«Fatti per arte parlanti»: geostoria della didattica dell’italiano parlato ai sordi
di Michela Dota
Rendere i sordi «per arte parlanti»: imposizione o integrazione?
Attualmente la Lingua Italiana dei Segni (LIS) è riconosciuta come lingua a tutti gli effetti, insieme a tutte le lingue dei segni diffuse nel mondo: al linguaggio segnato è riservato ampio spazio nel Volume Complementare del Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue (Consiglio d’Europa 2018/2020: 156-183) e da tempo è divenuto oggetto di apprendimento, al pari di qualsiasi altra lingua straniera, anche da parte degli udenti. La LIS, in particolare, dal 2021 è promossa e tutelata ufficialmente dalla Repubblica italiana. Sono esiti felici di un cambiamento di prospettiva sulla sordità e sul linguaggio segnato, che possono essere annoverati nel più ampio spettro delle azioni tese a costruire comunità sociali più inclusive e attente ai diritti delle minoranze. Un obiettivo che a ben vedere si palesa già all’indomani dell’Unificazione, nelle parole di don Giulio Tarra (1832-1889), educatore e primo rettore dell’allora Pio Istituto dei Sordomuti di Milano: Tarra (1880: 6) scriveva che qualsiasi altro mezzo di espressione che non fosse la parola «del linguaggio nazionale» avrebbe lasciato i non udenti «in una condizione eccezionale, eccentrica, in un perpetuo ostracismo morale e sociale». L’intento di «rigenerazione morale e civile» dei non udenti assumeva allora un’evidenza tanto maggiore, perché veniva a sovrapporsi con gli sforzi di alfabetizzazione dell’intera popolazione che il neonato stato italiano stava compiendo per diffondere in tutta la penisola una lingua nazionale comune, che fosse parlata e intesa da tutti i nuovi cittadini italiani.
I paragrafi che seguono intendono riepilogare la storia di un percorso di integrazione linguistica dei sordi, molto antecedente al più recente riconoscimento della LIS. Sebbene questo percorso sia nettamente divergente dalla prospettiva attuale, tanto nei mezzi quanto nelle soluzioni adottate, la sua stessa esistenza dimostra come l’attenzione ai bisogni educativi speciali, oggi paradigmatica, abbia avuto le sue avanguardie nel passato, nelle persone di singoli educatori illuminati e nella rete di scuole che seppero istituire.
2. Le origini dell’oralismo e la sua affermazione in Italia
L’oralismo, cioè il metodo basato sull’insegnamento della parola parlata ad apprendenti sordi, risalirebbe al monaco benedettino spagnolo Pedro Ponce de Léon (1520-1584), ma iniziative fondate sull’insegnamento della parola articolata emersero successivamente anche in Inghilterra, in Olanda, in Francia e in Germania. In Italia, il primo oralista (ossia il primo esponente dell’oralismo) fu Tommaso Silvestri (1744-1789); formatosi a Parigi, scrisse il primo trattato italiano sull’educazione ai sordi, Maniera di far parlare, e d’istruire speditamente i sordo- e muti di nascita (1785). La sua proposta, sperimentata nell’istituto dei Sordomuti di Roma da lui fondato, non ebbe seguito immediato: negli altri istituti sparsi in Italia, almeno sino al primo Ottocento, prevalse la mimica o in alternativa un metodo eclettico, che poteva cioè contemperare il metodo articolatorio orale con la mimica, con la pantomima, con l’alfabeto manuale e la lettura labiale. Fu solo durante il Congresso internazionale pel miglioramento delle sorti dei sordomuti, tenutosi a Milano nel 1880 e al quale convennero educatori da tutta Europa e da oltreoceano, che l’oralismo fu proclamato metodo preferenziale, da attuarsi in modo esclusivo: il metodo orale doveva, cioè, essere puro, cioè praticato «senza mistura, concomitanza o precedenza d’altri mezzi che possano in qualunque modo attenuare o intralciare l’impressione e l’efficacia della viva parola», come sosteneva Tarra (1880: 14) nell’opera Cenni storici e compendiosa esposizione del