sarebbono. Altri tempi non fa mistier di porre, perché sì come il precedente prossimo verbo, questo si risolve in alcuna delle già dette voci. Che l'infinito di questo verbo sia essere è manifesto. Hor cominciando dalli notandi del verbo della prima congiugatione, amiamo, voce del soggiontivo, nello indicativo si trova, e in più frequente uso come Dante: “Andiam, ché la via lunga ne sospinge”. E vene da questo singular ando, andi, anda: Dante nel medesimo canto: “Hor vo' che sapi, avanti che più andi”. E regolatamente, le prime persone del maggior numero dello indicativo si formano, dalle terze singular persone mutando a in e e giungendovi mo, come cantemo, parlemo, amemo; ma la voce predetta in ambe le congiugationi più sovente in vece dell'altra si pone, e mostralo Dante nel canto XXV del Purgatorio dicendo: “Quindi parliamo, quindi ridiam noi; Quindi facciam le lagrime e i sospiri”; e nel canto X dell'Inferno: “Noi veggiam, come quei c'ha mala luce”; Petrarca: “Noi habbiam sempre”; e così in moltissimi lochi. Questo ultimo verbo per me declinato, e alcun altro, in l'una e l'altra voce si trova, come Dante nel canto VI dell'Inferno: “Noi siamo al terzo cerchio della piova”; e così in infiniti lochi; ma nel quarto canto: “Semo perduti, e sol di tanto offesi Che senza speme vivemo in disio”; e nel canto XVII: “E poi che nui a lei venuti semo”; e nel canto XVII del Purgatorio: “qual offensione Si purga qui nel giro dove semo?”; e così in più lochi. Sono alcuni che in sua favella, la prima persona de l'imperfetto tempo dello indicativo di tutti li verbi finiscono in o, come andavo, cantavo, amavo, parlavo, vedevo, dicevo, leggevo, scrivevo, havevo, i'ero; ma questo non trovo io osservato da alcuno de' buoni scrittori, dalle cui orme a me partir non lece. La terza persona plural del preterito perfetto tempo dello indicativo, delli verbi della prima congiugatione si forma dalla persona terza singular di quel medesimo modo, giungendoli queste due sillabe -rono, come è quello ama quelli amarono, quello incomincia quelli incominciarono; e così gli altri simili tutti: Dante nel canto XIII dell'Inferno: “Quei citadin che poi la rifondarno”; e nel canto XI del Paradiso: “dui anni portarno”. Ma appresso li poeti si trova rimossa, sempre quasi, l'ultima sillaba, come il medesimo Dante nel canto XXVIII del Purgatorio: “Quelli che anticamente poetaro Forsi in Parnaso esto loco sognaro”; e nel canto XXXI del Purgatorio: “formaro”, “mostraro”; e nel canto XII del Paradiso: “ad una militaro”; e Petrarca nel sonetto III: “Era il giorno che al sol si scoloraro”, ponendo per rime concordanti legaro, e incominciaro; e così in tutti gli altri lochi delli dui poeti; e medesimamente nelle prose del Boccaccio recarono, cenarono, e altri infiniti simili sono, onde nella novella di Ciappelletto, ove si legge: “Cominciorono le genti andare accender lumi”, crederei esser error di stampa, mosso dallo petrarchesco essempio di sopra allegato nel medesimo verbo, e dal Boccaccio istesso che poche righe da poi disse: “E chiamaronlo santo Ciappelletto”, e non disse chiamoronlo. Onde medesima corruttion di testo penso esser di sopra nella novella medesima, ove è scritto: “Niente del rimanente si curorono”; quello istesso dico ove si legge andorono, ritrovorono, salutorono, e altri simili. E a ciò creder, mi move, che in alcun loco delli dui poeti nostri non si trova (per quanto mi sovenga) tal desinentia, e io ho veduto in uno antico libbro delle cento novelle sempre osservata la regola per me data, e per quelli ch'io ho veduto credo che niuno così corrotto testo di esse novelle si ritrovi il quale nel più delli lochi, al modo ch'io dico non si veggia scritto; altrimenti converebbesi dire per regola, che senza diferentia, l'uno e l'altro modo si potesse usare; il che per me non sarei oso di dire, né ancho saprei ritrovar ragione alcuna di eccettione di quelli che diversamente degli altri, sono iscritti in tal maniera, e perché le regole si traggono da' grammatici da quello, che moltissime volte, negli auttori ad un modo trovano posto, non da quello che in alcuno di loro ad un altro, rarissime volte leggono, mi movo a far la seguente cotale regola.

La seconda adunque regola sarà delli verbi, che la prima singular persona del preterito imperfetto tempo del modo soggiontivo, sì della prima come della seconda congiugatione, finisce in -ei, come amerei, leggerei, la seconda persona ha il finimento in -si, come ameressi, leggeressi, la terza in -ia overo in -ebbe è terminata sempre, come quello ameria o amerebbe, leggeria o leggerebbe, e di infiniti essempi, che si potrebbono addure degli infrascritti voglio contentarmi: Dante nel canto XVI dell'Inferno: “i' dicerei Che meglio stess'a te”; poi dice: “Gitato mi sarei a llor disotto”; e poi: “Ma perché mi sarei brusato”; e nel canto XXII: “I' non temerei ungia né uncino”; Petrarca nel sonetto LVIII: “Vedrò mai il dì che pur quanto vorrei”; e nella canzone XXXIII: “E senza il qual morrei”, e “di quel ch'io men vorrei”, “forse il farei”, “né più perder dovrei”, “beato direi”, “a quella che torrei”, “né con altra saprei Viver, e sosterrei”, e così in infiniti lochi, come nel sonetto che incomincia I' canterei d'amor sì novamente, ove molti simili si leggono, né perché il Petrarca nel sonetto CXXXVII dicesse: “Lei pur cercando che fuggir dovria”, e nella preallegata canzone: “Io nol dissi già mai né dir poria”, dir si deve la regola mia essere meno che generale, perché questi stessi si trovano terminar nella prima persona in ei e più sovente assai: Petrarca nel sonetto CLXXI: “S'el non fosse mia stella, io pur dovrei”; e nel sonetto CXIX: “La notte allhor quando posar dovrei”; e nel sonetto XCIV: “Nel dì che volontier chiusi gli havrei”; Dante nel canto XIII dell'Inferno: “Ch'io non potrei, tanto dolor m'accora!”; e così pose questa voce per rima nelle sue canzoni. Nel modo medesimo si legge posto dal Boccaccio come nella giornata ottava nella novella di mastro Simone: “I' non vi potrei mai divisare”; e poco da poi: “né vi potrei dire”. Onde seguiremo in ciò il frequente uso, overo con l'auttorità del poeta, quello che egli usa in questi dui o tre verbi; noi altresì usando, agli altri verbi tal modo di dire non estenderemo. Della seconda persona hormai adducendo ancho alcun essempio: Dante nel canto XXXI del Purgatorio: “Se tu tacessi o tu negassi”; e nel canto primo: “se l'havessi scosso”; Petrarca in fin d'una canzone: “Se tu havessi ornamenti quanti hai voglia”; e così in altri moltissimi lochi. Né si direbbe havesti, tacesti, negasti, se non nel preterito perfetto tempo dello indicativo. A dimostrare che come io dico, la terza persona finisca, pochi essempi trascriverò, perché ripiene ne sono le carte: Dante nel canto ultimo del Purgatorio al fine: “Lo dolce ber che mai non m'havria satio”; e nel canto XXVIII dell'Inferno: “Chi poria mai pur con parole sciolte”; e Petrarca nel sonetto cominciante Vergognando talhor ch'anchor si taccia: “Ma qual suon poria mai salir tanto alto?”; e nella canzone XVII: “Nullo stato aguagliarsi al mio potrebbe”, e “forse altrui farebbe”; e così in molti altri lochi si legge. La terza regola dalli verbi declinati per me tale si pò trarre, che di tutti della prima congiugatione le tre persone di singular numero del soggiontivo modo finiscono in i e in e, e di quelli della seconda, la prima e terza hanno a solo per finimento, la seconda in a, in e e in i si trova terminare; e da esse declinationi si puote ancho elicere: che tutte le seconde persone di qualunque verbo e modo e tempo (in fuori che la predetta seconda persona del soggiontivo) il numero primo in i, il secondo in e hanno finiente, come tu amasti, voi amaste, tu leggi, voi leggete; e così in tutti gli altri tempi, perché in contrario non si trova se non corrottamente scritto, e di soverchio mi parrebbe di ciò, ciascuno essempio. E se alcuno mi dicesse che error di penna né di stampa esser non puote nella rima di Dante nel principio del secondo canto del Paradiso ove dice: “O voi che sete in piccioletta barca, Desiderosi d'ascoltar, seguiti Dietro al mio legno che cantando varca, Tornate a riveder li vostri liti: Non vi mettete in pellago che forse, Perdendo me, rimaresti smariti”, ove appare che le concordanti rime in e non potrebbono terminare, io gli risponderei, che egli fosse nel medesimo errore che fu il Landino, ultimo di Dante interprete, il quale giudicò (ingannandosi evidentemente di molto) che quella voce seguiti fusse verbo essendo nome. Lassiamo perché il verbo altrimenti nella seconda sillaba si scriva, come Petrarca ove dice: “Seguete i pochi, e non la volgar gente”, ma seriano dui immediati contrarij in un soggetto, confortando li auditori Dante a ritornarsi a dietro, e a seguitarlo insieme. E che tal giuditio fosse di esso interprete come ho predetto, chiaro lo dimostrano le sue cotali parole: “O voi che sete in piccioletta barca, cioè con poca dottrina e ingegno, desiderosi d'ascoltar il mio poema, seguite dreto al mio legno, venite dreto al mio stile, e alla mia dottrina”, con dichiaratione, per mia oppenione (quale essa si sia) del tutto al chiaro testo contraria, il cui sentimento è tale, quale è nella scrittura sacra: ”Vos qui secuti estis me”, e sarà il costrutto: O voi che in piccioletta barca sete seguiti 'l mio picciol legno, il qual oltre varca poetando, tornate a' vostri liti; et è lo allegorico senso: voi che havete appresa la poesia e philosophia solamente fino qui mi havete potuto seguitare, cioè la cantica dello Inferno e del Purgatorio, non vi mettete meco a descrivere poeticamente le cose theologice, perché alcuno mai nol fece, però dice l'aqua ch'io prendo già mai si non corse, né per questo è da dirsi che 'l poeta li chiami di poco ingegno né di poca dottrina, perché medesimamente per il diffetto della theologia che era in loro si fenge che Virgilio e Statio abbandonassero esso Dante alla entrata del Paradiso dalle delicie, d'onde poi Beatrice, cioè la theologia lo condusse alla cognition delle celesti cose. Conchiudendo adunque dico il testo così bene esser iscritto, ma non esser verbo. Male iscritti dirò ben esser io, over male stampati quelli testi di Dante nelli quali nel canto XV dell'Inferno si legga: “voi non saresti anchora”, ove sareste è da esser riposto; e nel canto III del Purgatorio: “State contenti, humana gente, al quia; Ché se possuto havesti veder tutto, Non bisognava partorir Maria, E disiar vedesti senza frutto”, ove, overo dir si deve, haveste come altrove disse Dante: “Amate da cui male haveste”, e vedeste overo (e forse non men bene) diremo esser la vera lettura: “Stati contenta humana gente”, cioè rimanti contenta, e altro non convirà mutarsi. Medesimo errore, è nel canto XXVI dell'Inferno intorno al fine, ove Ulisse alli compagni dice: “Fatti non fosti a viver come bruti”, foste è la vera scritura. Questo medesimo errore di stampa è nelle cento novelle del Boccaccio più volte allegate, nella settima giornata nella novella del geloso dal spago, ove la donna parlando a' fratelli dice: “Questo valent'huomo a cui voi nella mia malhora mi desti per moglie”, deste si deve riporre, e così scritto si trova in essempi antichi di esse novelle, perché il Boccaccio come dell'altre regole, così di questa ne fu osservatore diligentissimo. E dir possiamo per conchiussione di questa parte di regola, con l'auttorità delle scritture degli auttori nostri, che chiunque in contrario modo parla, o scrive, non lo fa senza commetter errore. Hor ritornando a dimostrar con essempi che la seconda persona singular del soggiuntivo habbia li finimenti per me detti, Petrarca nella canzone della Italia: “Canzon, i' t'amonisco Che tua ragion cortesemente dica”; Dante, nel canto XXV dell'Inferno: “Quasi dicesse: I' non vo' che più diche”; e Petrarca nel sonetto CLXXIV: “e pria che rendi Suo diritto al mar”, ove questo verbo rendi, non puote esser indicativo, essendoli giunto lo adverbio, il quale sempre il soggiontivo richiede, come nella seguente ultima grammatical parte si mostrerà; Dante nel canto primo dell'Inferno: “penso e discerno Che tu mi segui”; e nel canto VII: “I' vo' che tu per certo credi”; e nel XV: “Da' lor costumi fa che tu ti forbi”; e nel canto XVII: “Fa che tu mi abbracce”; e nel canto XXI: “Acciò che non paia Che tu ci sii”; e nel Triumpho del Tempo Petrarca: “convien che più cura haggi”; e nel sonetto CCLXVIII: “acciò che l'ame e apprezze”; e altrove: “Acciò che 'l mondo la conosca e ami”; e il medesimo si legge in moltissimi lochi, li quali trascriver non mi par bisognevole. Onde travalicando al verbo ho, haggio dice il Petrarca nella canzone: “Assai spatio non haggio Pur a pensar com'io corro alla morte”; e altrove: “e poi ch'i' haggio Di scovrirle il mio mal preso consiglio”; da questo finimento, Guido Cavalcante prese il futuro tempo nella sua canzone VII, che incomincia Tanta paura m'è giunta d'amor, dicendo: “I' non ho posa mai e non haraggio pauroso son sempre e più saraggio”. Habbo solo Dante dice, e solamente due volte, l'una nel canto XV dell'Inferno: “E quanto l'habbo grato in fin ch'io vivo”, e nel canto XXXII: “Più pienamente; ma perché non l'habbo”. Quindi pò germogliare un'altra regola de' verbi, onde,

