Primi originali espedienti didattici nelle grammatiche del Settecento: le Regole di Girolamo Gigli - Laura Clemenzi

Primi originali espedienti didattici nelle grammatiche del Settecento:

le Regole di Girolamo Gigli

 di Laura Clemenzi

 

Nel corso del Settecento l’italiano si rinnova e si consolida, a discapito del latino, nei più diversi ambiti: amministrativo e giuridico, economico e scientifico, fino a entrare ufficialmente anche nella scuola. Le riforme scolastiche via via attuate nei diversi stati della penisola e, in parallelo, la caduta del monopolio della Chiesa sull’istruzione aprono la strada a un ripensamento della produzione grammaticale – fino ad allora destinata principalmente a dotti e letterati – in funzione didattica.

Sebbene la più importante grammatica settecentesca esplicitamente indirizzata alla scuola – a una scuola speciale: il Seminario di Bologna – sia opera di Salvatore Corticelli, che nelle sue Regole ed osservazioni della lingua toscana ridotte a metodo per uso del Seminario di Bologna (Bologna, 1745) presenta “un’esposizione ordinata e facilmente consultabile della materia grammaticale” (Marazzini 1997: 8; cfr. Felicani 2022), anche altre opere coeve possono essere ascritte alla linea grammaticale didattico-empirica, della quale furono precursori, nei secoli precedenti, Pierfrancesco Giambullari e Benedetto Buonmattei (Telve 2002: 3, n. 1). Originali espedienti didattici figurano ad esempio nelle Regole per la toscana favella (Roma, 1721) del senese Girolamo Gigli, seguite dalle sue postume Lezioni di lingua toscana (Venezia, 1722).

1. È sempre lo stesso bastone?

Girolamo Gigli, commediografo e poeta e già autore di un Vocabolario cateriniano (Gigli 2008) – il quale non solo nel 1717 viene mandato al rogo, ma costa al suo compilatore l’espulsione dall’Accademia della Crusca e l’esilio (Mattarucco 2009; Trifone 2007) –, nel 1721 dà alle stampe le sue Regole in forma di dialogo tra maestro, e scolare. Tale modalità espositiva è propria delle Regole, oggetto di questa trattazione, e non anche delle successive Lezioni.

 

     

Fig. 1 Frontespizi delle opere Regole per la toscana favella (Roma, 1721)

e Lezioni di lingua toscana (Venezia, 1722) di Girolamo Gigli.

 

Particolarmente istruttiva risulta, all’interno delle Regole, la lettura della dedicatoria Agli amatori del ben parlare, che segue quella al “giovanetto” di cui Gigli era precettore, Alessandro Ruspoli. In apertura l’autore risulta piuttosto pungente: “Ha più Grammatiche omai la nostra Volgar Favella, che non ha Genti (stetti per dire) che la parli”, scrive, per poi passare a ricostruire con allegorie alcune tappe della grammaticografia. La grammatica “è sempre un medesimo bastone, a cui ci fidiamo per caminar sicuri sopra le tracce de’ nostri maggiori”, ma che nel tempo è stato usato o trattato in modi diversi: “Questo bastone taluno ha voluto istoriare, siccome il Cittadini fece”; “Qualcun altro Scrittore a tal bastone ha fatta la punta di ferro, nella maniera, che il Castelvetro prese a pungere il Bembo […] o l’ha fatto a nodi per menarlo nelle spalle a suoi contraddittori, e del Padre Bartoli voglio intendere, e del Beni, e del Muzio”. E ancora: “Altri questo bastone lisciando, e facendogli manico d’argento, l’ha ridotto ad essere appoggio per Dame, volendo che alla gala della Corte la Lingua si accomodi, e della Corte prenda le mutazioni, e i vezzi”, così come il “Castiglione, che Cortigiana credette dover nomarsi la nostra più corretta favella”. L’autore, al quale è riconosciuto uno spirito un po’ ribelle, sembra poi polemizzare contro il fatto che “sempre si va a’ medesime fonti [gli Antichi], che omai della miniera d’oro n’han più sapore, nè virtù a tempi nostri”, che “la Grammatica ha da battere le medesime strade, sempre albergare nelle stesse Osterie, sempre fare terra terra lo stesso viaggio”, senza poter “metter l’ali come la Filosofia, spaziandosi dove più le piaccia, e comparire per diletto altrui con tante diverse penne, quanti sono gli Ucelli, che ci vengono dall’Indie dipinti con fogge nuove di colori, e vestiti, con armature di nuove piume”, e senza poter dunque “fornire di sempre più curiose letture l’erudizione degli Uomini, e far pellegrinare la nostra mente in groppa all’Ippogrifo di Astolfo verso paesi di nuova scoperta”.

La volontà di rinnovamento che traspare da questa premessa si riflette principalmente nell’introduzione di nuovi espedienti didattici – presentati più avanti, al par. 3 – nella convinzione peraltro, espressa dallo stesso Gigli, che così “più spaccio [maggiori vendite] avrebbe avuto” la sua opera.  