metodo seguito per l’istruzione dei sordomuti poveri d’ambo i sessi della provincia e diocesi di Milano. Nel manuale il sacerdote milanese esponeva i principi del suo metodo per rendere i sordomuti «per arte parlanti», secondo una sua celebre formula, dove «l’arte d’istruire i sordo-muti» (Tarra 1879: 999) è da lui intesa come ramo della pedagogia generale. Il metodo muove dall’«insegnamento della nomenclatura e dei primi giudizii pratici sulle cose», per proseguire con l’insegnamento del verbo, «dei rapporti o nessi logici» fino ad arrivare alla sintassi complessa. L’ordine di esposizione degli argomenti, anche grammaticali, finiva per discostarsi dalle consuetudini glottodidattiche coeve praticate nelle scuole elementari del Regno d’Italia. Il metodo di Tarra, infatti, non aveva per obiettivo la conoscenza della grammatica dell’italiano come sistema astratto, bensì la conoscenza graduale degli elementi e delle categorie grammaticali che permettessero a un apprendente, inesperto per patologia con la parola parlata, di articolare frasi e pensieri progressivamente più complessi, a partire dai più semplici bisogni comunicativi quotidiani. Le prime singole parole pronunciate erano già di per sé una conquista, poiché tutto il lavoro sulla lingua poteva darsi soltanto quando fosse ultimata la preliminare riattivazione dell’apparato fonatorio e la progressiva acquisizione del modo di articolare i fonemi (cioè i suoni) dell’italiano.
3. Insegnare a parlare italiano o dialetto?
Nel quadro delle riflessioni innescate dal Congresso di Milano, non è un dettaglio secondario la netta preferenza per la lingua nazionale, a scapito dei dialetti, che allora costituivano la principale – e spesso unica – lingua usata quotidianamente dalla società italiana parlante dell’epoca. Per alcuni educatori, infatti, il dialetto rappresentava una scelta plausibile, anzi auspicabile in certi contesti. La preferenza accordata al dialetto non proveniva da un desiderio di tutelare le parlate vernacolari, bensì dalla consapevolezza che i dialetti erano ancora predominanti nella comunicazione di tutti i giorni e, quindi, negli ambienti in cui verosimilmente si sarebbe inserito l’apprendente sordo. Così Pasquale Fornari (1837-1923), insegnante e poi direttore del Regio istituto per i sordomuti di Milano, propendeva per l’istituzione di tre tipi di scuole, rispettivamente «pei fanciulli di condizione civile, per quelli della classe operaja e pei contadini»: ai primi si sarebbe senz’altro insegnato l’italiano nelle istituende scuole nazionali; per i secondi, inseriti nelle scuole regionali, l’italiano sarebbe stato affiancato dai dialetti regionali; per gli ultimi, invece, l’insegnamento dell’italiano parlato sarebbe stato «inutile, ridicolo, dannoso ed irrisorio»: i sordi figli di contadini avrebbero dovuto imparare «a parlare ed intendere il dialetto della provincia e a leggere lo stampato e lo scritto per via di traduzione» (Fornari 1872: 36). È facile immaginare che la connotazione classista del progetto di Fornari, pure ispirato da un solido pragmatismo ancorato al presente, finiva per aggravare l’emarginazione dei sordi, soprattutto dei più sfortunati. Viceversa Tarra, consapevole che la lingua è uno strumento di integrazione e partecipazione alla vita sociale, non esitava a dichiarare che «quando si tratta d’istruzione e di educazione primaria, non c’è aristocrazia di forma, né divisione di classi. La lingua nazionale italiana, come l’istruzione, è un diritto di tutti i figli del bel paese a qualunque condizione appartengano»; se «il sordo, anche povero, parlerà coi vocaboli della lingua nazionale, sarà compreso da tutti», anche perché, nella più lungimirante prospettiva di Tarra, «la crescente istruzione comunale ne andava sempre meglio propagando l’intelligenza e l’uso anche nel popolo artiero e campagnuolo» (Tarra 1875: 754).
