Non valere un’acca
di Laura Biondi
1. Il volgare scritto “lingua regolata”
L’interesse che i grammatici del Cinquecento, fase cruciale per la standardizzazione delle lingue d’Europa, hanno per la scrittura di <h> e per le ragioni che guidano l’uso è parte del percorso di grammatizzazione e costruzione di una norma per il volgare.
Tale interesse riflette l’esigenza di riconoscere dignità di lingua al volgare anche per la comunicazione scritta - letteraria e scientifica - e di attribuirgli prestigio e possibilità pari al latino, stante l’autorevolezza delle esperienze di Dante, Petrarca e Boccaccio. In questo contesto, l’attenzione alla grafia è tanto più profonda perché la variabilità degli usi scrittorî non riguarda solo documenti pratici della ‘nuova’ lingua, ma coinvolge la produzione letteraria, esposta a fluidità formale perché non ha la sistematizzazione propria del latino come grammatica.
L’invenzione della stampa a caratteri mobili, poi, garantisce alle opere volgari circolazione maggiore, ma mette in luce l’inconsistenza normativa e l’incertezza delle scelte di autori e/o editori nelle diverse aree linguistico-culturali (di qui le koinai regionali). Codificare il volgare scritto significa, perciò, sancirne lo statuto di codice “regolato” come il latino e riscattarlo dalla qualifica di illitteralis, che si riferisce ad assenza di scrivibilità e articolazione, attributi di ogni lingua già per gli Antichi. Equivale però anche a cercare omogeneità tra differenti tradizioni scrittorie e a ridurre la variabilità grafica individuando criteri generali che valutino la pronuncia volgare rispetto a quella supposta del latino e come la grafia possa restituirla in modo coerente, stabile, libero dal criterio etimologico allora diffuso. I grammatici del Cinquecento assumono questo duplice compito in forme, spazi, gradi diversi.
(da G. Ruscelli, De’ commentari della lingua italiana … libri sette,, IV, cap. VI)
2. Quanto pesa la tradizione…
Per i grammatici del Cinquecento, il latino e la sua grammatica sono riferimento autorevole noto da testi antichi (Quintiliano, Donato, Prisciano …), artes grammaticae e de orthographia redatti tra Medioevo e Umanesimo. Quello con il pensiero linguistico latino e la riflessione che fino al Quattrocento lo continua è legame imprescindibile per i primi interpreti del volgare il cui ideale (Kukenheim 1932: 88) “è di dare a una lingua una regolarità pari a quella del latino e del greco”. Il latino degli auctores offre un paradigma utile a standardizzare il volgare, che aspira alla scrittura e alla stampa per una letteratura che valichi i confini locali; ma le convenzioni grafiche di quell’eredità linguistico-dottrinale presuppongono e rappresentano condizioni fonologiche diverse da quelle del volgare e dei dialetti italiani che i grammatici conoscono essendone anche locutori: lettere solo in parte identiche per fonemi diversi o assenti nel volgare come ‘acca’. Perciò, il rapporto tra pronuncia e grafia del latino offre un modello per normare il volgare, ma richiede e impone di adattare oggetto, categorie e strumenti descrittivi (Richardson 1984: XLVI) “[…] per tutti gli Italiani, quando si discuteva della lingua volgare, la tradizione della grafia e della grammatica latine era allo stesso tempo un modello utile e un peso da cui era difficile liberarsi”.
3. Fuga per la ‘libertà’
Lo sforzo conseguente a questa condizione emerge nei grammatici, che hanno chiara la distanza ai piani fonetico e grafico, così che qui si giocano il confronto tra i due codici e la rivendicazione di autonomia del volgare. Ciò che Giovan Francesco Fortunio rivendica nelle Regole grammaticali della volgar lingua (Ancona 1516) citando Giovanni Gioviano Pontano è ciò che spetta anche al volgare in quanto scritto (II.78-79: “Ma come dice lo eruditissimo Pontano nel suo libbretto Di aspiratione […] ciascuna natione have il suo proprio modo di pronontiar le sillabe et scriverle”. Fortunio invita a seguire “con la penna non il latino, il quale have pronontiar diverso, ma talmente come nella volgar lingue li vocaboli siano pronontiati”) e illustra “regole” su precise questioni guardando a grammatici e filologi umanisti come Pontano, dal cui De aspiratione trae le voci di cui <h> rivela l’origine dotta. Anche Lodovico Dolce nelle Osservationi nella volgar lingua (Venezia 1550) rimarca reciproca autonomia tra latino e volgare sul piano fonetico: “[…] essendo la Volgar Lingua diuersa dalla Latina, diuerse regole ancora intorno a cio, e diuerso ordine le si ricercano: si perche ella altrimente si pronuntia parlando, e si per che altri uocaboli noi habbiamo” e su questo piano la “nota d’aspiratione” è un tema, benché meno centrale di raddoppiamento consonantico, dittonghi, grado di apertura di e, o (per cui propone una riforma grafica Giovan Giorgio Trissino nella Grammatichetta, 1529), così che a <h> e alle condizioni del suo uso non sono dati lo stesso spazio né la stessa attenzione da chi pure ne tratta. La ragione risiede nello statuto di <h> nel volgare per le vicende fonologiche che investono /h/ latino.
