«Per non iscoprirti Talpa»: i Lumi della lingua italiana (1652) di Agostino Lampugnani - Andrea Cortesi

«Per non iscoprirti Talpa»: i Lumi della lingua italiana (1652) di Agostino Lampugnani

Andrea Cortesi

 

Introduzione

«Ricevili tu lietamente, se non per altro, per non iscoprirti Talpa, che s’offende dalla vista della Luce, e vivi felice». Così conclude la sua premessa l’editore bolognese Carlo Zenero nel pubblicare, nel 1652, i Lumi della lingua italiana, giocando acutamente con il titolo dell’opera. Che cosa c’entra infatti una talpa con una grammatica? Nulla, in realtà: è solo parte di una delle tante metafore con cui in passato si era soliti trattare di argomenti linguistici, retorici, grammaticali, facendo leva sull’immagine della luce della conoscenza che illumina le tenebre dell’ignoranza (di cui la talpa, essendo quasi cieca, è la rappresentazione).

 

                                                  

Il frontespizio dell’opera e la lettera dello stampatore ai lettori.

 

L’autore dei Lumi si firma come Fuggitivo Academico Indomito, pseudonimo sotto cui si cela il religioso milanese Agostino Lampugnani (1586-1666), membro dell’Accademia veneziana degli Incogniti e autore di opere storiche e di argomento sacro (ma anche più che mai mondane, come il trattato Della carrozza da nolo, overo Del vestire, et usanze alla moda del 1648). Quello di Lampugnani, che si era già occupato di lingua nella sua Lettera intorno alcune difficoltà della lingua italiana (Bologna, 1641), è un nome oggi ignoto ai più, ma può perlomeno vantare un’illustre citazione all’interno dei Promessi sposi e nella Storia della colonna infame, dove Manzoni fa esplicito riferimento a una sua opera storica, La pestilenza seguita in Milano l’anno 1630, evidentemente utilizzata come fonte (Cirilli 2004).

Tornando ai Lumi, l’opera rappresenta l’ultima fatica di Lampugnani, che ha pensato di comporla a beneficio «della studiosa Gioventù» (impersonificata da un ipotetico «Candidato» a cui si rivolge alle pp. 32-33), sempre più persa tra dubbi e incertezze di lingua. D’altronde, chi non ha mai pensato che lo scrivere correttamente in italiano sia molto faticoso? Era della stessa opinione lo stesso Lampugnani quando dichiara in apertura: «Onde per far buon giuoco, eccomi in aringo a dimostrare, quanto faticoso sia lo scriver bene, e regolatamente nell’Idioma Italiano» (p. 31). Per fortuna, quindi, in nostro aiuto accorre proprio l’accademico indomito, che promette di fornirci regole «brevi, chiare, e facili» (p. 33).

Il trattato è diviso nettamente in due parti, tanto che, in principio della seconda sezione, è inserita una nuova prefazione. La prima parte, intitolata Regole abbreviate della Lingua Italiana, è di fatto una (breve, appunto) grammatica, che segue uno schema molto diffuso all’epoca: si parte, nella sezione Delle lettere, e loro divisione, dall’esame delle singole lettere (incrociando sullo stesso piano aspetti legati alla pronuncia e all’ortografia), per dedicare poi la maggior parte dello spazio alla rassegna delle parti del discorso (sezione Delle Parti dell’Oratione), divise tra parti variabili: articolo (che viene affrontato per primo anche se non rientra, secondo l’autore, pienamente tra le parti del discorso), nome, pronome e verbo (l’aggettivo non era ancora percepito come una parte autonoma, ma come una sottospecie del nome), e parti invariabili: preposizione, avverbio, congiunzione e interiezione. Il tutto è aperto da una lunga introduzione di 25 pagine (praticamente un terzo del trattato!) in cui l’autore tratta di vari aspetti legati alla questione della lingua.

 


 

Non aprite il «fondaco de’ Dubbi»!

La nostra attenzione viene attirata maggiormente dalla seconda parte dell’opera, intitolata Sessanta Dubbi Intorno ad alcune difficoltà della Lingua Italiana, sezione perfino più ampia di quella occupata dalle regole grammaticali.

L’idea di Lampugnani è interessante: affrontare non più tutti i settori grammaticali in modo sistematico e seguendo un ordine prestabilito, ma soffermarsi più distesamente su alcuni temi caldi, raccolti in un “magazzino”, in un “deposito” delle incertezze, quello che lui chiama il «fondaco de’ Dubbi»: una scelta che ci restituisce un’istantanea dei punti giudicati critici nella riflessione grammaticale dell’epoca. Questa impostazione, in fondo, è ancora attuale: quanti libri vengono pubblicati, anche oggi, che promettono di risolvere annose questioni grammaticali?