La quarta loro regola esser diremo, che molti ne sono li quali variano le prime persone dello indicativo, onde nasce ancho il variar de' preteriti, e de' loro participij passivi, tutto che molti ne siano, che con la sola desinentia del presente tempo, gli uni, e gli altri variano. E non pochi verbi anchora si ritrovano, li quali del tutto quasi alli lor preteriti latini si accostano, come di tutte le predette cose apparirà nelli sottonotati essempi, per firmar la fede del lettore non poco necessarij; pur dove poco bisognevoli mi parranno, posporogli per fuggir lunghezza, come nelle prossime persone prime de' verbi. Nutrico e nudrisco, spargo spando, riedo ritorno, volgo e volvo; volto verbo non si trova, ma nome come: “Quando son tutto volto in quella parte”; cheggio, veggio, seggio, si dice, e non chiedo, vedo, siedo, come che si dica poi tu chiedi, quel chiede, tu vedi, quel vede; né altrimenti si trova tra scritti de' buoni auttori. Voglio nel suo preterito tempo volli e volsi a' dicitori conciede; del primo fa fede il Petrarca dicendo: “Misero me che volli”; e Dante nel canto XXX dell'Inferno: “Io hebbi al mondo assai di quel che volli”; e nel canto secondo: “E come quei che disvol ciò che volle”; e così altrove. Del secondo, Dante nel canto II: “E venni a te così com'ella volse”, benché sia più convenevole preterito di questo verbo volgo. Di questo verbo toglio, over tolgo, è il preterito tolsi e tolse: Dante nel medesimo II canto: “Che del bel monte il corto andar ti tolse”. Tolle non preterito, ma presente ritrovo come nello istesso canto: “Sì che dal cominciar tutto si tolle”; Petrarca nel sonetto CLVI: “mentr'io parlo, agli occhi tolle La dolce vista del beato loco”; e nel sonetto CCVI: “E fa qui de' celesti spirti fede Quella ch'a tutto il mondo fama tolle”; e nel Triumpho IV dell'Amore: “Ch'ogni maschio pensier de l'alme tolle”, salvo che alcun dir non volesse, Petrarca haverlo posto nel preterito tempo dicendo: “Veder questi occhi anchor non ti si tolle”; e Dante nel canto VI del Paradiso: “Cesare per voler di Roma il tolle”. Doglio: dolse e dolve: Dante nel più volte allegato di sopra canto II: “La prima volta che di te mi dolve”; Petrarca nella canzone: “Ov'io mi dolsi, altri si dole”. Taccio: tacette e tacque: Dante nel primo canto sopra notato: “Tacette allhora, e poi comincia' io”; Petrarca nel sonetto: “ond'ei si tacque, Vedendo in voi finir vostro disio”. Converrà, convenette: Dante nel canto XXV: “Che nominar l'un l'altro convennette”. Credette e crese; faccio, che nella seconda persona ha facci e fai, come dell'uno che poria esser dubbioso, è testimonio Dante nel canto XIV dell'Inferno dicendo: “Dovea ben solver l'una che tu faci”; e face in terza persona dell'indicativo, come è nel canto primo dell'Inferno: “E vien lo tempo che perder lo face”; e Petrarca: “E mi face obliar me stesso a forza”; nel preterito produce fece e feo: del primo non si dubbia, del secondo Petrarca nelli Triumphi: “La gran vendetta e memorabil feo”; Dante: “Averois che 'l gran commento feo”; e Dante nel canto XVI del Purgatorio: “Soleva Roma, che 'l buon mondo feo”. E molti preteriti sono li quali nella terza persona del singulare regolarmente finiscono in i, e che gli poeti nel fine delle rime vi aggiungono o, come morio, fallio, gio, e simili; e per non passar senza essempi: Petrarca nella canzone XXI: “Phetonte odo che in Po cadde e morio”. Ma nel mezzo delli versi tal finimento non si usa, ma volgarissimamente si usa con grande errore in questa voce morse invece di quella, dicendosi colui morse volendo dire che egli morio, non s'avisando che tal voce è la terza persona del preterito di mordo, come dimostra Dante dicendo: “Poscia che 'l dente longobardo morse”; e nel canto VII del Paradiso non è come alcuni pensano da riferirsi alla morte di Cristo, ma al morso della pena, e così chiaramente lo dicono e versi infrascritti: “La pena, dunque, che lla croce porse, S'a la natura assunta si misura, Nulla già mai sì giustamente morse”; e dichiara nel canto penultimo dell'Inferno tal preterito, dicendo: “Ambo le mani per dolor mi morsi”. Dante nel canto XX dell'Inferno: “Poscia che 'l padre suo di vita uscio. Questa gran tempo pel mondo sen gio”; e molti ne sono de tali essempi. Ma tali finimenti più tosto sono di lingua siciliana che di tosca, onde rinate forono prima le rime, come dice il Petrarca nella sua prima epistola latina, e tal finimento solo sarà della terza persona del preterito perfetto tempo dello indicativo il quale in i finisca perché vi si aggiunge o, e non si deve, né si pò trarlo a plural numero. Variano molti participij, sì come disopra habbiamo detto del variar delli preteriti, e dicesi offeso, offenso: Dante nel canto V dell'Inferno: “Poi ch'io hebbi odite quelle anime offense”; inceso, incenso;acceso, accenso; inteso, intento; perduto, perso: Dante nel canto del Paradiso: “Non così alti ch'i fondi sian persi”; visto, veduto; possuto, potuto; ritegno, rattento: Dante nel canto IX dell'Inferno: “E fier la selva senza alcun rattento”; sparso e sparto: Dante nel canto XIV dell'Inferno: “raunai le frondi sparte”; Petrarca nel primo verso de' suoi sonetti: “Voi che ascoltate in rime sparse il suono”, il qual verso io già in uno antico libbro così vidi scritto: “Voi ch'ascoltate in rime sparso il suono Di quei sospir”, il qual sentimento a me non dispiacque imperò che le rime di tal volume forono raccolte dall'istesso Petrarca, come dimostra nella sua preallegata epistola, onde non sono sparte né tutte sono piene di sospiri, perché in molte, non come sospiroso, ma come lieto parla, e in molte vi è altra materia, che amorosa; e per questo si pò dire il suono dei sospiri esser sparso hor in una hora in altra delle sue raunate rime; ma se questo fosse di mente dello auttore io per me non lo so, perché tal sonetto di sua mano già mai scritto non vidi: ciascun s'appigli a quel che più gli piace. Credette, crese: Dante nel canto XIII dell'Inferno: “Io credo ch'el credette ch'io credesse”; e nel canto XXXII del Purgatorio: “Colpa di quella ch'al serpente crese”. Ma per imponer hoggi mai fine al trattato delli verbi, acciò che la terza persona dello indicativo nel plural numero non rimanga senza essempio: Dante nel canto V dell'Inferno: “Enno dannati i peccator carnali”; e nel canto XVI del Purgatorio: “Ben v'en tre vecchi anchor in cui rampogna L'antica età la nova”; e nel canto XIII del Paradiso: “Non per saper il numero in che enno Li motor di qua su”. Trovasi tal finimento di queste medesime persone terze, nelle terze persone di questi verbi do e faccio, che fo ancho si dice: Dante nel principio del canto VIII dell'Inferno: “e chi son quei che 'l fenno?”; e nel canto XXI in fine: “Per l'argine sinistro volta dienno”; e nel canto IX: “Ma non dimen paura il suo dir dienne”. Ma tali voci per rime si pongono, che regolatamente così finiscano come diedero e feccero, e nelle prose del Boccaccio e di Dante mai non altrimenti sono usate. Fora ha il medesimo significato, che ha sarei over saria persona terza: Petrarca nel sonetto XXXVII: “avenga ch'io non fora D'habitar degno ove voi sola siete”; Dante nel canto VI del Purgatorio: “Sanza esso fora la vergogna meno”; Petrarca: “So ben io che a voler chiuder in versi Suo laudi, fora stanco Chi più degno alla penna la man porse”.

La quinta e ultima breve regola degl'infiniti sarà tale, che si formano regolarmente dalla terza persona singulare dello indicativo giungendosegli questa sillaba -re, e questo così nelli verbi della seconda congiugatione come della prima, come ama amare, legge leggere, scrive scrivere, e così degli altri simili; ma è da notare, che li verbi li quali nel latino sono della quarta congiugatione, nella volgare lingua, lo infinito modo segue la norma latina, havendo il finimento in -ire, come ode odire, e simili, con lo accento nella penultima sillaba, e così gli altri. E non solo questi tali verbi, ma anchora delle altre congiugationi alcuni, escono della general sopratoccata norma, come soffro soffri soffra, che è della congiugation prima, come mostra Petrarca dicendo: “Alma non ti lagnar ma soffra e taci”, e così Dante nelli soi Convivij. Soffrire pur si dice parlando con modo infinito; medesimamente è in questo verbo fallo, il quale è della congiugation prima, come mostra Dante nel canto X del Purgatorio quando dice: “Sì come verme in cui formation falla”; e altrove: “Come colui a cui la robba falla” (della signification sua si dirà, altrove); fallire fa lo infinito: Petrarca: “Amor, io fallo, e veggio il mio fallire”; Dante nel canto XXIX dell'Inferno: “a cui falir non lece”; benché alcuni dicano questo verbo, esser ancho della congiugation seconda volgare, mossi da l'essempio petrarchesco nel sonetto incominciante Se 'l sasso ond'è più chiusa questa valle, ove dice: “che pur un non falle”. Questo verbo dico similmente è della congiugation volgar seconda, come che nel latino sia della terza, e dire pur si dice, avenga che regolatamente posto, dicer si trova ancho: Dante: “non tengo riposto A te mio dir se non per dicer poco”, havendo detto ancho altrove: “S'el non fosse la fiamma i' dicerei”. Nelle parti del regno di Napoli questo ultimo è in uso.