4. Quanto vale un’acca?
Il destino dell'acca è segnato dall’Antichità: <h> è nota aspirationis, non littera. I grammatici di Roma documentano la precoce perdita di /h/, debole e instabile in posizione interna intervocalica e iniziale antevocalica, nel variare diatopico, diafasico e diastratico di un latino ancora idioma nativo. Per Medioevo e Umanesimo il tema è centrale per limitare la variabilità grafica dovuta all’incompetenza di scribi e correttori e per garantire una corretta pronuncia: Guarino Veronese nelle Regulae grammaticales dice di <h> “non est littera sed adspirationis nota” e diffusa nella poesia e nella prosa trecentesche è l’idea che acca vale “nulla, zero”. Il tema non è eludibile per il volgare e basilare è il confronto con il latino (Girolamo Ruscelli, De’ commentari della lingua italiana … libri sette, Venezia 1581, IV, VII.7): “[…] la maggior’importanza della nostra differenza è nella lettera H, perche ella non si sentendo nella pronuntia, et d’altra parte essendo necessaria per più rispetti in molte voci, lascia dubbio negli animi di chi non è ben sicuro delle ragioni ove s’habbia da porre et dove no”. Per Trissino non è “lettera, ma è accento aspirato”; <h> è tra le lettere “inutili” (“mezza” per Leonardo Salviati), “superflue”, “oziose” (per Tolomei come <x k q>) o “ωziωʃe” (nella Grammatica della lingua toscana Giovan Battista Alberti la pone con <x ph th>).
5. Mettiamo regole
Parlare di <h> è distinguere tra grafia etimologica e grafia fonetica: è verificare in quali parole di origine latina <h> può essere scritta ma anche precisare per le parole volgari le condizioni che ne giustificano in base alla pronuncia effettiva e avendo sempre chiaro che <h> risponde a specifiche esigenze legate alla grafia. Si invocano due ordini di fatti per definire regole “sicure et tutte conformi con la ragione” (dice Ruscelli): la ‘memoria’ etimologica e le forme del rapporto grafia-pronuncia nel volgare. Molti testi non sfuggono a tale compito. Fra i primi è De le lettere nuovamente aggiunte libro di Antonio Franci da Siena. Intitolato, Il Polito (Roma 1525) in cui Claudio Tolomei spiega i “tre usi” di <h>:
- il primo è etimologico (“per mantener l’origine de’ vocaboli latini ne’ quali si troua l’aspiratione, et però scriuono hebbi honore, habito honesto […] leggendosi cosi ancora ne la lingua romana”);
- il secondo è fonetico: <ch> e <gh> indicano la pronuncia velare in piaghe, vaghi, anche, chino rispetto al suono affricato palatale reso da <ci/e>, <gi/e> (“per dar forza et polso à queste due lettere c et g quando li sono a lato o vero e o vero i vocali, come si vede in anche, chino, piaghe, vaghi […]; le quali, toltoli via lo h, hauerebbono vn suono molle et languido et quel medesimo a punto che s’ode in cera, cibo, gente, et giro, ch’è pur molto da quel primo differente”). Lo stesso dicono Pietro Bembo (Prose della volgar lingua, II, X: “La h, per ciò che non è lettera, per sé medesima niente può; ma giugne solamente pienezza e quasi polpa alla lettera, a cui ella in guisa di servente sta accanto”), Rinaldo Corso (Fondamenti del parlar thoscano, Venezia 1549: “Reg. II. Colle consonanti dà lor polso. Pochi. Vaghi” “Reg. IIII. […] Per sola cagione di differenza alle uolte ella si scriue, come ghiaccio nome. Giaccio uerbo. Vegghio, contrario di Dormire. Veggio. Guardo”), Dolce, Joannes Davides Rhoesus (Rhys).