Ai nostri giorni, i dubbi più numerosi riguardano l’ortografia: le incertezze su come scrivere una certa parola (o certe sequenze di parole) assillano infatti anche gli italofoni più esperti. Questa attenzione si spiega con il fatto che oggi l’ortografia è il settore più sanzionato socialmente, essendo anche quello più stabile e più rigidamente prescrittivo: basta un’h fuori posto o un apostrofo sfuggito nella sequenza qual è per essere tacciati di becera ignoranza. Nel Seicento l’impianto ortografico dell’italiano era sensibilmente più instabile e pieno di oscillazioni, per cui commettere errori ortografici era di certo meno grave: eppure, il tema della corretta grafia era già sentito come centrale, soprattutto nell’ottica di trovare un sistema comune e condiviso da utilizzare nelle opere a stampa.

Ce ne rendiamo conto anche sfogliando le prime pagine dei Sessanta dubbi. I primi due paragrafi, in assoluto i più lunghi e articolati, sono dedicati infatti a due tra i più rilevanti temi ortografici del tempo: l’uso dell’h etimologica – mantenuta nelle parole derivate dal latino per tradizione grafica – e l’alternanza tra le grafie ti e zi per rendere il nesso -TI- + vocale del latino, in parole come orazione (che poteva essere scritta orazione ma anche oratione). Non solo: di questi aspetti si tratta anche nella lunga Prefatione (si noti: non Prefazione!) che apre questa seconda parte dell’opera. Stando alle parole dell’autore, è stata proprio la riflessione sulla grafia di alcuni testi antichi a fargli accendere la lampadina per la composizione dei Dubbi («incominciai a stendere in carta qualche mio pensieruzzo», p. 153). Lampugnani giudicava infatti «buona, e perfetta» la grafia dei trecentisti, e per questo degna di essere imitata. I tempi, però, erano cambiati, e l’ortografia italiana (grazie soprattutto a Pietro Bembo e agli Accademici della Crusca) era mutata e cercava sempre più di staccarsi dal latino, ad esempio rimuovendo l’h dove non era necessaria (non più honore, humile, allhora, ma onore, umile, allora; non più grafie grecizzanti come philosophia, ma filosofia) e usando la lettera z per riprodurre quel suono che oggi chiamiamo affricata alveolare (non più oratione ma orazione, non più lettione ma lezione, o al massimo lezzione). Lampugnani, però, era di un altro avviso. A nulla sono serviti gli insistenti inviti dei suoi compagni Accademici, che avevano tentato di convincerlo a rimuovere l’h e a utilizzare la z (e che lo avevano costretto a prendere la penna in mano, in clima di vera e propria rissa: «dopo vari riottamenti, quasi per li capelli fui tirato a produrre in iscritto, perche con esso loro io andava a ritrovo», p. 154): il milanese si difende strenuamente dalle accuse di essere «disdivoto dell’H aspiratione» (ossia di rimuovere l’h da parole come huomo) e «innamorato della Zettazzione», cioè propenso a scrivere «Grazia, e sì fatte voci con la Z, e non con la T» (p. 154). Per lui, dunque, è bene continuare a usare la t e mantenere l’h, soprattutto in determinate parole. Per i più devoti, ecco ad esempio la motivazione addotta per mantenere l’h nel nome Christo (che presenta al suo interno il nesso grecizzante ch, già presente in latino): «Io però non oserei giamai scrivere Christo senza H, sì per riverenza del santo nome, come per ischifar che recar potrebbero le voci, Cresta, Cristato, Cristallo e Cristeo: non ostante che sia minor errore il lasciar l’H, nel mezzo, che nel principio della parole» (p. 114).

I primi dubbi rappresentano quindi il nucleo, l’idea di partenza di questa sezione dell’opera, tanto è vero che Lampugnani aveva già trattato di questi temi in una precedente Lettera del Signor D. Agost°. Lampugnani intorno alcune difficoltà della lingua Italiana del 1641, opera poi sensibilmente ampliata grazie ai suggerimenti di tale Gerolamo Villa, «cieco ma videntissimo in questi affari».

 

                        

La prima pagina della sezione dei Sessanta dubbi e la prima dedicata al Dubbio Secondo.

 

 

E gli altri 58 dubbi?