2. Lo scolaro supera il maestro

Le domande che il maestro rivolge allo scolaro sono spesso in forma diretta e sembrano in tali casi simulare un’interrogazione in un’aula scolastica. All’inizio del cap. I, Delle lettere, si trovano ad esempio, nell’ordine, “Sopra quali Testi si formano le Regole del parlar Toscano?”; “Come si chiama la Lettera?”; “Quanti sono gli Eleme[n]ti della scrittura Toscana?”. La forma diretta diventa talvolta indiretta, in richieste introdotte da formule quali – con il ricorso all’allocutivo voi – “ditemi qualche cosa di” o “ditemi se” (che tuttavia spesso si chiudono ancora con il punto interrogativo), che in parte interrompono la monotonia. Lo scambio viene tuttavia ravvivato anche in altri modi. Ad esempio, il maestro può manifestare approvazione e integrare le risposte dello scolaro, come nel passaggio che segue, tratto dalla parte finale del cap. II, Delle sillabe.

 

Ma. Ditemi qualche cosa del posamento, che si faccia nelle sillabe compitando, e dello staccamento delle medesime, particolarmente div[i]dendosi una parola nel fine d’una riga, e principio dell’altra?

Sco. L’uso è più ricevuto, che quando doppo la vocale seguono due consonanti diverse s’appoggia alla vocale, che siegue, staccandosi per esempio così: O gni, Co stan za, O ste, Di strut to. Quando però le consonanti sono simili, e doppie, allora una se ne dà alla vocale antecedente, ed una alla seguente, come Tut to, Don na, Sel la, Mag gio &c. Nel medesimo modo quando la prima di dette consonanti sia L, M, N, R, si stacca, come sopra: scam po, an dare, al to, ar dire.

Ma. Diceste bene. Ma tutti i Pedanti oggidì sbaglian’in quest’uso, insegnando male a sillabicare, particolarmente nel primo caso, perche staccando Costanza scrivono così: Cos tan za, dis prezzo. Perciò l’uso dei buoni libri stampati ultimamente, come del Padre Segneri, di Monsig. Giusto Fontanini, e simili, potrà dar legge in questo caso. Ditemi in fine qualche cosa della Copula?

 

O, ancora, il maestro può chiedere indirettamente una regola, fingendosi interessato alle abitudini o al parere dello scolaro, come nei passaggi che seguono tratti dal cap. III, Dell’orazione, e dell’Articolo.

 

Ma. Ai nomi proprj di persone date mai l’articolo?

Sco. Presso gli Scrittori Fiorentini, ed in Fiorenza medesima si suol dire la Caterina, la Lucrezia.

Ma. Usereste l’articolo in una preposizione, non continuandolo nell’altra, come, girai per la Francia, e per Fiandra, o pure al contrario girai per Fiandra, e per la Francia?

Sco. Trovasi quest’uso negli antichi Scrittori: Oggidì però non si loderebbe.

[…]

Ma. La Corte Romana, tanto nel parlare, che nello scrivere usa il pronome Lei nel caso retto, dicendo lei copra, lei torni: Credete, che ciò possa usarsi?

Sco. Certo che no: nè meno può dirsi lui venne; loro andarono benchè tutto il Mondo Toscano nel famigliar discorso parli così.

 

Lo scolaro, nel corso dell’intero dialogo, risulta il principale espositore delle regole e spesso argomenta citando autori antichi e, anche criticandoli, altri grammatici, senza tuttavia trascurare la lingua in uso; questa – come sopra nel caso dell’uso dell’articolo davanti ai nomi propri – può servire per informare il lettore, senza un esplicito atteggiamento prescrittivo, di fenomeni diffusi. Almeno la pronuncia, tuttavia, può legittimare la diversa grafia di alcuni termini: esemplare è la stessa parola “Grammatica, con M raddoppiata”, che così ricorre nel testo; Gigli, nella dedicatoria ai lettori, sottolinea di aver seguito per tale voce “la pronunzia fiorentina”, e non solo: “come parlo, e come (non dico a Siena solo) a Roma, e da tutte le Nazioni si proferisce”. E non importa che “i Rigoristi della Lingua […] metteranno un’urlo”. A tal proposito, si noti che il Vocabolario degli Accademici della Crusca aveva lemmatizzato fino a quel momento solo gramatica; la doppia forma “gramatica, e grammatica” apparirà nella quarta edizione (Firenze, 1729-1738). 

3. Una bella invenzioncella

Un primo espediente didattico innovativo è rappresentato dall’introduzione di specchietti per i verbi con l’indicazione, in “quattro colonnette”, di varianti d’uso concorrenti “corrette”, “antiche”, “poetiche” e “corrotte”, ben diversi dai quadri sinottici usati da altri grammatici che presentavano unicamente la coniugazione dei verbi.