- il terzo “uso” è riferito alla spirantizzazione toscana (la ‘gorgia’) o alla velarità (“L’ultima cosa a che da alcuni, non già da tutti è vsata trouo essere per segnar l’aspiratione in alcuna toscana dizione, et però non manca chi scriua luogho et pocho, per mostrar quel fiato, ch’aspira l’ultime sillabe loro. […]”); di fatto contribuisce a dare alla fonetica un valore argomentativo che accompagna la progressiva autonomizzazione del volgare scritto dal latino; ciò fa di <h> un fossile guida per interpretare le vie della grammatica.
Anche Ruscelli enuclea i “luoghi” di <h> (De’ commentarii, IV, VII.8-38). Come per Tolomei, Corso, Alberto Acarisio, il primo è “necessità di suono” che affida a <ch> e <gh> rendere /k/ e /g/ velari davanti a /e, i/ “quando noi vogliamo ingrossar la pronuntia in queste due lettere C et G quando elle sono davanti ad E ò avanti ad I, come volendo noi scriuere Neghittosa, Paghimi, Vaghezza, Chimera, Cherubino […] vi mettiamo la H, perche altrimenti scriuendo Negittosa, Pagimi, Vagezza, Cimera, Cerubino, saria scrittura che rappresenteria suono molto diverso da quello che noi in dette voci proferimo”, <ch> e <gh>”. Il secondo è “variatione di significamento et […] chiarezza d’intelligenza”, l’antico criterio della differentia tra gli omofoni hamo, ho, ha e amo, o, a. Terzo “luogo” è quando <h> dà “un qualche ornamento ò maestà” ai latinismi (IV, VII, 36-38): “[…] Huomo, Honore, Honesto, Honestà, Hieri, Hoggi, Humido, Herbe, Habito nome, Habito verbo, Hispido, Hirsuto, Hoste, Hasta, Heremita, Herede, Heredità […] Hercole, Hieronimo […] si truovano scritti fin qui da molti con l’aspiratione. […] quantunque tale aspiratione in esse non adopri nè differenza di significatione, nè bisogno di suono, nientedimeno si può dire che vi apportino qualche ornamento ò maestà”.
(da Joannes Davides Rhoesus, De italica pronunciatione et ortographia)
L’importanza dei criteri basati sulla pronuncia volgare prefigura il ridursi dello spazio per grafie latineggianti, dove per Ruscelli <h> si può omettere (IV, VII.43-45): “Et dirò ancora che minor male sarebbe il levarla da Huomo et Hieri, come quei dotti Accademici Fiorentini han fatto da tutte, che usarla in Huopo e in Huova. L’altre poi, come Hoggi, Herbe, Heremita […] potrebbono senza danno et senza cosa che l’impedisse lasciar l’aspiratione, et scrivere Oggi, Erbe, Eremita […] poiche non adoprano varietà di suono, non si proferiscono et non sono per differenza da altre voci con le quali potessero assomigliarsi ò pigliarsi in fallo […]”.
Pochi decenni dopo il Vocabolario degli accademici della Crusca (1612) bandirà quasi sistematicamente <h> dai lemmi dotti. L’orizzonte è cambiato da quando Fortunio accoglieva latinismi grafici appellandosi al Pontano e alle esperienze filologico-grammaticali umanistiche (II.64: “Ma nelli principii, essendo voce dal latino discesa, conserverà la aspiratione, come humano, hora, hoggi, huomo, humile et altri simili. Annibal aspirarsi per ignorantia de’ librari et non con ragione dice il Pontano, et il medesimo questo verbo abondo et derivati [...]”). È il percorso di grammatizzazione che guadagna al volgare scritto statuto di codice “regolato”.
Per saperne di più
Louis Kukenheim, Contributions à l’histoire de la grammaire italienne, espagnole et française à l’époque de la Renaissance, Amsterdam, N.V. Noord-Hollandische Uitgevers-Maatshappij, 1932.
Nicoletta Maraschio, (a cura di), Trattati di fonetica del Cinquecento, Firenze, Accademia della Crusca, 1993.
Nicoletta Maraschio, Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione, in Luca Serianni, Pietro Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana, Torino, Einaudi, I, 1993-94, pp. 139-227.
Bruno Migliorini, Note sulla grafia italiana nel Rinascimento, in Id., Saggi linguistici, Firenze, Sansoni, 1957, pp. 197-225.
Brian Richardson (a cura di), Trattati sull’ortografia del Volgare 1524-1526, Exeter, Univ. of Exeter, 1984.
Giulio Vaccaro, Grafia e pronuncia, in Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese, Lorenzo Tomasin (a cura di), Storia dell’italiano scritto, IV, Roma, Carocci, 2018, pp. 203-232.
Laurent Vallance, Les grammairiens italiens face à leur langue (15e-16e s.), Berlin, de Gruyter, 2019.