4. Geostoria dell’oralismo in Italia
Il Pio Istituto dei sordomuti di Milano non fu l’unica istituzione a farsi promotrice dell’oralismo a base italiana: molti altri istituti, ed educatori, sparsi su tutta la penisola, impiegarono il metodo orale (più o meno puro), spesso come metodo elettivo. Prima di Giulio Tarra e durante l’Ottocento, a Siena Tommaso Pendola (1800-1883), a Verona Antonio Provolo (1801-1842), a Modena Severino Fabriani (1792-1849) insegnarono ai sordomuti a parlare e divulgarono il metodo attraverso manuali operativi e interventi sulla stampa specializzata; a questo proposito si può ricordare il periodico L’educazione dei sordomuti, fondato da Pendola nel 1872 e arrivato ai giorni nostri col titolo l’Educazione dei sordi. Ma ancora a Cagliari, a Napoli, a Trapani e altrove si distinsero altri istituti ed educatori che traghettarono l’oralismo al XX secolo, arricchendo la manualistica per i non udenti con sillabari e libri di lettura. Sono proprio del primo decennio del Novecento le tre grammatiche per i miei sordomuti redatte da Ignazio Antonio Argiolas (1834-1914), direttore dell’istituto per sordomuti a Cagliari. Nei tre volumi (rispettivamente del 1908, 1909 e 1910) l’insegnamento della grammatica – preceduto dalla didattica della conversazione – è condotto, come raccomandava Tarra, in modo pratico, «senza definizioni, senza regole, contenente solo la così detta nomenclatura grammaticale» (Argiolas 1908: 3-4).
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Frontespizio della Grammatica dei miei sordomuti (per la seconda classe), corrispondente al terzo e quarto anno d’istruzione (Argiolas 1908: 5)
Sebbene l’impostazione glottodidattica di Argiolas non segua alla lettera la metodologia oralista originale, le sue grammatiche confermano come tutto il programma di lingua italiana continuasse a concorrere all’apprendimento di un italiano parlato comune, lo stesso cui pure puntava – almeno nelle intenzioni – l’intero sistema scolastico elementare.
Per saperne di più
Antonio Ignazio Argiolas, La grammatica dei miei sordomuti (per la seconda classe), Cagliari, Tip. Meloni e Aitelli, 1908.
Consiglio d’Europa, Common European Framework of Reference for Languages: learning, teaching, assessment. Companion volume, Council of Europe Publishing, Strasbourg, 2018 [Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: apprendimento, insegnamento, valutazione. Volume complementare, traduzione italiana a cura di Monica Barsi e Edoardo Lugarini, «Italiano LinguaDue», vol. 12, n. 2, 2020. Disponibile in rete al collegamento
https://riviste.unimi.it/index.php/promoitals/article/view/15120/13999]
Pasquale Fornari, Il sordomuto che parla. Osservazioni e note, Tipografia dei fratelli Rechiedei, Milano, 1872. Disponibile in rete al collegamento
Guido Pesci, Simone Pesci, Le radici della pedagogia speciale, Roma, Armando, 2005.
Massimo Prada, Giuseppe Polimeni (a cura di), Imparare l’italiano. Un bisogno educativo speciale da Giulio Tarra a oggi. Atti delle giornate di studio dedicate a Giulio Tarra (Milano, 2016-2017), in «Italiano LinguaDue», vol. 11, n. 2, 2019, pp. 499-670. Disponibile in rete al collegamento https://riviste.unimi.it/index.php/promoitals/issue/view/1476
Giulio Tarra, Dell’insegnamento dell’obbietto ai Sordo-Muti fatti per arte parlanti, in «Rivista della beneficenza pubblica e degli Istituti di previdenza», vol. 7, n. 11, 1879, pp. 998-1004. Disponibile in rete al collegamento http://emeroteca.braidense.it/ricerche/risultati_ricerca_articoli.php
Giulio Tarra, Della semplicità del mezzo per istruire i Sordo-Muti, in «Rivista della beneficenza pubblica e degli Istituti di previdenza», vol. 3, n. 9, 1875, p. 745-754. Disponibile in rete al collegamento http://emeroteca.braidense.it/ricerche/risultati_ricerca_articoli.php
Giulio Tarra, Cenni storici e compendiosa esposizione del metodo seguito per l'istruzione dei sordo-muti poveri d’ambo i sessi della provincia e diocesi di Milano, Tipografia di S. Giuseppe, Milano, 1880. Disponibile in rete al collegamento
https://archive.org/details/gu_atticongressoi00inte/page/n325/mode/2up