All’ortografia sono dedicati anche altri dubbi: il 13 tratta della grafia della congiunzione e (in bilico tra il latineggiante et e il moderno e, o al massimo ed prima di vocale: Lampugnani qui scarta la grafia etimologica et, rifiutando inoltre il carattere &); il 40 si occupa dell’uso dell’apostrofo e così via. Altri dubbi sono dedicati a fenomeni fonetici, a partire dalla natura di V, ancora confusa tra consonante e vocale (dubbio 16), per arrivare all’uso della i aggiunta a inizio di parola come in iscritto o istrada (dubbi 42-43; è il fenomeno che di lì a pochi decenni verrà chiamato prostesi), o ancora a forme in cui era oscillante la presenza di i o u (cioè coppie di parole con o senza dittongo: priego/prego, siede/sede, viene/vene, scuote/scote: dubbio 53).

 


Il dubbio Quinquagesimo Terzo (53).

 

Nella morfologia, crea ancora molte incertezze l’uso di articoli e pronomi: ai primi sono dedicati, con attenzione ogni volta rivolta a casi particolari, i dubbi 6, 7, 8, 9, 32, 33, 34 e 46; mentre di pronomi trattano ben undici paragrafi (dubbi 17, 18, 19, 25, 29, 35, 39, 41, 48, 52, 59). Ancora attuale, ad esempio, il dubbio 35, dedicato alla possibilità di usare gli per a loro. Lampugnani afferma, rifacendosi a Salviati, che «non si può mai usare in vece de pronome, Lui nel terzo caso del maggior numero: ma sempre è necessario dir Loro» (p. 284). E su questo sono tutti concordi, afferma il milanese: è infatti «regola certissima appresso gli osservatori della lingua», tanto che non vale nemmeno la pena di soffermarsi: «perciò non prenderò fatica di recarne alcuno in prova di verità così chiara, e palese, a chiunque ha qualche cognitione della Toscana favella» (p. 285); dubbio sì, dunque, ma fino a un certo punto. Oggi, invece, il tratto genera ancora qualche incertezza, ma la questione è, come tante altre, affrontata da un’angolazione diversa: non più nella prospettiva binaria giusto/sbagliato, ma in base alla situazione comunicativa e al registro da utilizzare: la forme gli è infatti tipica delle situazioni informali e del parlato, mentre la forma loro/a loro – forte, come si è visto, di una secolare tradizione scritta – è più formale e adatta allo scritto. Rimasto tema scottante per secoli è anche l’argomento del dubbio 52, ossia la possibilità di usare lui come pronome soggetto di 3a persona singolare. Come accade in altri casi, Lampugnani parte però da un caso specifico, molto concreto, ossia la frase «Per non saper lui scrivere». La sua soluzione si allinea a quella dei grammatici del tempo, prescrivendo esclusivamente la forma egli: d’altronde, dice, «se non si può dire Per non saper me, Per non saper te scrivere: neanche si potrà dire, per non saper lui scrivere» (p. 336).

Una manciata di dubbi riguarda infine la microsintassi, fatto di per sé interessante per una grammatica di questo periodo. Sono soprattutto le reggenze ad essere al centro delle riflessioni del milanese – dubbio 14: costruzione di come e sicome; dubbio 15: reggenze del verbo essere; dubbio 37: indicativo o soggiuntivo (il nostro congiuntivo) dopo alcune congiunzioni – oppure l’accordo (dubbio 24: accordo participio-soggetto).

Sfogliando le pagine del trattatello, ci si rende subito conto del modus operandi adottato da Lampugnani: il grammatico tende infatti a partire da un caso specifico per affrontare un tema più generale. Esemplificativo in questo senso il dubbio 38, intitolato «Se questa forma di dire. Aguzzato l’engegno, sia d’ammettersi. E quali di queste altre due sia migliore. Aguzzato lo ’ngegno, overo, Aguzzato l’ingegno». Si sommano almeno due questioni: da un lato l’uso di e protonica invece della i (giudicato errore senza sconti), dall’altro la possibilità di far cadere la prima lettera (ossia di aferesi, come diremmo oggi) nelle sequenze di articolo + parola iniziante per vocale, del tipo lo ’ngengo invece che l’ingegno, tratto tipico del fiorentino antico che di fatto viene rifiutata dal milanese, che afferma: «non mi piace troncar il capo alla voce seguente per conservare la coda dell’articolo, la quale di ordinario gli si suole coll’accorciamento troncare» (p. 293).

 


Il dubbio Trigesimo Ottavo (38).

