“Dal dialetto alla lingua”: i manualetti per il pisano e livornese di Malagoli (1926)
di Roberto Domenici
A partire dalla riforma Gentile del 1923 fu realizzata una serie di “manualetti” di comparazione tra dialetto e italiano, destinati all’insegnamento della lingua italiana nelle scuole elementari secondo il metodo “dal dialetto alla lingua”, ispirato alle idee di Graziadio Isaia Ascoli e sviluppato da Giuseppe Lombardo Radice, direttore generale dell’istruzione elementare e popolare dal 1922 al 1924 presso il Ministero dell’Educazione nazionale. Il metodo si basava sull’idea che il confronto con il dialetto facilitasse l’acquisizione profonda della lingua italiana da parte dei bambini dialettofoni. La collana Dal dialetto alla lingua, pubblicata da Paravia a Torino e da Bemporad a Firenze sotto la direzione della Società Filologica Romana, e approvata nel 1925 dalla Commissione ministeriale per i libri di testo, rappresenta probabilmente l’impresa più significativa nella produzione dei manualetti, per l’omogeneità di impianto e per la diffusione delle pubblicazioni in tutte le regioni. Tra questi, è interessante il caso dei manualetti per il pisano e livornese, scritti da Giuseppe Malagoli: pubblicati per ultimi nel 1926, quando la collana si era già conclusa, presentano caratteristiche particolari legate al fatto di essere gli unici dedicati a dialetti della Toscana.
1. Il metodo “Dal dialetto alla lingua”
L’importanza del dialetto nell’acquisizione dell’italiano era stata riconosciuta già dalla riflessione linguistica ottocentesca: sulla base del presupposto teorico di procedere “dal noto all’ignoto”, centrale nell’opera di Grégoire Girard, e, in Italia, in quella dell’abate Antonio Cesari, era stato Graziadio Isaia Ascoli il primo a dare una svolta decisiva alla questione del ruolo del dialetto, prospettandone il ruolo fondamentale che avrebbe avuto nella formazione linguistica. Nel Proemio all’Archivio Glottologico Italiano, Ascoli definì «condizione privilegiata» quella dei «figliuoli bilingui» padroni sia del dialetto che dell’italiano e, nella Relazione al IX Congresso Pedagogico Italiano del 1874, elogiò il metodo di comparazione tra dialetto e lingua. Il punto di partenza è l’idea che, quando una lingua viene imparata come materna, la grammatica viene appresa spontaneamente e senza bisogno di regole esplicite. Per questo motivo, non sarà tanto utile fare tabula rasa delle conoscenze già in possesso degli alunni per imporne di nuove, quanto partire proprio da quelle conoscenze inconsapevoli e portarle alla coscienza per operare un graduale confronto tra le forme del dialetto e quelle della lingua, fino a una completa padronanza dell’italiano.
Nei programmi del 1923 Lombardo Radice istituzionalizza tale metodo. Sono le indicazioni ministeriali, infatti, a prevedere i testi dialettali come punto di partenza per l’insegnamento della lingua nelle scuole elementari, in sostituzione del tradizionale libro di grammatica, di cui il pedagogista siciliano fin dal 1913, nelle sue Lezioni di didattica, aveva negato l’utilità. Di qui l’iniziativa di pubblicare una serie di volumetti, divisi in tre parti, per la terza, la quarta e la quinta elementare, contenenti materiale dialettale prevalentemente letterario, spesso con traduzione italiana a fronte e con annotazioni linguistiche. Per la scelta dei testi i compilatori avrebbero dovuto attingere alla tradizione e alla letteratura dialettale e locale, in maniera tale che al bambino venisse offerto non solo del semplice materiale linguistico, ma la possibilità di immergersi nella sua cultura di origine, valorizzandola. Il tipo di didattica proposto, rispetto a un orientamento normativo, si basava su un confronto diretto tra il testo e la sua traduzione, volto a coinvolgere attivamente l’alunno nel riconoscere gli elementi che differenziano i due sistemi linguistici.
L’applicazione del metodo, tuttavia, non poté avere lunga durata. La politica linguistica di stampo fascista, in conformità alla generale politica di accentramento e repressione di ogni elemento autonomo, si rivelò appieno già nei programmi del 1934: ogni riferimento al dialetto venne eliminato ed escluso dalla scuola.