La quarta e ultima parte di questa volgar grammatica è degli adverbij, delli quali alcuni si chiamano locali perché loco significano e di questi parlerò da sezzo; gli altri sono di diverse significationi, come di negar, di affirmar, di tempo, di quantità e qualità e altre molte, le quali connumerar sarebbe invano. Io di quelli solo dirò, c'huopo esser conoscerò alla volgar lingua, e se ancho vi serà alcuna congiontione mischiata sarà per la similitudine che haverà con li adverbij volgari, e perché nelli finimenti delli soggiontivi modi delli verbi disopra dicemmo. Questo adverbio che in loco di ut overo di quod latino posto, sempre alli predetti modi si aggiunge, come oltre li sopranotati essempi, si vedrà nelli sottoscritti: Dante nel canto XXVII dell'Inferno: “E come e quare voglio che m'intenda”; e nel canto XVII del Purgatorio: “hor vo' che tu dell'altro intende”; e nel canto XVIII dell'Inferno: “Fa che tu pinghe”. E così si trova negli altri lochi posto, e quando si risolve lo adverbio latino in questa voce acciò che si pone in medesima guisa, come Dante nel canto II dell'Inferno: “Da questa tema acciò che tu ti solve”; e nel fine del medesimo canto: “Acciò ch'io fugga questo mal e peggio”; e nelli sopra già detti versi del Petrarca: “acciò che 'l mondo la conosca e ami”; “acciò che l'ame e apprezze”. Ma quando questa voce acciò che si mette in loco di quoniam latino, e di perché volgare lo indicativo modo le si richiede, come la pone Dante nel principio del primo capitolo delli suoi Convivij dicendo: “Onde, acciò che la scientia è ultima perfettione della nostra anima, nella qual sta la nostra ultima felicità, tutti naturalmente al suo desiderio siamo sobbietti”. E non molto, d'indi luntano dice: “E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberamente coloro che sanno porgono della lor buona ricchezza alli veri poveri”. La regola del suo semplice ancho ritene prima che: Petrarca: “Prima ch'io torni a voi, lucenti stelle, O torni giù”; e nel sonetto cominciante Rapido fiume: “pria che rendi Tuo dritto al mar”. E quantunque nella latina lingua, quamquam, e quamvis allo indicativo, e soggiontivo modo si aggiongano nondimeno nella volgare, le voci che quelle significano allo soggiontivo solo si giongono, come sono benché, come che, tutto che, avenga che, quantunque, anchor che, però che, perché. Hor divenendo alli essempi: Petrarca nella canzone IV: “Benché 'l mio duro scempio Sia scritto altrove”; e nel sonetto XXXVIII: “Benché di sì bel fior sia indegna l'herba”; il Boccaccio nel principio del suo Decamerone: “E come che a ciascuna persona istia bene”; e così negli altri lochi, ove tal voce li occorre usare che infiniti sono. E al medesimo modo usa tutto che come Dante nel canto VI dell'Inferno: “Tutto che questa gente maladetta In vera perfettion già mai non vada”; e nel canto III del Purgatorio: “Avenga che la subitana fuga Dispergesse color per la campagna”; e nel canto XXVII dell'Inferno: “Sì che, con tutto che fusse di rame”. Il medesimo Dante nondimeno nel canto XXX aggionse questa voce allo indicativo dicendo: “Con tutto che la volge undici miglia, E più d'un mezzo di traverso non ci ha”; e nel canto XV: “Tutto che né sì alti né sì grossi, Qual che si fusse, lo maestro felli”; il Boccaccio nel libbro suo sopra nomato, al principio dice: “quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notitia pervenise, io ne fussi lodato e da molto più reputato”; e poi: “Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita”; e poco più oltre: “E quantunque il mio sostenimento possa esser assai poco”; e così in molti altri lochi. Dante nella Vita nova altrimenti ponendola disse: “Quantunque volte, lasso!, mi rimembra”. Né questa voce in altro significato, mai ho ritrovato usata dal Petrarca né da Dante, ma per el suo primitivo, overo per quella latina voce quantuscumque, per li numeri e generi, e talhor si pone ancho adverbialmente, come si dimostrarà nelli sottonotati essempi di ambi li poeti: Petrarca nella canzone IV: “Da poi quantunque offese a mercé vene”; e nel sonetto CLXXXIII: “Tra quantunque leggiadre donne e belle Venga costei”; e nel sonetto CXX: “Chi vol veder quantunque pò natura”; Dante nel canto V dell'Inferno: “Cingesi con la coda tante volte Quantunque gradi vol che in giù sia messa”; e nel canto XXXII: “Poi mi farai, quantunque vorai, fretta”; e nel canto XXII del Paradiso: “Ché quantunque la Chiesa guarda, tutto È della gente che per Dio dimanda”; e nel canto XXXII: “Che quantunque i' havea visto davante Di tanta ammiration non mi sospese”; e il Boccaccio nel principio dopo lo essordio: “Quantunque volte gratiose e nobili donne meco pensando riguardo”; per li quali sopranotati essempi appare, per il comune uso nella signification prima, tal voce al soggiontivo aggiongersi, e nella seconda allo indicativo, come che col soggiontivo ancho talhora si legga aggiunta. Quandunque voce molto simile, quello ci dinota che a' Latini quandocumque: Dante nel canto IX del Purgatorio: “Quandunque l'una d'este chiave falla”; e nel canto XXVIII del Paradiso: “Quandunque nel suo giro ben si adocchi”. Anchora che per benché solo Dante ritrovo due volte haver posto nella sua Comedia, nel canto VIII dell'Inferno dicendo: “Io ti conosco, anchor sie lordo tutto”; e nel canto VIII del Purgatorio: “Anchor che l'altra, sì andando, acquisti”. Però che in medesima, quasi significatione: Petrarca: “Né però che con atti acerbi e rei Del mio ben pianga, e del mio pianger rida”. Perché pose invece di benché dicendo: “Ché perch'io viva di mill'un non scampa”, e dove nella canzon quarta giunse tal voce allo indicativo quando disse: “Ché perch'io non sapea come né quando Me 'l ritrovasse”: ivi è posta in loco di quoniam latino vocabolo non di quamvis. Queste due voci seguenti allo indicativo e soggiontivo parimente si congiungono fin che e mentre che: Petrarca nel sonetto CLXIII: “In fin ch'io mi disosso, snervo e spolpo”; e altrove: “fin ch'io sia dato in preda A chi tutto diparte!”; Dante nel canto XV dell'Inferno: “E quanto l'habbo grato in fin ch'io vivo”; Petrarca: “Io non fui d'amar voi lassato unquanco, Madonna, né serò mentre ch'io viva”; e altrove: “Occhi mei lassi, mentre ch'io vi giro”; e in altro loco: “Mentre io teneva i bei pensier celati”; e in un'altra canzone: “Mentre il mio primo amor terra ricopre”. Parrà forse ad alcuno ch'io sia stato più del decevole lungo negli essempi, ma perché nelle voci predette, ci ho veduto dubitar et errar molti, più tosto ho voluto peccar in lunghezza che esservi manchevole. Hor degli altri adverbij con più brevità. Dico che questa voce assai da Petrarca sempre è posta in loco di multum overo satis adverbialmente fuor, che nel Triumpho primo dell'Amor: “E dentro assai dolor con breve gioco”; e il medesimo si trova usato da Dante, se nonne nel canto XII dell'Inferno: “E di costor assai riconobbi io”; e nel canto XXIII: “I' udì già dir a Bologna Del diavol viti assai”; e nel canto XXII del Purgatorio: “Costoro, Persio e io e altri assai”; ma posto è poi per adverbio d'ambi li poeti in lochi moltissimi, come Petrarca: “E dissi: Anima, assai ringratiar dei, Che fosti a tanto honor degnata allhora”; e nella canzone Mai non vo' più cantar: “E tra le fronde il vischio. Assai mi doglio”; e nel Triumpho II della Morte: “Ma assai fu bel paese ond'io ti piacque”; Dante nel canto XVIII dell'Inferno: “Assai leggieramente quel salimmo”; e ne l'VIII del Purgatorio: “Gratioso fia lor vederti assai”; il Boccaccio nelle opere sue senza diferentia lo pone ad uno e altro modo, come nel principio della prima giornata delle sue diece, ove dice: “Dalle qual cose e da assai altre”; e poco più oltre: “Ad un fine tiravano assai crudele”. Voglio d'infiniti essempi delli sopratoccati, rimanermi contento; solo dirò, chiunque tra suoi scritti o sermoni interporrà essa voce come adverbio, seguitarà il comune uso di tutti tre gli auttori, e così a me par più convenevole; e come nome adiettivo, per più solinga e meno approvata via, farà il suo camino. Unque dinota quello istesso che nel latino unquam e nel volgar mai: Dante nel canto III del Purgatorio: “Pon mente se di là mi vedest'unque”. Unqua si trova scritto tra versi del Petrarca nella canzone XXXVIII: “in aspettando un giorno Che per nostra salute unqua non vene”, per il qual essempio agevolmente si conosce quanto sia quel comune errore di coloro, che in loco di nunquam pongono mai senza negatione, e quando vogliono dire che per nessun tempo ameranno dicono mai ameremo, come Francesco Philelpho nella canzone tra le sue orationi latine per lui posta la qual incomincia Signor che pur di nulla fatt'ha il tutto, disse intorno alla fine: “Conte Vitalian ch'ogni suo nervo metter per li soi amici mai li spiace”, ma non è maraviglia perché delle regole della volgar lingua hebbe, over poca scienza, o poca cura; però disse poco disopra delli trascritti versi: “Che degno ha giudicato in cui lui sia cortese”, ponendo lui in caso retto, e persona agente. Da questa voce unqua, overo unque si compone unquanco, che significa unqua anco cioè mai anchora, benché si scriva senza aspiratione, e non si aggiunge se non col tempo passato del verbo, come Petrarca: “Verdi panni, sanguigni o scuri o persi Non vestì donna unquanco”, e: “I' non fui d'amar voi lassato unquanco”; né si potrebbe ben dire unquanco non amerò, o in altro simel modo. Unquanche dice Dante nel canto penultimo dell'Inferno: “Ché Branca Doria non morì unquanche”; e questo, perché usa in alcun loco il semplice anche come nel canto ultimo: “Sì che in inferno io credea tornar anche”, e nel canto VII: “Maestro, dissi lui, hor mi di' anche”, e nel canto XXI: “ch'io torno per anche”. Disse nondimeno unquanco nel canto IV del Purgatorio: “Certo, maestro mio, dissi io, unquanco I' non vid'io chiaro”; e il semplice usò in rima, dicendo: “non eran mossi i piè nostri ancho”. Ponesi talhora in loco di questa voce latina etiam come nel canto XV dell'Inferno: “Priscian sen va con quella turba grama E Francesco d'Accorso ancho”, e nel canto VII del Purgatorio: “Ancho al nasuto van le mie parole”; e così in più lochi. Il Boccaccio nelle sue novelle usa questa voce anche, ma io, e nella prosa, e nelli versi occorrendomi, seguirò il Petrarca dicendo ancho come egli disse, nel sopra allegato sonetto I' non fui d'amar voi lassato unquanco, ne l'ottavo verso: “Sia la mia carne che pò star seco ancho”, ponendo tal voce per concordante rima, quasi diversa dalla composita con unqua. Ma di rime nel presente libbro, non intendo di ragionare. La terminatione in o a me più piace, perché ancho è di significato di questa voce anchor, né in altro è diferente, salvo che nel difetto dell'ultima lettera, o dir vogliamo sillaba dicendosi anchora, e perché trovo senza diferentia poste tutt'a tre le dette voci della cui aspiratione, nel libbro della orthographia parleremo; basti per hora tanto haverne detto.