 

Lampugnani e i dialetti: la polemica antifiorentina

Quest’ultima nota ci permette di evidenziare un lato importante che caratterizza il pensiero del nostro grammatico. All’interno dei Dubbi, Lampugnani non perde infatti occasione di ribadire la sua posizione antifiorentinista, come emerge in particolare nei primi due dubbi dedicati all’h e alla z, di cui abbiamo parlato. L’autore inserisce infatti, in modo ai nostri occhi del tutto forzato, questi due fatti grafici all’interno di una più ampia polemica contro il fiorentino, che già aveva affrontato in un’opera precedente, il Diporto Academico De’ Dialetti overo degl’Idiotismi d’alcune Città d’Italia (1653), studiata da Paolo Bongrani (2019). In questo libretto aveva passato in rassegna vari dialetti (fiorentino, bergamasco, veneziano, milanese, pavese, piacentino, bolognese e genovese: tutte parlate di città in cui aveva soggiornato) dando un giudizio severo soprattutto sul fiorentino e sui suoi vizi di pronuncia (definiti «abusi di profferire»), a partire dalla famosa gorgia (la pronuncia aspirata delle c intervocaliche) che ancora oggi caratterizza la parlata fiorentina.

Essendo promosse da letterati e grammatici fiorentini (Salviati, poi la Crusca), anche l’abbandono dell’h etimologica e la preferenza per la z venivano quindi viste come vizi tipici del fiorentino e, dunque, rifiutate fermamente da grammatici e scrittori di altre zone: ancora sul finire del Seicento non sono pochi coloro che proseguono a utilizzare grafie etimologiche più vicine al latino, rifiutando le innovazioni. La prassi di Lampugnani (e di tanti altri), se è impensabile al giorno d’oggi, non ci stupisce fino in fondo: ai suoi tempi il piano della grammatica e quello della polemica linguistica erano sostanzialmente inscindibili.

 

Conclusioni

L’opera di Lampugnani si dimostra quindi un testo degno di interesse. Da un lato perché testimonia la resistenza, comune in realtà a molti grammatici e letterati del suo tempo, alla linea maestra della riflessione grammaticale (e in particolare dell’ortografia) che da Bembo era passata per Salviati ed era giunta al Vocabolario della Crusca, strumento nel quale aveva trovato una realizzazione concreta e una stabilizzazione con cui tutti, in campo grammaticale e lessicografico, dovranno avere a che fare dal 1612 in poi. Una resistenza che però non precludeva il riconoscimento dell’importanza assoluta di questi grammatici e della Crusca stessa, come si legge nell’introduzione: «Nel che deesi obligo havere al Cardinal Bembo, al Salviati, alla Crusca e moltissimi altri, ed a Giacomo Pergamino» (quest’ultimo fu autore di un di un Trattato della lingua nel 1613 e ancor prima di un Memoriale della lingua nel 1602, opere molto fortunate e che esercitarono la funzione di modello principale per Lampugnani, che non esita a dichiararsi «Pergaminista» in campo ortografico»).

Inoltre, la sezione dei Sessanta dubbi ci permette di capire quali fossero, all’epoca, i punti cruciali in cui si annidavano maggiori incertezze e ci fornisce un esempio di un testo grammaticale divulgativo, pensato più per risolvere le incertezze dei lettori piuttosto che per fornire una trattazione completa e approfondita di tutta la grammatica. L’intento, in fondo, era lo stesso delle non poche grammatiche coeve che offrivano una serie di osservazioni sparse o ordinate alfabeticamente su singoli aspetti reputati degni di maggior interesse: dal Ne quid nimis della lingua volgare di Giovanni Maria Vincenti (1665) al Modo facilissimo di scrivere e di parlare di Domenico Nelli (1676, almeno nella prima parte), fino al ben più famoso Torto e diritto del non si può di Daniello Bartoli (1655).

 

Per saperne di più

Paolo Bongrani, Agostino Lampugnani grammatico e il confronto col fiorentino: tra lingua e dialetti, in «Studi di Grammatica Italiana», vol. XXXVIII, 2019, pp. 217-245.

Paolo Bongrani, Testimonianze dialettali in un «Diporto Academico» di Agostino Lampugnani (1653), in Geografie e storie letterarie. Studi per William Spaggiari, a cura di Stefania Bagaretti, Rosa Necchi, Anna Maria Salvadè, Milano, Led – Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, 2019, pp. 77-82.

Fiammetta Cirilli, Lampugnani, Agostino, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 63, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2004.

Ciro Trabalza, Storia della grammatica italiana, Hoepli, Milano, 1908.

 

 

 

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