2. I manualetti per il pisano e livornese
Secondo Silvia Demartini, che si basa sugli studi di Klein (1986), Gensini (1995), Zini (1996) e D’Alessio (2009), tra il 1924 e il 1927 furono approvati 237 manualetti per i dialetti delle diverse regioni. Gli autori dei volumetti della collana Dal dialetto alla lingua, pubblicati tra il 1924 e il 1925 sono undici, a cui vanno aggiunti i tre autori dei manualetti usciti tra il 1925 e il 1926, quando la collana si era già conclusa, ma che fanno comunque parte della serie. Tra questi ultimi ci sono quelli scritti da Giuseppe Malagoli, linguista e dialettologo originario di Novellara in provincia di Reggio Emilia, che trascorse gran parte della sua vita a Pisa, dove si laureò e ottenne la libera docenza in glottologia; è ricordato soprattutto per la pubblicazione, nel 1939, del Vocabolario pisano, opera dialettologica di grandissimo valore. I suoi manualetti per il pisano e livornese, dal titolo Esercizi di traduzione dai dialetti della Toscana: pisano e livornese, furono pubblicati nel 1926 e, stando al resoconto di Demartini, furono gli ultimi mai pubblicati.
La causa principale che si può individuare per spiegare questo “ritardo” è il fatto che la stretta vicinanza tra i dialetti toscani, almeno a livello medio-colto, e la lingua nazionale deve aver fatto sì che la realizzazione di manualetti di traduzione non sia stata avvertita come una necessità, almeno in un primo momento, al pari di quanto avvenne per gli altri dialetti italiani. Il rapporto tra i dialetti toscani e la lingua è tale da non potersi considerare assimilabile a quello che intercorre tra gli altri dialetti peninsulari e l'italiano; dagli stessi toscani, infatti, il dialetto è spesso percepito più come una variante “bassa” dell’italiano che come un sistema linguistico autonomo. È altrettanto vero, tuttavia, che questa “vicinanza” tra dialetto e lingua può risultare ancora più insidiosa nel momento in cui si voglia insegnare l’italiano nella sua forma “standard”, tentando di tenere gli ambiti del dialetto e della lingua separati, per evitare confusioni o sovrapposizioni reciproche.
Il primo aspetto che emerge dall’osservazione dei manualetti per il toscano occidentale è il fatto che, in apparente contraddizione con il titolo stesso della collana, la disposizione e il contenuto dei testi sembrano mostrare un progressivo avvicinamento “dalla lingua al dialetto”. I primi testi infatti sono scritti quasi completamente in italiano; gli elementi dialettali compaiono solo gradualmente, all’inizio corredati da annotazioni. Andando avanti nella lettura dei testi, soprattutto tra un manualetto e l’altro, si osserva un progressivo aumento di tratti dialettali all’interno dei singoli brani, i quali tendono, in alcuni casi, oltre a risultare di difficile comprensione anche per un toscano, a mostrare anche un certo livello di artificiosità. Diminuiscono parallelamente le traduzioni a fronte, mentre nelle annotazioni solo raramente si fa riferimento a fenomeni già trattati.
L’obiettivo dei manualetti non sembra essere tanto il passaggio dalla lettura di testi dialettali a quella di testi in lingua italiana; il fatto che i dialetti toscani presentano molti più punti di contatto con l’italiano rispetto ad altri dialetti se da un lato può essere un vantaggio, dall’altro fa sì che l’individuazione di differenze sottili, ma molto caratterizzanti, possa comportare notevoli difficoltà. Dal momento che il pisano-livornese non si può considerare un vero e proprio “dialetto” in senso stretto, lo scopo principale dei manualetti di Malagoli è quindi quello di stimolare gradualmente la capacità di individuare tratti fonetici, morfologici, sintattici e lessicali come propri dell’uso dialettale, riconoscerli come tali e sviluppare la capacità di confrontarli e tenerli separati dalle corrispettive forme italiane:
Ni o ni, che propriamente sta per “gli”, si usa nel dialetto anche per “loro, a loro”. In lingua, cercherai d’evitare quest’uso di “gli” come plurale» (nota a p. 11 del vol. III).