Molti adverbij sono, con voce di nome posti, come dal Petrarca nel sonetto CXXVII: “E come dolce parla e dolce ride”; e nel sonetto CXII: “I' vidi Amor che' begli occhi volgea Soave sì”. Primier in vece di primamente, pone il Petrarca nella canzone IV dicendo: “Qual mi feci io quando primier m'accorsi”, e ponelo così altrove; e che sia nome, dimostralo nel sonetto XXXI quando disse: “E gran tempo è che io presi il primier salto”, e così altrove legger si puote in esso auttore. Fiso adverbialmente si pone, come Petrarca nella canzone XLI ove dice: “E mirandol io fiso, Cangiossi il ciel”; e nella canzone XXIX: “Ma mentre tener fiso Posso al primo pensier l'anima vaga”. E così ritrovasi in molti lochi nella Comedia di Dante, e in non minor numero posto per nome si trova nelli scritti dell'uno e dell'altro poeta; quindi affiso verbo, posto dal Petrarca: “che altrove non mi affiso”. Questa voce meno sempre usa Petrarca come, ove disse: “provedete almeno Di non star sempre in odiosa parte”; e in uno altro sonetto: “Prima potrà per tempo venir meno Una imagine salda di diamante”; né in loco di tal voce, come adverbio mai usò Dante né il Boccaccio questa altra voce manco, né il Petrarca se non nel sonetto XIV ove dice: “Vedendo il caro padre venir manco”. Ma come nome si pone, del medesimo Petrarca nel sonetto XXXVIII: “Però i mie' dì fien lagrimosi e manchi”; e nella canzone Quel'antico mio dolce: “Madonna, il manco piede”. Quindi il verbo mancare: Petrarca: “a cui il cibo manca”. Altresì per similmente pose Dante nel canto XIX dell'Inferno ove dice: “La giù cascherò io altresì quando”; e così lo pose nelle sue canzoni, e il Boccaccio in molti lochi, ma in niuno il Petrarca lo usò. Tosto adverbialmente si pone, e tostamente ancho disse Dante; e come nome si usa, dicendosi: “il suo movere è sì tosto”, e: “la via più tosta”, disse Dante; e ratto in medesima significatione: Petrarca: “Ratto inchinai la fronte vergognosa”; e Petrarca: “Se non fusse il suo fuggir sì ratto”; Dante nel Purgatorio: “Ratto, ratto che 'l tempo non si perda”; e come nel canto II dell'Inferno: “Al mondo non fur mai ratte persone”; e nel seguente canto: “Che girando correa tanto ratta”; e avaccio usa la tosca lingua: Dante nel canto X: “E io pregai il spirito più avaccio Che mi dicesse chi con lui si stava”; e il verbo avacciare: Dante: “Che si avacciaser a divenir sante”. In tal significatione adverbialmente questa voce presto non ritrovo usata, se nonne una volta da Dante nel canto VII del Purgatorio ove dice: “alcun inditio Dà noi perché venir possiam più presto”; ma come nome si ritrova spesso, come Petrarca: “Fortuna, che al mio mal sempre è sì presta”; Dante nel canto XIX del Purgatorio: “Quand'una donna apparve santa e presta Lungesso me”; e nel canto XXI dell'Inferno: “Col duca mio, si volse tutto presto”; e nel canto II: “Perché mi fece del venir più presto”; e nel canto XXX: “non l'havei tu così presto”, intendendo del braccio, e nel canto XXI del Paradiso: “Né più amor mi fece esser più presta”. E quindi il verbo apprestare usato una volta da Dante nel canto XII del Purgatorio dicendo: “Vedi colà un angel che si appresta Per venir verso noi”; Dante: “Alla Fortuna, come vol, son presto”. Ma il Boccaccio in lochi innumerabili usa questo verbo apprestare non per affrettarsi, ma per apparechiare, e pone esser presto, cioè apparechiato, il che massimamente dimostra nella giornata prima nella novella di Primasso dicendo: “Fece dir all'abbate qualhora gli piacesse, il mangiare era presto”; e nella giornata quinta nella novella di Cimone: “Ad una nave, la quale io ho già secretamente fatta apprestare, ne meneremo”. Prestamente, nondimeno nella medesima novella per adverbio pose dicendo: “De' quali prestamente alcuno corse ad una villa ivi vicina”, e così si trova nella giornata prima nella novella di Melchisedec, e in altri lochi, e li essempij danteschi per me addutti si potranno da chi mira tutti riducere a tal significatione, né dove si legge in alcuni lochi tosto non vi haverebbe loco presto, come nel canto XXX del Purgatorio: “Sì tosto come in su la soglia fui Della mia verde etade”, havendo ancho detto altrove: “Sì tosto come l'ultima parola”; e nel canto XIX del Purgatorio: “E volete trovar la via più tosto”; e così in più lochi. Incontanente quasi in medesimo significato si legge: Dante nel canto III: “Incontanente intesi e certo fui”; e ancho immantenente, come nella canzone XVII del Petrarca: “E perché mi spogliate immantenente”. In loco di questa voce latina aliter nella volgar lingua si dice altrimenti; solo ritrovo il Petrarca nel sonetto CXLVII haver detto altramente: “Se ciò non fosse, andrei non altramente A veder lei”. Nulla per niente adverbialmente ad hor si pone, come Dante nel canto ultimo dell'Inferno: “A quel dinanzi il morder era nulla Verso il griffiar”; e il Petrarca nel sonetto sopradetto: “il fuggir val niente”, onde alcuni componono nientedimeno; ma nondimeno disse sempre il Boccaccio nel suo Decamerone. Nulla nome per nessuna: Petrarca nella canzone IV: “Nulla vita mi fia noiosa o trista”, e così in uno e altro modo, in molti lochi. Questa voce niuno, over niuna, non hanno usata gli dui poeti toschi, ma il Boccaccio in molte parti delle novelle la ha lassata iscritta. Non mica medesimamente per niente: dal Petrarca una sol volta tal voce è posta dicendo né mica, che quasi è neque mica latino vocabolo e trito. Testé adverbio di presente tempo, non mi sovene haverlo letto, nell'opre del Petrarca ma ben di Dante, e del Boccaccio; e testeso in medesima significatione pose nel canto del Paradiso dicendo: “E quel che mi convien ritrar testeso”. E questa voce geminata via via il medesimo dinota che hora hora: Dante nel canto VIII del Purgatorio: “Per lo serpente che verrà via via”; ma una sola di dette voci preposta a quest'altra voce più, molto significa, come Petrarca nella canzone XXIII: “Che farà gli occhi toi via più felici”, e nel Triumpho primo della Morte: “Via più dolce si trova l'acqua e il pane”. Guari antica voce tosca medesimamente molto dinota, come dimostra Dante nel canto VIII dell'Inferno dicendo: “Ma ei non stette là con essi guari”, vocabolo molto frequentato dal Boccaccio nelle novelle, ma dal Petrarca mai scritto non si trova. Assai adverbialmente sempre ha posto il Petrarca in fuori che nel Triumpho primo dell'Amore quando disse: “E dentro assai dolor con breve gioco”; e Dante in alcuni pochi lochi, come nel canto XII dell'Inferno: “E di costoro assai riconobbi io”; e nel canto XXIII: “I' udì già dir a Bologna Del diavol vicij assai”. Dal Boccaccio sanza diferentia è posto, come nel principio della prima giornata appare, ove disse: “Dalle quali cose e altre assai”, e poco più oltre: “Ad un fine tiravano assai crudele”. In loco di molto adverbio, o grandemente pone sovente il Boccaccio stranamente, come nella settima giornata nella novella di un geloso, nel principio: “Stranamente parve a tutti madonna Beatrice esser stata malitiosa”. Rado, e di rado dicesi, per raro adverbio: Petrarca nella canzone XXIII: “Rado fu al mondo fra così gran turba Chi udendo ragionar”; Dante nel canto IX dell'Inferno: “e quei: Di rado Incontra”; e nel canto IV: “Parlavan rado, con voci soavi”. E nome si trova ancho, come Petrarca: “Rade volte adivien”; e raro nome nella sopradetta prossima canzone pose Petrarca: “E come già se' de' miei rari amici”; Dante nel canto VIII dell'Inferno: “E rivolsese a me con passi rari”. A passo a passo, per quello che si dice a poco a poco: Petrarca nel sonetto L: “A passo a passo è poi fatto signore”; e altrove: “così passo passo Scorto m'havete a ragionar tant'alto”. Quando che sia, cioè pur qualche volta over finalmente: Petrarca nella canzone IX: “I mie' sospiri a me perché non tolti Quando che sia?”; Dante nel canto primo dell'Inferno: “perché speran di venire, Quando che sia, alle beate genti”. Tardi e tardo adverbialmente si dice: Petrarca nel sonetto CCXXXIII: “et è, ben sai, Qui ricercargli intempestivo e tardi”; Dante nel canto II dell'Inferno: “Che l'ubedir, se già fusse, m'è tardi”; e nelle canzoni: “Se tramontarsi al tardo”. Che nomi siano ancho adiettivi, è cosa manifesta, come Petrarca: “E tarde non fur mai gratie divine”. Affatto, del tutto: Petrarca, sonetto CLII: “Ch'io mora affatto, e in ciò segue suo stile”. Sovente, che quello medesimo dinoti che spesso, è assai noto. Hora venendo agli adverbi locali: qui e quivi e quici: Dante nel canto VII del Purgatorio: “Quivi sto io coi pargoli innocenti”; e poco da poi: “Quivi sto io con quei che le tre sante Virtù vestir”; e nel medesimo canto: “A guisa che valloni sceman quici”. e lici in loco si pongono, e de loco: Dante: “Poco partiti si eravam di lici”. e qua medesimamente in loco: “Hor qua, hor là soccorrem con le mani”; a loco: “Di su, di giù, di qua, di là li mena”; e: “quello imperator che là sua regna”; e nel canto II: “Dello scender qua giuso in questo centro”; e poco da poi: “Perch'io non temo di venir qua entro”. Colà dicesi, e costà, e costì, ma non colì: Dante: “E tu che sei costì, anima viva”, cioè in quel loco, e costinci, de lì: Dante nel canto XII dell'Inferno: “Ditel costinci, se non l'arco tiro”; e poco da poi: “La risposta Farem noi a Chiron costà di presso”, e fati in costà per quello che dir si suole fatti in là: Dante nel canto XXII dell'Inferno: “Fatti in costà, malvagio ucello”; e nel canto VIII: “Via costà con gli altri cani”; e il Boccaccio nella giornata terza nella novella di Ricciardo Minutoli: “Sozzo cane, che ha colei più di me? Fatti in costà, non mi toccare”. Indi de loco e quinci e quindi: Dante nel canto IX dell'Inferno: “Per indi ove quel fumo è più acerbo”; e nel canto III: “Quinci non passò mai anima buona”, e poco innanzi havea detto: “Quinci fur chete le lanose gote”, cioè per questo. Così quindi si pone, come nel canto XXV del Purgatorio: “quindi ridiam noi; Quindi facciam le lagrime e i sospiri”. Pongonsi insieme da Petrarca e da Dante questi dui adverbij: nel canto XIV dell'Inferno: “Senza riposo mai era la tresca Delle misere mani, hor quindi hor quinci”, cioè di qua e di là, come nel canto predetto: “Di qua, di là soccorron con le mani”. Ove dove e altrove sono adverbij in loco e a loco, e dicesi ove e dove sei, e ove e dove vai, e io sono altrove, o vado altrove. Onde donde e altronde sono de loco, e per loco, come onde vieni, onde sei passato, e altronde passi, altronde vieni: Petrarca nel sonetto XXXIX: “E io contra sua voglia altronde il meno”; e nella canzone XXII: “Là onde io passava sol per mio destino”; e nella canzone LX: “Fa' ch'io ti trovi al varco, Onde senza tornar passò il mio core”. Li essempi de loco sarian di soverchio però che è cosa trita, e a ogn'huom nota. Dicesi ancho dovunque e ovunque, che in loco di ubicumque e quocumque, latini adverbij si pongono e giongonsi con lo indicativo, e con lo soggiontivo: Petrarca nella canzone XXV: “Ovunque gli occhi volgo”; e nel sonetto CXLVII: “Ovunque ella sdegnando gli occhi gira”; e nel sonetto CXXVI: “Ove ch'io posi gli occhi lassi o giri”; e nel sonetto CXCIII: “Tal la mi trovo, ove ch'io sia”; e nella canzone XXVI: “Ove porge ombra un pino”, ma coll'indicativo regolarmente si aggiungono li compositi, come oltre li sopranotati essempi mostra Petrarca nel sonetto LXXXVII: “Per far dolce sereno ovunque spira”; e nel sonetto XCIV: “Che 'l pensier mio figura, ovunque sguardo”. Altri locali adverbij a me non pare che vengano in consideratione nella volgar lingua per alcuna loro difficultà. Imponendo adunque fine a questo primo libbro della grammatica trattante il modo del regolato parlare, convenevole cosa è al secondo della orthographia, parte di essa grammatica divenire. Nella quale prima saranno poste alcune regole generali; poi alla geminatione di ciascuna consonante per ordine si devenirà, con le correttioni degli errori delle stampe di corsive lettere (che così le chiamano) e con nuove dichiarationi di molti passi occorrenti di Dante, e del Petrarca, come vi è promesso, aspettando voi da me (se io conoscerò questa parte di mia fatica esservi stata non poco grata) oltre gli altri tre libbri, che sono del rimanente di questa mia opera, le espositioni delle cose posposte, overo male esposte da commentatori dell'uno e dell'altro volgar poeta.

LIBRO SECONDO

L

La prima regola della orthographia sarà, che tra due vocali tre consonanti non si debbian porre, onde scriverassi santo, pronto, ostacolo, mostro nome e verbo, costantia, sostegno, trasmuto, trasporto, pospono, posposto e così tutti gli altri tali. Questa regola non ha loco ove r overo l le quali latini chiamano liquide, precede la seguente vocale, perché in alcuna di tali voci di necessità tre consonanti vi si richieggono, perché rimanga la parola intiera, come sepolcro, sempre, compro, e altri infiniti tali; e in alcune altre per la compositione loro, come abbracio, abbrevio, attraverso, e simili. Sono poi alcuni vocaboli, li quali non per bisogno di compimento di voce, né per ciò che siano composti, ma per seguimento della tosca pronontiatione, e per differentia delle voci latine, di simile finimento, ricevono f overo b geminato, come soffro, afflitto, labbra, fabbro, libbro, febbre, ebbrio, sobbrio; ma di questi e degli altri tali si dirà sotto le occorrenti lettere partitamente.

La seconda questa sia, che di queste lettere b, c, d, p, ove alcuna nel latino è precedente a questa lettera t nel volgare in altro t si tramuta, perché ancho la volgar pronontia lo richiede, onde dotto, obietto, rotto, ottuso, patto, ottimo, settimo, ottavo, con altri loro simili, così scriveransi. Alcuna volta per la compositione, in la simile consonante ritrovata si tramutano, come è aggiongo, osservo, assolto, sotto, sollevo; alcuna volta si rimovono, come equinotio, pronto, sostantia, sovengo, conosco, aversario e altri simili. Questa lettera l talhora in i si converte nel volgare, come ampio, essempio, tempio, empio, compio e chiudo, conchiudo, dischiudo.

La terza regola sia tale che sì come, dinanzi a queste lettere b, m, p, non vi ha loco n in medesima voce, così queste lettere b, d, g, havendo nel latino, in medesima voce seguente questa lettera m, nel volgare in altro m si tramutano, come dramma, sommetto, sommergo, ammiro; e quando essa lettera m in voce latina dinanzi a questa lettera n si ritrova, nella volgar voce in altro n si riduce, e scriverassi scanno, danno, autunno e così gli altri simili.

La quarta norma esser diremo, che ove alcuna di queste due vocali a overo o è in istessa voce precedente a questa lettera q, il c se gli intrapone, come acqua, nocque, piacque, tacque, giacque e in simili, trahendone aquila e aquilone. Intraponesi parimente c tra s e la vocale seguente in tutti li tempi e modi, ove s intraviene di quelli verbi, li quali nella prima persona dello indicativo hanno s e c come pasco, nasco, cresco, ascendo, discendo, sciolgo, scioglie, cresce, pasce, discende si scrive, e così in gli altri modi e tempi, come è detto, e il medesimo nelli participij loro attivi e passivi, si osserva, come ascendente, pasciuto, disceso, crescente, cresciuto, sciolto, e così nelle altre voci a lloro simili; né crederei senza error ancho di rima potersi con s geminato nella concordante porre, questo verbo lascio a differentia di questo nome lasso, che hor voce è di dolente ancho, e hor debole dinota, e direi che con sc scriver si dovesse, come lasciato: Petrarca: “Lasciato hai, Morte, senza sole il mondo”; e Dante nel canto X dell'Inferno: “Coi corpi che là su hanno lasciati”; e nel vero la pronontiatione lo richiede. Ma lo istesso Petrarca nel sonetto che incomincia Io mi rivolgo indietro a ciascun passo, mi fa dubitare dicendo: “Che 'l fa gir oltre dicendo: Oimè lasso! Poi ripensando al dolce ben che io lasso”, ove non si pò dir error di stampa, perché lascio con l'altre, sarebbe discordante rima. Error potrebbe forse esser di stampa, ove è scritto: “Lassare il velo o per sole o per ombra”, che per il mio giuditio (qual si sia) e ivi e altrove fuor di rima, con s e c scriver si deve, e forse il Petrarca più dalla rima costretto che da altro mosso così scrisse; ma altrimenti Dante nel canto XXVI del Paradiso disse in rima “natura lascia”. Questa voce fascio così ancho si scrive, e coscia, angoscia, fascia, pesce, bascio e scempio nomi e verbi, sciagura e derivati, ramuscello, arbuscello e l'altre voci simili come ruscello; e così la lingua tosca li pronontia, della quale come dicemmo la penna deve esser seguitatrice. So verbo da molti si scrive con il c come il latino scio, che a me non piace volendo scriver volgarmente; né ancho nesciuno con c si scrive, ma con s geminato; e così è l'uso de' dotti scrittori. E come c a queste voci si interpone, così g a quelle che da i hanno cominciamento, seguendo un'altra vocale si propone come Giano, gioco, Giove, Giunone, giocondo, ingiuria, Giovanni e simili, come che il dottissimo Gioviano Pontano, nel suo trattato di aspiratione dica, la propositione di questa lettera g a vocali nella volgar lingua esser processa da' barbari, ma la tosca pronontiatione seguendo a me par che vi si convenga (che che si sia).

La quinta regola della mutatione delle vocali nelle volgari voci dal latino descendenti sia che regolarmente questa prima vocale a rimane nel volgare, ove nel latino si trova, e di ciò non fa mestier addur essempi. E veramente molte fiate in i si converte e molte più i in e per dimostrar la voce volgare diversa dalla latina, onde più ragionevolmente secondo la volgar lingua scriverassi disidero, misura, istremamente, istimare, iscusato, spilunca. E regolarmente le dittioni che incominciano nel latino da questa sillaba ex-, seguendo consonante nel volgare da questa sillaba is- prendono cominciamento, onde non expedire ma ispedire scriveremo; similmente liggieri e piggiore; e nelle voci composte da questa particola re- latina che in ri- si tramuta, e diremo rimovo, rihavuto, riporto, rinasco e così gli altri simili perché tutti trascriverli si farebbe oltra modo crescer il volume, cosa contraria alla brevità, la quale io cerco di seguire. E talhora in a si tramuta, come in maladetto, e talhora in u come in rubella. Dissi medesimamente che i in e in moltissime voci si tramuta per far la volgar voce dalla latina differente, onde oppenione, sollecito, semplice, empio nome e verbo, vettoria,letter, soletario, menoma, menomissima, selva, nemico, artefice e altri tali la tosca pronontiatione de' quali la penna seguir deve quanto più pò; e così si ritrova iscritto nelli meno corrotti antiqui testi delle cento novelle di messer Giovanni Boccaccio. Questa penultima vocale o ad hora in i si trova mutata, come in queste voci dimestico, dimestichezza; i in o come somigliante; in u più sovente o si tramuta, sì come ancho u in o in lochi infiniti si vede tramutarsi, come si vedrà nelle sottonotate voci. E prima porrò quelle nelle quali la penultima vocale nell'ultima si muta, poi quelle, ove l'ultima nella penultima, si converte. Dunque ubidiente, ufficio, ubbrigato, tutto, come che Dante licentiosamente per la rima la voce latina ponesse dicendo: “Nostra natura, quando peccò tota”; essempi della seconda inversione sono molti, come sospetto, soggetto, nodrimento, noverar, inoverabili, popolo, volgare, singolare, e molti tali. Detto della variatione dal latino al volgare decevolmente, mi resta di ragionare della variatione di esse vocali nelle volgari voci istesse.

La sesta adunque regola sarà, che li verbi li quali questa vocale a hanno per finimento delle terze singolari persone dello dimostrativo modo, che sono della congiugation prima della quale dicemmo nel primo libbro, a mutasi in e nel futuro tempo e dicesi: io amerò, tu amerai, quelli ameranno, e medesimamente, nelli imperfetti tempi del soggiontivo, come io amerei, tu ameresti, quello amerebbe, e il medesimo, nel numero del più; ma nella terza persona dello perfetto tempo dello indicativo modo, questa vocale vi resta, né si muta in o (come nel primo libro dicemmo) dicendosi e scrivendosi quelli amorono, cantorono e altri tali, ma quelli amaro, cantaro over amarno dir si deve. In molti altri lochi, questa vocale seconda e in i si tramuta in questo tempo, e prima persona amassimo, cantassimo, ma nella terza persona si tramuta in o e dicesi amassono, cantassono, e nella terza persona dello imperfetto tempo, come canterebbono, amerebbono, e similmente nelli verbi della seconda congiugatione, come farebbono, e di più nelle terze persone del maggiore numero dello indicativo e presente tempo, come vivono, dicono, scrivono, e nella terza persona del maggior numero del tempo perfetto dello istesso modo, come scrissono, vissono, pervennono. Variansi in molte voci le vocali, cioè che l'una e l'altra senza biasmo vi si pò porre, come serà tempo futuro di sono, maraviglia meraviglia, come como, altrimenti altramente, anche ancho, unque unqua, preposto proposto, sanza senza, fuora fuori fuore, credea credia, dispetto despitto, fosse fusse, vulgo volgare, curto corto, vui voi, suoi sui, fui foi, dipinto depinto, maledetto maladetto, di botto di butto, traggito traggetto, reo rio, e molti altri tali che ad uno e altro modo correttamente si trovano posti dagli approvati auttori nostri, come lungi lunge e da la lunga; e il medesimo variar si trova nel principio de alcune dittioni, come iguale eguale e uguale, offitio uffitio, e altre tali voci le quali io non trascrivo.

B

Geminasi regolarmente questa prima consonante nelli verbi, essendo nel mezzo di questa vocale a come abbaglio, abbarbaglio, abbatto, abbasso, abbandono: Petrarca nel sonetto LV: “E come vita anchor non abbandono”; e nel sonetto LXXXI: “E rapidamente n'abbandona”; e nella canzone che incomincia Poi che per mio destino: “Hor m'abbandona al tempo, e si dilegua”; Dante nel canto XVII dell'Inferno: “Quando Phetonte abbandonò li freni”; e nel canto VIII: “Così sen va e quivi m'abbandona”. E così è l'uso de' dotti e giuditiosi scrittori, e dove altrimenti si trovi, esser aviso error di stampa, come nel sonetto CCXXI: “D'abandonarmi fu spesso intra due”; e nel Triumpho della Castità: “Chi abandona lei d'altrui si lagna”; e nel canto XXV del Purgatorio di Dante: “D'abandonar lo nido e giù la cala”; e nel canto XVII del Paradiso: “Tal che è più grave a chi più s'abandona”, e il medesimo è nel canto V e VIII della detta cantica. Hanno oltre li predetti tal consonante geminata (ove si ponga) tutti li verbi nella prima persona dell'indicativo de' quali si gemina questa overo altra consonante, come debbio over deggio; negli altri tempi e modi hanno quello medesimo, e scriveremo debbia, dobbiate, debbiano over debbano, per ciò che per lo accrescimento delle sillabe del maggior numero, le consonanti del numero del meno declinandosi, non si diminoiscono: haggio, hebbi, hebbe, habbia, habbiamo, habbiate, habbiano overo habbino per sincopa, faccio, farebbe, posso, potrebbe. Questo verbo conosco ancho gemina il b nel preterito: conobbi, conobbe; gabbo verbo e nome, e babbo, voce la quale gli infanti usano in ver' li padri loro, come mostra Dante nel canto XXXII dell'Inferno dicendo: “Né da lingua che chiami mamma o babbo”, cioè da picciolo fanciullo, e conseguentemente ignorante, volendo per questo inferire esser impresa altissima “descriver fondo a tutto l'universo”, cioè lo inferno e quella parte che sia il fondo della terra, la qual chiama l'universo però chiamalo buco dove si appuntan “tutte l'altre rocce”; onde non parmi che il Landino quel loco bene interpretasse dicendo: “E la cagione che non si conduce a dire sanza timore, è che a voler trattar tal materia, non è impresa da pigliar a gabbo, cioè a scherzo e giuoco voler scriver fondo, cioè oscuramente a tutto l'universo, a tutti gli huomeni. E di poi perché la lingua fiorentina nella quale lui scrive dificilmente è intesa fuori di Italia dove si dice mamma e babbo, però aggiunge: O lingua che chiamassi mamma o babbo, idest la lingua italica”. Queste sono le parole del Landino; e che il sentimento del poeta sia come io ho proposto, dimostralo nel Paradiso: volendo di cosa grande trattare, disse che non era da infante “Che bagni anchor le labbra alla mammella”; e altrove per altra circonlocutione, dinotando la infantia disse: “Prima che tu lasciassi il pappo o il dindi”. Io credo lettori miei che non vi fia grave in questo libbro della orthographia più che vi sia stato in quello della grammatica, sotto le occorrenti voci legger alcuna nuova loro dichiaratione col svelamento di molti sensi anchor coperti delli poeti nostri, per arra di quello che dovete da me aspettar. Dubbio nome e verbo e dubbioso, quantunque Dante molto nelle rime licentioso nel canto XXVIII del Paradiso dicesse: “E quella che vedeva i pensier dubi”, ma nel mezzo del verso nel canto XXXII: “Hor dubbi tu, e dubitando sili”, credo che lasciasse scritto. Dubbio e dubbioso scriveremo adunque e dubito, dubitoso. Dubbiar infinito spesso è usato da Dante, come nel canto XI dell'Inferno ove dice a Virgilio: “Tu mi contenti sì quando tu solvi Che, non men che saper, dubbiar mi aggrata”; e parmi che più regolatamente così discenda da dubbio nome, che dubitare benché l'ultimo sia in uso più frequente, over che 'l nome discenda da esso verbo, e così come da debbio verbo (che così ancho lo declina il Petrarca dicendo: “Che debbio far? che mi consigli, Amore?”) discende debito, e debitore li quali con b semplice si scrivono; così dubito, dubitoso tutto che da dubbio discendano, con b semplice scriveransi; così geminasi questa consonante, nelle voci le quali, in questa sillaba -io overo -ia hanno finimento, come subbio, Danubbio, marubbio, annebbio verbo, così nebbia, arrabbio verbo donde arrabbiato e rabbia con b doppio, Arabia nome di provincia con b semplice solo si scrive; gabbia, sabbia, scabbia, hanno medesimamente tal consonante geminata come labbia nome il quale si trova con articolo feminile del primo e del secondo numero, e non con significatione delle sole labbra, come nel latino, ma dello aspetto tutto, che volgarmente si appella ciera vocabolo usato da Cino da Pistoia, e da Guido Cavalcante nelle loro rime, come parmi dimostrar il Petrarca nel Triumpho quarto dell'Amore dicendo: “ove le penne usate Mutai per tempo e le mie prime labbia”; e Dante nel canto XIV dell'Inferno: “Poi volto verso me con miglior labbia”. Onde a me non piace la interpretatione del Landino nel canto XXV ove interprettando quel verso: “Infin dove comincia nostra labbia”, disse: “Chiama il ventre labbia perché in quella è la fece, che in latino è detta labes”. Libbro, fabbro, labbra, febbre, obbrobrio, ebbrio, sobbrio, per la seguente liquida, scriver sanza error si ponno con sola e geminata consonante, ma trabocco e distrabochevole con solo b e non come è posto nel sonetto del Petrarca: “Lagrime per la piaga il cor trabbocchi”; rubo medesimamente e rubatore: Dante: “O imaginativa che ne rube”. In questo nome obbietto nella volgar scrittura, il b si doppia come ancho il g quando per g si scriva che ad uno e altro modo si convene; come oggetto, medesimamente sobbietto e soggetto; e per error di stampa in molti lochi altrimenti si trova, come nel Petrarca: “Di lor obietto ragionar sovente”; e altrove: “Rendi agli occhi, agli orecchi il proprio obietto”; e in Dante il simile in moltissimi lochi.

C

Medesimamente questa consonante seconda si gemina nelli verbi e nomi da loro descendenti, li quali comincino da llei (e il medesimo è nell'altre) e si compongano con questa sillaba ra- overo con solo a come raccoglio, raccolto e per error di stampa, nel canto V del Paradiso è posto con c semplice ivi: “come il quattro nel sei non è racolto”. Accenno, come nel Triumpho della Divinità: “che la memoria anchora il core accenna”, onde male istà nel sonetto CXLV: “Ove armato fier Marte, e non acenna”; e altrove: “Che piagava il mio core e anchor acenna”. Geminasi parimente in tutti li verbi e nomi, li quali finiscano in queste due vocali i e o overo i e a in una sillaba congiunte, come taccio, faccio, giaccio, faccia, braccia, occhio, orecchia, specchio, vecchio, goccia, doccia, e altri simili. In questa voce acciò, quando segue questa particola che posto in loco di ut, e quando si pone in loco di quoniam, il che ritrovo solo Dante haver fatto nelli suoi Convivij, li essempi del quale sono posti nel primo libbro difusi, come ove nel principio disse: “e acciò che la scientia è ultima perfettione”; e altrove: “acciò che misericordia è madre di beneficio”, questa consonante si gemina. Ma quando sono due parti, prepositione, e pronome, come ad hoc che il medesimo dinota a ciò con solo c secondo il mio giuditio (qual si sia) si scriverà, perché come scrivendo noi io vengo a te non vi si porrà il t geminato, né lo n scrivendo venite a noi, così non si geminarà il c scrivendosi io son venuto a ciò, e in questo parmi ritrovar correttamente stampato Dante perché nella prima significatione sempre si trova con il c doppio, e nella seconda con scempio, come tra gli altri lochi, nel canto II dell'Inferno: “Di questa tema acciò che tutti solve”; e nel fine: “Acciò ch'io fugga questo male e peggio”; e nel canto XXV: “acciò che 'l duca stesse atento”; e nel X del Purgatorio e XIII del Paradiso e così in altri lochi, e nell'altra significatione nel canto I dell'Inferno: “Anima fia a ciò più di me degna”; e nel canto X: “A ciò non fu' io sol”; e ne l'XI: “Vedi che a ciò penso”; e nel canto IV del Paradiso: “Non è simile a ciò che qui si vede”; e nel canto V: “a ciò che vien di fuori”; e così negli altri lochi. E nel vero, a me pare che non sanza sconvenevole pronontia il c geminato isprimersi potrebbe in molti lochi, come nel sonetto VIII del Petrarca: “Ma vendetta è di lui ch'a ciò ne mena”; e altrove: “Amor, ch'a ciò m'invoglia”; e nel Triumpho della Morte: “hora convien ch'a ciò proveggia”; e altri simili. E a tal modo veduto ho io scritto, in molti, assai corretti e antichi libbri, tutto che sanza differentia alcuni dotti scrittori, ad uno e altro modo pongano il c geminato. Detto è disopra che li compositi con questa sillaba ra- precedente, doppiano questa consonante, onde è da sapere, che tal regola non ha loco in ciò, quando questa sillaba ri- in compositione si preponesse, come riconosco, ricorro, ricopro, ricolto, e altri simili, li quali con c semplice si scrivono sempre. Ricco è nome semplice, onde discende il verbo arricchir, e però scrivesi con geminato c; reco verbo con solo si scrive, e oltre la trita significatione di porto, come Dante: “Per recarne conforto a quella fede”, significa ancho riducere, quale si pone da Dante nel canto XI dell'Inferno dicendo: “E rechiti alla mente chi son quelli”; il Boccaccio nella giornata II nella novella de' tre giovani: “A qual partito gli havesse il sconcio spender un'altra volta recati”; e altrove disse: “Io mi recherei ad amarti”; e così credo esser posto tal verbo dal Petrarca nella canzone Anzi tre dì recata era alma in parte, ove per traspositione di lettera, creata si legge con lo corrompimento di tutto il senso, della bella sestina. Geminasi in questo nome Bacco sì come nel latino: Petrarca nel sonetto L'avara Babilonia ha colmo il sacco dice: “Non Giove o Palla, ma Venere e Bacco”, benché Dante nel canto XX dell'Inferno dicesse: “E venne serva la città di Baco”, dandogli per concordanti rime Benaco e laco. Rocco quando ronchione dinota, e non rauco con c pur geminato si scrive: Dante nel preallegato canto: “Cert'io piangea, appoggiat'a un de' rocchi”, e have sciocchi per concordante rima.