Tra i fenomeni dialettali più caratteristici annotati dall’autore ci sono sia aspetti fonetici, come la trasformazione di [l] preconsonantica in [r] (rotacismo), l’indebolimento di [-k-] intervocalica, sia morfologici, specialmente verbali, per esempio le forme tronche dell’infinito e le desinenze del passato remoto. Si tratta di fenomeni di grande diffusione e che quindi connotano immediatamente come “non-standard” la lingua, e particolarmente insidiosi proprio per il fatto di essere così pervasivi in ogni contesto comunicativo. Non si trova traccia, nei manualetti, di tabelle o compendi; largo spazio è invece lasciato, nei testi e nelle note, all’esposizione del maggior numero di forme possibili in diversi contesti fonetici e sintattici. Si osservi a tal proposito il caso degli infiniti dei verbi:
Ricòrdati di non troncare, come fa il dialetto, «pigliare, picchiare, andare, bruciare, legare, rosicare, avere, sapere, aprire, partire» e altri simili verbi, in piglià’, picchià’, andà’, brucià’, legà’, rosïà’, avé’, sapé’, partì’, ecc. E neanche troncherai «cògliere, spèngere (spègnere), lèggere» e simili, in còglie’, spènge, lègge» (nota a p. 22 del vol. III);
viene riportato un buon numero di forme apocopate, distinguendo in due gruppi i verbi accentati sulla desinenza (rizoatoni) e quelli accentati sulla radice (rizotonici), senza ulteriori indicazioni; il fatto che il fenomeno si verifichi in tutti i verbi, indipendentemente dalla posizione dell’accento, è suggerito solo indirettamente, lasciando all’alunno il compito di individuarne, e all’insegnante quello di spiegarne la differenza.
Talvolta, l’uso di una forma piuttosto che un’altra è motivato da un esplicito invito a distaccarsi dal dialetto in quanto lingua di minor prestigio (il dialetto viene associato, talvolta in maniera dispregiativa, al linguaggio del «contado» del «volgo», o addirittura del «popolo incolto») nonché poco comprensibile ai non-toscani; l’apprendimento della lingua è quindi presentato come un mezzo di miglioramento sociale e culturale.
Non si può dire, tuttavia, che siano del tutto assenti i retaggi di una grammatica di orientamento positivo e prescrittivo, che mira a insegnare direttamente, senza passare da una fase di riflessione metalinguistica, una serie di regole e a correggere le forme che non vi si conformano. L’urgenza di intervenire soprattutto sui regionalismi e di evitare l’interferenza degli elementi fonomorfologici dialettali spiega l’atteggiamento prescrittivo assunto in alcuni casi dall’autore.
Fig. 1 e 2 Frontespizio e pagina 10 del secondo volume
3. Conclusioni
Quella di Malagoli deve essere considerata, in definitiva, una soluzione di compromesso tra una didattica della grammatica di tipo nozionistico e una di tipo comparativo. L’autore stesso rappresenta il punto di incontro tra i due diversi orientamenti didattici, da lui sperimentati nel corso degli anni: il primo, rappresentato soprattutto dalla produzione di grammatiche scolastiche per tabelle e compendi schematici, in cui tuttavia si trovano riferimenti ai diversi usi linguistici, tra cui quello dialettale; il secondo, che si apre a un apprendimento linguistico basato sull’osservazione, nella loro diretta applicazione, delle regole grammaticali, con brevi annotazioni che mettono al centro la complessità e la ricchezza della varietà diafasica e diatopica della lingua e dei dialetti, ma che risentono del portato di un approccio abituato a distinguere tra “giusto” e “sbagliato”, tra “errore” e “norma”.
Per saperne di più
Graziadio Isaia Ascoli, Il Proemio all’“Archivio Glottologico Italiano”, I, 1873, in Id., Scritti sulla questione della lingua, a cura di C. Grassi, con un saggio di G. Lucchini, Torino, Einaudi, 2008 (1a ed. 1975), pp. 5-44.
Graziadio Isaia Ascoli, Relazione al IX Congresso Pedagogico Italiano, in Atti del XI Congresso Pedagogico Italiano e della V esposizione scolastica, Bologna, 1875, in F. D’Ovidio, Scritti linguistici, a cura di P. Bianchi, con introduzione di F. Bruni, Napoli, Guida, 1982, pp. 140-146.
Michela D’Alessio, Quei “manualetti” ritrovati: l’insegnamento dal dialetto alla lingua, in G. Fiorentino (a cura di), Perché la grammatica? La didattica dell’italiano tra scuola e università, Roma, Carocci, 2010, pp. 158-174.
Silvia Demartini, “Dal dialetto alla lingua” negli anni Venti del Novecento. Una collana scolastica da riscoprire, in “Letteratura e dialetti”, 3, 2010, pp. 63-80.
Stefano Gensini, Quei ‘manualetti’ pensati e poi scomparsi, in “Italiano & oltre”, X, 4, 1995, pp. 231-237.
Gabriella Klein, La politica linguistica del Fascismo, Bologna, Il Mulino, 1986.
Giuseppe Lombardo Radice, Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale, Palermo, Sandron, 1936 (1a ed. 1913).
Giuseppe Malagoli, Vocabolario pisano, Firenze, Regia Accademia della Crusca, 1939.
Irene Zini, I “manualetti”: dal dialetto alla lingua, in “Italiano & oltre”, XI, 1, 1996, pp. 6-15.