D

Ponesi geminato il d nelle composite voci, o nomi o verbi che si siano, le quali da tal lettera incominciano come adduco, addormento overo addormo, posto dal Petrarca dicente: “del dì ch'io m'addormiva in fasse”; e così addormentato, addimando, addimandato, raddoppio verbo e raddoppiato, addossare, addosso, composito verbo parmi con ragione dover tal consonante geminare, benché con semplice si legga nel canto III del Purgatorio ivi: “Adossandosi a lei, s'ella si arresta”, che sì come da questo nome dente deriva il verbo addentare posto da Dante nel canto XXV dell'Inferno: “Che gli addentò e l'uno e l'altra guancia”; e da dito additare: Petrarca: “Che per cosa mirabile si addita”; e Dante: “e additò colui dinanzi”; e così gli altri tali. Medesimamente da questo nome dosso che pone Dante dicendo: “Mostrava alcun dei peccatori il dosso”, si comporrà addossare, e addosso diremo quasi al doso, convertendosi l in d come Petrarca (benché con semplice d sia scritto) nella canzone XVIII ove dice: “Là 've dì e notte stammi Adosso, col poter c'ha in voi raccolto”; “Mi vanno inanzi, et emmi ognhor adosso”; ma nelli versi la semplicità delle consonanti si conciede, ove che nella prosa non si faria, e questo nel principio delle dittioni, perché nell'ultime sillabe, non si concordano le rime, quando l'una con due, l'altra con sola consonante ha finimento. E Dante, per non cadere in tal errore ispesso non hebbe alla grammatica rispetto, che nel VII canto dell'Inferno pose il preterito di veggio con questa consonante geminata, dicendo: “Nuove travaglie e pene quante io viddi”, ponendo per rima concordante Cariddi, il che fece ancho in molti altri lochi delli quali sotto le occorrenti lettere si parlerà. Caggio nel preterito, fa caddi; freddo similmente con d geminato si scrive, e il composito verbo raffreddo, quantunque uno de' moderni non di oscuro nome habbia lasciato tra sue rime impresse fredo e vedo concordanti; nondimeno né ll'uno né ll'altro in tal modo si scrive. Aduggio verbo da uggia (che ombra nociva dinota) discendente, con solo d dirittamente scriverassi, perché quando questa consonante con nomi da vocali comincianti, si congiunge non si gemina, come adoro, adorno, adeguo, e altri simili.

F

Generale e breve regola, di questa consonante dar si puote tale, che come l'altre predette nelle voci che da essa incominciano sarà doppiamente posta in compositione, come affronto, affretto, affermo, affido, e come nel latino si scrivono quali sono offeso, offerto, differente, difficile, effetto, offendo e offeso, diffondo, diffuso. Difendo e difeso nel latino, e nel volgar si scrivono con semplice consonante, onde error di stampa diremo essere nella canzone XXXI ove così è stampato: “Un lauro mi diffese allhor del cielo”; diffetto medesimamente, a me pare che con solo f scriver si debbia, come si legge nel sonetto CCCXIII del Petrarca: “Il suo difetto de Tua gratia adempi”; e Dante nel canto IV dell'Inferno: “Per tai difetti e non per altro rio”; e così in molti lochi in fuori che nella canzone cominciante Una donna più bella: “Me' v'era che per noi fosse il diffetto”; e Dante nel canto VI del Purgatorio: “Non si mendava per pregar diffetto”; e così in alcuni altri lochi; ma sì come da defendo difeso, così da questo verbo deficio difetto scriveremo, perché basta la variatione delle vocali a dimostrar la diversità della voce volgare dalla latina; e quando con le vocali non si possa, allhora con aumento o diminutione di consonanti si fa come in questo nome lito, e damma, che è animal silvestro, il qual nome, latini con solo m scrivono, li volgari con geminato come Petrarca quando disse: “cervo né damma”, ché benché nel volgare dal latino ci discostiamo, non però regolarmente nelle geminationi delle consonanti l'uno è dall'altro molto differente. Geminasi in affanno verbo e nome, soffro, raffiguro, traffigo e traffitto, avenga che chi con solo f lo scrivesse non sarebbe forse degno di riprensione, perché rare volte questa particola tra- seguono due consonanti, come si vedrà sotto le seguenti lettere; e così forse lasciò iscritto Dante nel canto XXV del Purgatorio dicendo: “Se di bisogno stimolo il trafige”; e nel canto XXVIII: “Sotto le ciglia a Venere, trafitta”; in affino verbo si gemina, e quando purificar dinota: Petrarca: “come oro al foco affina”; e quando per apparentare, over gionger in similitudine, come Petrarca nelli Triumphi: “Portia che 'l ferro al foco affina”, et è il sentimento, che non havendo ella ferro usò il foco invece di lui, perché glielo apparentò, overo assomigliò. Così geminasi in baruffa, zuffa, buffa, beffa, aceffo verbo: Dante: “la lepre che gli azeffa”; affabile, ineffabile, paroffia. E degli altri li quali tutti trascriver, fastidiosa lunghezza sarebbe, bastino le generali regole.

G

Questa consonante regolarmente si gemina nelli nomi, e verbi, li quali hanno queste due vocali i e o overo i e a congiunti in medesima sillaba, come veggio, caggio, raggio, seggio, maggio, maggiore, peggio, piggiore, e altri simili, come pioggia, piaggia, poggio nome e verbo, viaggio, seggio, selvaggio. Ma questi nomi palagio, disagio, malvagio, bragia, adagio, con g semplice si scrivono, perché le vocali si ponno in due sillabe ancho dividere, e come in privilegio, regio, pregio, fregio nome e verbo e sfregiare contrario, come Dante nel canto VIII del Purgatorio: “Che vostra gente honrata non si sfregia De l'uso della bontà e della spada”, ove il Landino leggendo non si fregia della borsa, corrompe il testo, e male interpreta il sentimento del poeta. Aguaglio con g semplice si scrive, sì come adeguo con solo d; e così trovasi scritto nel sonetto che incomincia L'aspettata virtù che in voi fioriva: “Produce hor frutto che quel fiore aguaglia”; e altrove: “Che non la aguagli altrui parlar o mio”; e: “Nullo stato aguagliarsi al mio potrebbe”; onde mi aviso che per error di stampa nel sonetto CCXXIV sia altrimenti: “Ivi il parlar che nullo stile aggualia”; e altrove: “Agguaglia la speranza col desire”; e nel canto XXV del Paradiso di Dante: “Con l'eterno proposito si agguagli”, perché niuna ragione ci persuade che con geminato si scriva.

H

L'aspiratione come è manifesto, peculiare, e propia, è de' Greci non altrimenti che si sia ipsilon e usasi nella latina lingua nelle voci descendenti da lloro, acciò che dalle latine si discernano, e tra latini nomi, dui, e per il più tre solamente si trovano d'aspirati. Ma nella volgar lingua, ove non è mistieri conoscer se 'l vocabolo discende dal latino, overo dal greco, ma solo che la voce acconciamente pronontiar si possa, a ddimostrar il concetto dello isprimente o scrivente, sanza tale aspiratione, parmi ch'ella di soverchio vi si ponga nel mezzo almeno; ma nelli principij essendo voce dal latino discesa conserverà la aspiratione, come humano, hora, hoggi, huomo, humile, e altri simili. Annibal aspirarsi per ignorantia de' librari, e non con ragione dice il Pontano; e il medesimo questo verbo abondo, e derivati. Huopo benché venga da opus voce latina non con aspirata, alcuni aspirano. Volendo adunque noi dimostrar con alcuna differentia (come dovemo) le infrascritte voci, e altre simili esser volgari, sanza aspiratione scriveremo, come scola, catena, caro, corona, Bacco, sepulcro, catolico, Cristo, patriarca, Petrarca; e il medesimo le voci greche, le quali hanno ph nel latino come Tifi, filosofo, Filelfo, e altri simili, così ancho si scriveranno per mio giuditio sanza errore. E giovami di credere che 'l Petrarca, lasciasse di sua mano scritto così quel suo sonetto: “S'io fossi stato fermo alla spelunca Dove che Apollo diventò profeta”, e non propheta. Io nondimeno confesso il commune uso de' scrittori esser nell'altra maniera il quale anch'io seguirò, fino che io conosca d'alcun giuditioso la oppenione mia esser ricevuta. Che la forma del y greco non più sia bisognevole nella lingua nostra che si sia quella dell'omega, non credo che sia alcun che dubiti. Questo verbo aduggiare il quale è della congiugation prima, come mostra Dante nel canto XV dell'Inferno: “il fumo del ruscel di sopra aduggia”; e nel XX del Purgatorio: “Che la terra cristiana tutta aduggia”, non so perché in molti lochi aspirato si legga essendo composito da questa prepositione ad e uggia nome non aspirato, che ombra nociva dinota come mostra il Petrarca dicendo: “Qual ombra è sì crudel che 'l seme adugge. ?”. Questo nome il quale da' latini, e communamente da' volgari, così si scrive Hieronymo, Girolamo nella tosca lingua si scrive, come mostra il Boccaccio nella novella di Girolamo e di Silvestra, e qui non voglio tacere come questo nome, Giovian Pontano nel suo trattato dell'aspiratione dica doversi scrivere, e in questo voglio trascriver le proprie sue parole latine, perché ancho con tutto ciò, non so se si crederà: “Ieronimus quinque sillabarum est et caret aspiratione quam i consonans semper respuit, ut Ianus, ianua licet veniant ab hio, hias aspiratum”. E per dichiaratione di quanto è detto cioè, che nel mezzo de voci latine h non vi s'intrapone, questo intendo io sanamente quando sanza essa, la voce rimane con il suo suono, il che è quando ad alcuna di queste vocali a overo o si prepongono consonanti. Ma quando ad e overo i si preponga c overo g e al suono della voce si convenga, l'aspiratione, di necessità vi s'intrapone, come poco, vago, delli quali volendo così isprimere il maggior numero poci, vagi, sarebbe il suono pozi, e vazi, e così tutti gli altri tali, onde pochi e vaghi si scriverà; così nel feminile poca, poche, vaga, vaghe, piaga, piaghe: Dante nel canto XXIX dell'Inferno: “La molta gente e le diverse piaghe”, dandoli per concordante rima vaghe, ma nel canto XXV del Purgatorio dalla rima costretto havendo detto image, soggionge: “Che sia hor sanator delle tue piage”, ponendo per terza concordante rima adage. Ponesi ancho tra il g e la consonante l'aspiratione in questo verbo agghiaccio, e quest'altro vegghio, quando esser vigilante dinota, a differentia del proferire di questo altro verbo veggio, quando per vedere si pone. Questa voce ancho, si aspira perché è di medesima significatione che è anchora; avenga che composita con unque per uso non si aspiri, e dicesi unquanco, ma ragione di alcuna diversitate io non vi veggio, e che ancho e anchora siano cosa istessa, mostralo Dante nel canto XXX del Purgatorio dicendo: “non pianger ancho, non pianger anchora”. Così quando significa tempo cioè adhuc, come Petrarca: “Sia la mia carne che pò star seco ancho”, come quando si pone in loco di etiam quale è nel canto XXIX del Purgatorio di Dante: “Si riguardava in lei, come in specchio ancho”; e nel canto VII: “Anco al nasuto vanno mie parole”, benché ivi sanza aspiratione sia stampato, come nell'altra significatione nel canto X ove così si legge: “Là su non eran mossi i piè nostri anco, Quando io conobbi”. Pur se si scrivesse con aspiratione sempre, a me non pare che error si commettesse iscrivendosi etiandio unquancho aspirato over diremo, che anco si scriva non aspirato. Della significatione sua ne dicemmo disopra, tra gli adverbi. Ponesi medesimamente l'aspiratione in tra due vocali in questo verbo traho latino, come tu trahi, quel trahe, trahemo, trahete, traggono over trahono, che dove si pone g doppio overo r la aspiratione non vi ha loco: Dante nel canto V del Paradiso: “Nel proprio lume, e che degli occhi il traggi”; e Petrarca nel sonetto CII: “Ch'al duro fianco il dì mille sospiri Trarrei per forza”; e il medesimo nell'infinitivo modo tragger overo trarre: Petrarca: “Che mi conforti ad altro ch'a trar guai”, onde colui (chiunque si sia) il quale ha corretti li errori, per stampatori commessi secondo la sua stima, nell'opere di Dante corrigendo nel canto XIII dell'Inferno nel verso: “I' sentia d'ogni parte trarre guai”, quello infinito traponendovi h e scrivendo traher a me pare corrottione essere ivi, non lodevole correttione. In questo nome thema forse l'aspiratione non è disdicevole per differentia di questo altro nome tema che per il timore si trova in più lochi posto. Traggitto, over traggetto, che altro non è che quello che universalmente si pronontia tragghetto, senza aspiratione si scrive e pronontia, perché nella tosca lingua, getto verbo e gettare, si dice, non ghettoghettare. Ma come dice lo eruditissimo Pontano nel suo libbretto di aspiratione sopra allegato, ciascuna natione have il suo proprio modo di pronontiar le sillabe e scriverle, ma io solo della osservantia parlo delli auttori, dal cui fonte, il ruscelletto di questa mia grammatica si derriva.

L

Ponesi questa consonante geminata in tutti li verbi compositi, come allevio, sollevo, allumo, allargo e altri simili, con li derivati da loro, alleviato, sollevato, allargato e in tutte le voci che nel latino l'habbino geminata, come stella, bella, villa e altre tali; e oltre a queste allegro, bolle, bollito, sollazzo, sollicito, allento verbo e rallento, alloro cioè il lauro. Geminasi questa consonante quando allo articolo, over pronome da lei incominciante si proponga prepositione, come alla città, nello regno, dell'amico, sulla torre, tra ll'altre, tra lloro, da llui, a llui, medesimamente a llei, da llei, a llor, perché tutti questi essempi un solo sesso dimostranti si estendono ancho all'altro, e così gli altri simili. E tale scrittura è della tosca pronontia immitatrice perché quando in quella, una delle dette voci si isprimeno, tale è il modo che una di queste consonanti pare aggiunta alla prima vocale, e un'altra alla seguente, facendo lo accento sulla prima sillaba, non sanza il congiungimento della consonante, con lunga pronontiatione, come nel la, al la, e così nell'altre simili voci; e non con questa solo, ma etiandio con altre consonanti, come lassù, laggiù, affine, appena, innanzi, innamorato, oppenione, appunto, libbro, febbre, commune; e quindi alcuni scrivono immagine, giammai e femmina, ma tali voci a me par che più seguano la romana pronontiatione che lla tosca e con solo m io ho veduta tal ultima voce scritta in antichi libbri fiorentini, onde si pò dire che tal scrivere segue il particolar idioma, e non generale italico, e tal geminatione nella prosa si usa non negli versi, perché più dolcemente corrano, perché la geminatione de consonanti non è sanza alcuna durezza, e spetialmente nell'amorose rime è da doversi schifare. Ma niuna grammaticale ragione, a dover geminar tal consonante lo ci persuade, perché sono due parti distinte da prepositione e lui pronome, e come scrivendo poi ch'io partì da te, questa consonante t non si gemina, né geminasi l scrivendo partì da Lorenzo, così non si dovrebbe geminar scrivendo da lui, da lei, ne la città. E che quest'ultima (la cui regola deono seguitare l'altre) con semplice l si scriva con ragione, dimostraloci Dante nel canto XVII del Purgatorio dicendo: “Questo è divino spirito che ne la Via d'andar su ne drizza sanza prego E col suo lume se medesmo cela”, havendo vela per terza concordante rima, che discordante con l'altra sarebbe, se lla geminata consonante le due sillabe dette congiongesse. Il medesimo si vede nel canto XI del Paradiso ove dice: “Poi che ciascuno fu fermato ne lo Punto del cerchio in che avanti si era, Firmosi come a candelier candelo”. Ma volendo alcuno seguir con la penna almeno, la tosca lingua con la maniera che nell'opre del certaldese scritto si legge, e ancho tra lli poetici volumi, nelle prose le dette geminationi useremo. Pur come grammatico tanto voglio haverne detto. In questa voce Hannibale, l nella volgar lingua si gemina nelle rime massimamente, come Petrarca nel Triumpho della Castità: “Non fu 'l cader di subito sì strano Dopo tante vittorie ad Haniballe”; e scrivesi con solo n perché lo accento si fa sulla penultima; e così a Bologna dove tali nomi infiniti sono si pronontiano, e scrivonsi communamente, perché come detto habbiamo disopra, la penna della lingua è seguitatrice; ma quando lo accento, è sulla prima sillaba con doi n e solo l si scrive, come Dante nel canto VI del Paradiso: “Che di retro ad Hannibale passaro”, ove se scritto fosse con l geminato bene non starebbe il verso, e poco meglio quello del Petrarca: “C'Hannibale, non ch'altri, farian pio”; e così scrivono gli dotti, removendo però alcuni la aspiratione che duro è a molti persuadere contra il commune uso il quale io non mi rimarrò di seguitare per hora. Vasello con l geminato si scrive, e overo diminutivo di questo nome vaso, o primitivo che si sia, picciol barca oltre la sua propria e volgar significatione dinota forse quasi fasellus vocabolo latino: Dante nel canto II del Purgatorio: “e quei sen venia a riva Con un vasello snelletto e leggero”; e nel canto XXVIII dell'Inferno: “Gittati seran fuor di lor vasello E macerati presso alla Catolica”, cioè che gettati sarian fuor della lor barca, e annegati, perché la propria significatione di questo verbo macerare, è tale, come in più lochi si pò vedere nelle novelle di messer Giovanni Boccaccio, onde il Landino male quel loco interpretando disse, che l'anime loro saranno cacciate del corpo che è come vasello dell'anima. Daniello per rima disse Dante con l geminato dando per concordanti rime bello e ruscello. Felle ancho invece di fele pose per rima nel Paradiso. Molti altri sono che la gemination loro, da se stessi quasi dimostrano, onde non mi affaticherò nel trascriverli. Puntello nome e verbo: Petrarca: “Sì il cor teme e speranza mi puntella”, ove li testi del Petrarca sono corrotti che dicono: “Sì el cor tema”, che saria senso contrario, perché puntellare è sostentare, e la tema non sostenta, ma la speranza.

M

Come l'altre, questa consonante si gemina nelli compositi, sì come ammaestrare, ammonire, ammirare, ammogliare, ammantare, onde error sarà di stampa nel sonetto CCLVII del Petrarca ove è scritto: “L'altr'è sotterra, che' begli occhi amanta”; e altrove: “Felice terra che' begli occhi amanti”, con semplice m in l'uno e l'altro loco; ma bene è posto nel canto XX del Paradiso ivi: “O dolce amor che di riso t'ammanti”; e altrove: “Un corollario voglio che t'ammanti”. Il medesimo dico di ammentare che è riducersi a mente: Dante: “Se ti ammentasse come Meleagro”, come rammentare, gemineranno tal consonante, come Dante nel canto XXXIII del Purgatorio: “hor ti rammenta”; e così nel canto X del Paradiso; Petrarca altrimenti: “Ramenta lor come hoggi fosti in croce”; e altrove: “E mi ramenta”. Geminasi ancho in questo verbo ammendar, benché si legga nel Petrarca: “Dunque per amendar la lunga guerra”; e nel Triumpho del Tempo: “Mentre emendar potete il vostro fallo”. Amorzare e ammortare, con geminato m per la ragion predetta si scriverà, come nel canto XIV dell'Inferno: “O Capaneo, anchor che non si ammorza”; e altrove: “Che sopra sé tutte fiammelle ammorta”; nondimeno nel sonetto CCIX del Petrarca con m semplice si legge: “Subito allhor che l'acqua il foco amorza”; ma forse non per trascuragine della regola, ma per fugir la durezza della geminatione delle consonanti. Ammorbare, verbo non attivo come volgarmente si dice, costui mi ammorba, io mi ammorbo, overo io mi ammalo, quello si ammala ma io ammalo, quello ammorba; e così si usa questo verbo infirmare; del primo Petrarca nel Triumpho della Castità: “Come huom che è sano e in un momento ammorba”, e de questo e degli altri dui più essempi sono nel primo capitolo della prima giornata delle dieci, ma questa è materia del quarto libbro però non mi estendo più quivi. Geminasi medesimamente questa consonante regolarmente quando nelli passati tempi, questo pronome mi posposto è giunto al verbo, come parlommi, trovommi, e ancho nelli presenti, come emmi, fommi, fammi, stammi, dimmi: Petrarca: “Là 've dì e notte stammi”; “Piovommi amare lagrime dal viso”; “parlando vommi” disse Dante. E in tutti li verbi sincopati delli passati tempi come noi venimmo, noi leggemmo, noi vedemmo, in loco di leggessimo, venissimo, di vedessimo; fummo di fossimo, come Dante nel canto X del Purgatorio: “Poi fummo dentro al soglio della porta”; e nel canto XXXIII dell'Inferno: “Possa che fummo al quarto dì venuti”; e posto così in rima nel canto VII dell'Inferno: “Fitti nel limo dicon: Tristi fummo”, dandogli licentiosamente per concordante rima questo nome fumo il quale, e nel latino, e nel volgare con semplice m si scrive: Petrarca: “Ciò che poi vidi fu sogni, ombra e fumi”; e questa medesima geminatione in molti lochi di Dante tra suo' versi mal posta si trova, come nel canto VIII: “Se 'l fummo del pantan nol ti nasconde”; e nel canto IX: “Per indi ove quel fummo è più acerbo”; e nel canto XV: “Il fummo del ruscel disopra aduggia”; e nel medesimo canto: “Et ecco a poco a poco un fummo farsi”. E tale errore hanno moltiplicato così gli stampatori per auttorità di quella rima. Nella persona terza singolar, fummi con ragion dir si deve, sì come credo haver lasciato il Petrarca nel sonetto CXCVIII: “Fummi il ciel e amor men che mai duro”. Dante nondimeno questa nelle rime, semplice sempre pone, come nel canto X del Paradiso: “Maestro fumi”; e nel canto XIII: “Del poverel di Dio narrata fumi”; e altrove: “Risposto fumi”. Immagine e immaginar verbo, e giammai, e femmina, si ritrovano scritti in antichi libri, e da dottissimi moderni con m geminato ad hora, e ad hora con semplice; medesimamente commune, anchor che io ne l'ultimo, segua l'uso, dal latino non diforme. Negli altri, ragion non veggio che con solo m non si deggiano, o al meno sanza riprensione non si possino scrivere.

N

Seguendo questa consonante la general regola dell'altre, geminasi in compositione della prepositione precedente come annoiare, annottare per farsi notte, sì come aggiornar per farsi giorno, annuntiare, annidare, innanzi, innamorato, e altri tali, come assannare da questo nome sanna derivato, annoverare. Rinovellar quantunque composito sia, si scrive con solo n come nel canto XXXIII dell'Inferno: “Tu voi ch'io rinovelli”; e ne l'ultimo del Purgatorio: “Rinovellate di novella fronde”. La ragion di che pò esser si è, perché come dicemmo disopra quando questa particola ri- preciede in compositione, la consonante non segue geminata, onde error di stampa esser diremo nel canto XX del Purgatorio, ove si legge: “Tu queste degne lode rinnovelle”. E le terze persone del plural indicativo del presente e del futuro, quando le terze persone predette dello indicativo del presente modo sono di due sillabe, come hanno, harranno, fanno, faranno, danno, daranno, ponno, potranno, traggesi fuore la terza plural persona di questo verbo sono che con n semplice si scrive, come la singolar, e dicesi io sono e quelli sono, e dimostralo Dante così scriver doversi nel canto XV dell'Inferno dicendo: “Né per tanto di men parlando vommi Con ser Brunetto e dimando chi sono Li suoi compagni”, ponendo per concordanti rime suono, e buono; e né dagli antichi si trova posto, né tra versi o prose de' dotti moderni altrimenti scritto. Nel plural del futuro seguendo la norma degli altri have questa consonante geminata, e scrivesi saranno, e nel modo imperativo nella singular seconda persona, come fanne, dinne, danne, nel preterito come enne e venne e fenni e tenne; tutti quelli nomi li quali nel latino hanno m dinanzi a n sì come sonno, autunno, scanno, e quelli che nel latino hanno tal consonante geminata. In sonno, non dico verbo, ma nome, che da' latini è detto somnus, e quello che è detto somnium sogno si dice nella volgar lingua, e il verbo sognar: Petrarca: “Sogni d'infermi”; e altrove: “sogni, ombre e fumi”; e: “Quasi sognando”; e Dante: “Come è colui che 'l suo dannaggio sogna E sognando disidera sognare”. Dunque diremo che error manifesto sia di stampa nel sonetto che incomincia Beato insogno e di languir contento né sarebbe iscusatione dell'errore, dire che fossono due parti in sogno, e che 'l Petrarca non chiamava beato lo insogno, ma sé nel sogno, perché niuna delle seguenti parole di tutto il sonetto si pò accommodar a sognante, onde la vera lettura è per mio giuditio, e così credo lasciasse di sua mano il Petrarca scritto: “Beato i' sono e di languir contento”, perché in tal modo il sonetto seguita bene, che legendosi insogno nulla direbbe di corrispondente. Donna medesimamente have n geminato, e come che per dinotatione di sesso solo, talhora si ponga è nome sincopato da questa voce latina domina, et è nome di honore, come donno il quale è sincopato da domino, e ciò chiaramente dimostra il Petrarca in lochi infiniti e massimamente nel sonetto che incomincia Quando giunge per gli occhi al cor profondo L'imagin donna, cioè signora, come volgarissimamente si dice, e non è caso vocativo, né sono parole dette ver' madonna Laura, come sognando interpretano li commentatori, onde nel canto XXVII del Purgatorio diremo quelle stampe esser in ciò corrotte che dicono: “mi parea Dona veder andar”. Donno pone il Petrarca nella canzone XLVII: “Per inganno e per forza è fatto donno Sovra miei spirti”; e Dante nel canto XXII dell'Inferno: “C'hebbe i nimici di suo donno in mano”; e nel canto XXXIII: “Questi parea a me maestro e donno”. Geminasi questa consonante in questi nomi senno, quando saper dinota, inganno nome e verbo, spanna; anello alcuni con questa consonante geminata scrivono il che a me non piace, per la durezza della doppia geminatione in voce di tre sillabe, per schifamento della quale come si pronuntia, così ancho scriverassi Haniballe con solo n. Convenne, e convennette preteriti tempi di questo verbo convengo cioè bisognami, overo convegno cioè mi confaccio, come lo pone Dante nel canto ultimo dell'Inferno dicendo: “E più con un gigante io mi convegno Che giganti non fan con le sue braccia, Vedi hoggi mai quant'esser dee quel tutto Che a così fatta parte si confaccia”, onde mi maraveglio che 'l Landino il corrotto testo seguendo, che diceva: “Io ti convegno”, facesse così nuova interpetratione contra la mente espressa dell'auttor dicendo: “Io ti convegno, io ti convento e prometto, che quello che si vedeva era più che un gigante”. Geminasi parimente in gonna.

P

Non partendosi questa dalla norma regolare dell'altre consonanti nella compositione si pone geminata, come appoggio, appiglio, appresso verbo e nome, e appo che è di medesima significatione. Dopo con sola consonante si scrive, come dimostra il Petrarca nel capitolo primo del Triumpho della Fama: “L'un giva inanzi e dui venivan dopo”; e Dante nel canto XXIII. “Taciti e soli sanza compagnia, N'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo”; e altrove: “Ma forsi riverente, agli altri dopo”; e così altrove; e nel mezzo de' versi in molti lochi, come nel canto XXXII del Purgatorio: “Gli altri dopo il Grifon sen vanno suso”, onde da corregersi diremo li lochi ove altrimenti è scritto come nel canto III del Triumpho dell'Amore: “E come tardi doppo il danno intendo”; e nel sonetto CLXXI: “Rimaner, doppo noi, pien di faville”; e Dante nel canto XIV del Paradiso: “E cui sì cominciar doppo lui piacque”; e ne l'ultimo verso del canto XXVII: “E vero frutto verà doppo il fiore”; e così altrove. Appalesare, appropiare, appiattare, apparere, e altri simili; appuntare verbo, sì come nel canto VI del Paradiso: “Hor qui a la quistion prima si appunta La mia risposta”, e come Petrarca pone dicendo: “Mille trecento ventisette, apunto”, che nelle prose boccacciane appunto si legge. In questo verbo composito trapasso tra molti lodevoli scritti veggio il p geminato, ma a me con semplice più convenevolmente parmi scriversi perché come di sopra dicemmo, regolarmente, questa particola tra- a sola consonante si propone, come trabocco, traduco, trametto, traluno e altri simili; e se 'l mi si opponesse che in trapporto e traccorro pur così scritto si legge, direi che non con questa particola tra- ma con trans- sono compositi, onde puote scriversi trascorro e trasporto, non transcorro, né transporto perché come è detto nella prima regola della orthographia, tra due vocali, non si pongono tre consonanti, e si puote ancho, anzi si deve s mutar nella seguente consonante in tal compositione, e scriver traccorro, e trapporto. Geminasi medesimamente questa consonante nel preterito perfetto di questo verbo so nello modo indicativo, nella prima e terza persona e scrivesi io seppi, colui seppe, e nel modo soggiontivo sappia e sappiamo, e sappiate e sappiano. Così la prima e terza persona singular del preterito dell'indicativo di questo verbo rompo, e medesimamente la terza del plural geminaranno la consonante, scrivendosi io ruppi, quel ruppe e quegli ruppero, e così gli altri simili. Viluppo e gli altri tali che hanno il p geminato nella persona prima dello indicativo così lo conserva per l'altre, e per gli altri tempi. Geminasi nelle seguenti voci: intoppo, gualoppo, zoppo, opposito, appetito, e in tutti li nomi e verbi dal latino descendenti che quella habbino geminata, perché nella volgar lingua si doppia in molti nomi e verbi, la consonante la quale si trova scempia nella latina, ma di rado si scempiano le doppie, onde oppenione, appena seguendo gli antichi libbri toschi e secondo la tosca pronuntia scriveremo. Appellare con questa consonante (il latino in ciò seguendo) doppia si scrive, e il medesimo rappellare, che richiamare dinota, però che oltre la signification vulgare di questo verbo, che è colui si appella, cioè si nomina come pone il Petrarca nel Triumpho della Castità dicendo: “Era il grand'huom che di Africa si appella”; e Dante nel canto XIV dell'Inferno: “In mezzo il mar siede un paese questo, Diss'egli allhora, che si appella Creta”; e così in molti altri lochi, significa provocare e chiamare, et è tal verbo usato da' nostri antichi iure consulti in tal significatione, con lo accusativo caso da poi sanza prepositione; e in tal modo usalo il Petrarca la cui proffessione prima fu delle leggi, come esso medesimo ne rende testimonianza nella canzone XLVII ove in persona di Amor parlando contra sé disse: “Quest'in sua prima età fu dato all'arte Di vender parolette, anzi menzogne”; nel sonetto XXVI ove dice: “E gli amanti pongea quella stagione, Che per usanza a lagrimar gli appella”. Quindi il verbo rappellare che richiamare dinota, come nella canzone XXXIII dicendo: “e sosterrei, Quando il ciel ne rapella, Girme con ella in sul carro d'Helia”, dove corrotte penso le corsive stampe, nelle quali con semplice p tal verbo si legge nel detto loco.

R

Non altrimenti nelli compositi, si doppia questa, che si facciano le altre sopratoccate consonanti, come arresto, sorrido, arrivo, arrisco, e altri simili; e li sincopati dove intravene, come parerà parrà, venirà verrà, rimanerà rimarrà, haverà harrà, torrà, torrei, vorrà, vorrei; così nell'altre persone, e altri verbi simili; e geminasi in tutte le voci le quali si trovi nel latino geminate; e similmente sincopandosi (come è in uso) questo nome honoranza horranza: Dante nel canto IV dell'Inferno: “Chi son costor c'hanno cotanta horranza”, e poco innanzi havea detto che: “C'horrevol gente possedea quel loco”, cioè honorevole, e altrove: “Fosser le nozze horrevoli e intere”. Aringo (per mio giuditio) con solo r scrivesi, e così ho veduto scritto in antichi libbri delle cento novelle, e corso propriamente dinota, come lo auttore loro nel prohemio della IX giornata dimostra, dicendo: “Madonna, assai m'aggrada puoi che vi piace che per questo campo aperto e libero nel quale la vostra Magnificenza n'ha messi nel novellar d'esser colei che corra il primo aringo”; e Dante nel canto primo del Paradiso: “In fin a qui l'un giogo di Parnaso Assai mi fu; ma hor con ambi dui Huopo mi è 'ntrar nell'aringo rimaso”, cioè la cantica del Paradiso che ha bisogno di molto maggior dottrina e arte e ingegno che li precedenti dui; e chiamalo il terzo corso, come per metaphora nel principio del Purgatorio: “Per correr miglior acqua alza le vele Homai la navicella del mio ingegno”; onde molto è lontana dal vero sentimento la 'spositione del Landino nel predetto loco ove così dice: “Aringo in toscano significa pulpito e logo elevato, onde noi dicciamo ringhera; adunque per similitudine chiama il giogo aringo”, perché oltre che non possi quadrar al senso che per aringo intenda il giogo, dicendo che con ambi dui gli era huopo entrar nel rimaso aringo, quel loco ellevato che egli dice che così si chiama per similitudine dal corso si dice della oratione, perché in molti vocaboli il loco riceve il nome dalla cosa che vi si fa, come contione che è il loco dove ascende l'oratore, e la istessa oratione, e per similitudine del corporeo corso, si dice il corso della oratione, e la oratione corrente, onde tal loco così sarà nominato da aringo, cioè dal corso delle orationi le quali vi si recitano. E che corso propriamente dinoti, overo come dicono i napolitani una carrera, dimostralo più chiaramente il Boccaccio nello essordio della novella del Conte d'Anversa dicendo: “Ampissimo campo è quello per lo quale hoggi spaciando andiamo, né ce n'è alcuno che non che uno aringo, ma diece non ci potesse assai leggermente correre”, e il medesimo dice altrove, ma questi essempi (a mio parer) sono bastevoli, onde più non ne trascriverò.

S

Doppia si ponerà questa lettera, come le precedenti, quando sarà con prepositione composita, come assido, assecuro, assalto, e in gli altri simili, come assenno verbo, far altrui di alcuna cosa saggio significante, come mostra Dante in persona di Virgilio parlando nel canto XX dell'Inferno: “Però t'assenno che se tu mai odi Originar la mia terra altrimenti, La verità nulla menzogna frodi”. Quindi assennato, per savio e forsennato per stolto: Dante nel canto XXX dell'Inferno parlando di Hecuba, disse: “Forsennata latrò sì come cane”. E assannar verbo che mordere dinota, e tener co' denti fermo da sanna nome disceso: Dante nel preallegato canto: “e in sul nodo Del collo l'assannò sì che tirando Grattar gli fece il ventre al fondo sodo”. E assonnar che adormentar significa, come dissonnar svegliare: Dante nel canto XXVI del Paradiso: “E come al lume acuto si dissonna”, havendo altrove detto: “come huom che assonna”. E geminasi nelle voci nel latino geminantisi o dove x vi sia come fisso, Narcisso: Petrarca: “Ma s'i' v'era con saldi chiovi fisso”; e poi: “Certo, se vi rimembra di Narcisso”; Dante nel canto XXX: “Che per leccar il specchio di Narcisso”, come che si legga tra scritti di lodevolissimo moderno scrittore con solo s. E quando b nel latino è dinanci da s si gemina come assolto; in questo nome messo quando per nontio si pone; assentio. Altressì, per medesimamente male è stampato nelle corsive lettere con questa consonante geminata nel canto XIX dell'Inferno: “Là giù cascherò io altressì, quando Verrà colui”, perché con solo scriver si deve, e così in corretti testi si legge, et è ragionevole. Così è medesimamente male impresso questo nome visaggio con s geminato nel canto XVI dell'Inferno ove si legge così: “rotando ciascuna il vissaggio Drizzava a me”, perché da viso discende, che con solo s si scrive. Questo nome Thommasso con s geminato è posto in rima da Petrarca nelli Triumphi, e ancho da Dante, ma esso medesimo nel canto XIV del Paradiso disse: “La gloriosa vita di Thommaso”. Ma come disopra dicemmo quello si pone in rima che altrimenti non si ponerebbe.

T

Questa consonante non uscendo della regola dell'altre sue compagne, geminata ven posta nel principio delle voci alle quali in compositione si proponga prepositione, come attuffare, attentare, attristare, attempare come lo pone il Petrarca dicendo: “Che a dir il ver homai troppo m'attempo”, cioè tardo. In questo istesso modo Dante disse: “Che più m'increscerà com' più m'attempo”. Attuiare verbo con doppio t (per quanto a me ne paia) intricare overo offuscare dinota secondo il sentimento di Dante nel canto ultimo del Purgatorio ove dice: “Ma forse che la mia narration, buia Qual Themi e Sphinge, men ti persuade, Perché a llor modo lo intelletto attuia”, ove il Landino seguendo testo corrottissimo legge: necte e persuade, e lo intelletto accuia; e interprettandolo dice: “Perché infino a qui Beatrice ha parlato con obscurità però sobgiungne dicendo forse che la mia narratione è buia e tale quelle necte, cioè congiungne e conlega e persuade. Themi e Sphinge le qual davon le risposte loro sì obscure che è necessario d'acutissimo interprete a intenderle, et è così obscura la mia narratione, perché epsa acuia, cioè s'assotiglia e fa assotigliare lo 'ntellecto al modo loro”. Queste sono le parole sue trascritte, come esso le scrive; quanto si convengano al vero sentimento ognuno pò giudicare. Attorgere e altri simili segono la norma. Geminasi medesimamente questa consonante nelle voci dalle latine derrivanti, nelle quali si trovi geminata, trahendone lito, benché non manchino latini che vogliano ancho nella latina lingua scriversi con solo t. Geminasi nelle mutationi delle consonanti delle quali dicemmo nella prima regola della orthographia, come attivo, ottengo, dotto e dotta, quando scientiato dinota, e quando ancho la temenza, come pone Dante nel canto XXXI dell'Inferno: “E non v'era mestier più che la dotta S'io non havesse viste le ritorte”; e quindi vene dottanza il medesimo significante, et è il sentimento che la sola paura era bastevole, a ffar morire Dante, se non si fosse rassicurato veggendo il gigante legato; onde la interpretatione del Landino di questo nome, dicendo quello significar breve spatio, e il senso esser che poco spatio mancava a farlo morire, parmi non buona. Cittade nella canzone XXXIII male istà stampato: “per citadi o per castella”; e così in altri lochi; e galeotto. Altrettanto, in fino a ttanto similmente si scrivono; e mattino, onde mattinar verbo dantesco; e questi e simili verbi soggiontivi, o imperativi, come fatti in costà, vattene in pace, e così gli altri tali.

X

Questa lettera connumerata tra le semivocali, nella volgar lingua è poco necessaria, perché in loco di lei s geminato tra due vocali si pone, altrimenti, in molte rime nascerebbe mala concordantia, come in concordar passo e saxo, fixo Narcisso, e altri simili, onde pessimo, massimo, tesso, reflesso, si scriverà. Alcuna volta in c geminato si tramuta, come eccellente, eccetto, eccettione, perché così è la volgare pronontiatione.

Z

Tra due vocali questa lettera si pone regolarmente geminata, come mezzo, sozzo, gravezza, e altri tali, e dopo consonante, sola si pone sempre, come sanza, avanza, e simili. Azurro, Obizo nome proprio, Guizante nome di città, traggonsi della prima regola e alcuni altri simili. Nel principio delle voci di rado si usa, come zephiro, zoppo, zanca, zappa, zaphiro, zanzarra, zelo nel significato che il Petrarca lo pone nel capitolo II del Triumpho della Morte: “Quinci il mio zelo”, e come altri nel latino, ma geloso si dice non zeloso.

IL FINE

 

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