L’autore, nella dedicatoria ai lettori, riconosce di essere debitore di tale “invenzioncella, di osservar tutto il verbo in una occhiata” al suo aiutante presso lo Studio senese Francesco Tondelli, che aveva inserito prospetti analoghi negli Avvertimenti grammaticali sul volgare posti in appendice al suo Donato di nuovo emendato nel volgarizzamento (Siena, 1709). Allo stesso tempo Gigli, all’interno dell’opera, nel cap. VI, Del Verbo, ci tiene a sottolineare che si tratta di un elemento di assoluta novità all’interno delle grammatiche; ne attribuisce l’ideazione allo scolaro, il quale dichiara: “appresso verun Grammatico non l’ho trovata [tale dimostrazione] fino adesso”. Ancora allo scolaro Gigli affida la presentazione di questo stesso strumento, mentre il maestro si mostra incuriosito ed entusiasta: “Voi avrete con questo metodo fatto un gran benefizio ad ogni maniera di Persone, e particolarmente ai Giovanetti Toscani, ad effetto di ripurgarli da quegli errori, che bevvero ordinariamente col latte”.

Il prospetto è riportato dapprima per i tre “Verbi servidori” essere, avere e dovere, poi, all’interno di una distinzione in base alle terminazioni delle diverse coniugazioni, per amare, vedere, scrivere e sentire; successivamente viene considerata una lunga lista di verbi irregolari, ancora distinguendo in base alla coniugazione, alla quale seguono verbi “differenti” (definiti come quelli “che non hanno tutte e tre le persone, tutt’i numeri, o tempi, o modi che gli altri vogliono avere”), verbi che “mutano la loro vocale, o ne prendono un’altra”, e verbi “terminanti in sco”. Nel complesso tale sezione occupa circa 150 pagine delle quasi 600 dell’opera; dopo la presentazione del prospetto di ciascun verbo, si trova di frequente un confronto tra il maestro e lo scolaro, durante il quale lo scolaro argomenta in merito alla provenienza di certe forme. Si riporta un estratto del prospetto relativo al verbo essere (Fig. 2) e si trascrivono alcuni stralci dello scambio che segue.

 

           

Fig. 2 Estratto del prospetto del verbo essere ripreso dal cap. VI, Del Verbo,

delle Regole per la toscana favella (Roma, 1721) di Girolamo Gigli.

 

“Mi piace questa dimostrazione vostra”, afferma il maestro, e “per grazia appagatemi sopra tali vezzi particolari delle Nazioni ben parlanti Toscane, e della Corte Romana pure, che dee far tanta autorità nella Favella nostra”, chiede. A proposito di “so per sono”, che figura nella colonna “corretto”, ad esempio lo scolaro segnala che “è vezzo Sanese particolarmente, e tutti gli Autori antichi di quella Città ne son pieni”, e aggiunge che “sei nella seconda persona” accanto a se’ fu difeso dal padre Bartoli e dagli scrittori senesi contro l’opposizione dei fiorentini, “essendo una frivola obbiezione, che sei verbo, possa fare equivoco, col sei numero”. O, a proposito della forma corrotta del perfetto del dimostrativo (indicativo) “fussimo per fummo”, indicata come corretta invece per il presente del desiderativo (o ottativo, modo che molti autori ancora distinguevano dal soggiuntivo o congiuntivo, e che poteva includere anche le forme del non ancora autonomo condizionale; cfr. Gizzi 2018: 307-312), lo scolaro precisa: “Noi fussimo per fummo, andassimo per andammo, vedessimo per vedemmo &c. è Romanesco vizio particolare, da cui non s’astengono i più nobili, e i più saputi confondendo il desiderativo col perfetto”.

4. Sbagliando s’impara

Un secondo originale espediente didattico è rappresentato dalla stesura di nove “piacevoli racconti” (così li definisce lo stesso Gigli nella dedicatoria ai lettori) con errori idealmente corretti dagli scolari. Tali racconti appaiono in una sezione intitolata Esercizio”, pensato, come recita il sottotitolo, “per conservare a memoria le Regole addietro scritte”, e così introdotto dal maestro:

 

Ma. Diamo dunque il compimento alle nostre Regole Grammaticali, colla pratica di un esercizio da me inventato per serbarle a memoria, che sarà il seguente, il che caminando potrete fare con altri coetanei, o per iscritto precedentemente meditato: tanto che vi riuscirà poi agevolissimo il censurare qualsisia volgare scrittura, o qualsisia dicitore, che per altro abbia riputazione di valente.

 

A ciascun racconto è accostata la colonna dei “correttori”, nella quale, attraverso un sistema di rinvii, si propongono le sostituzioni delle forme evidenziate in corsivo nei testi. Solo occasionalmente l’intervento è anche motivato; si confrontino ad esempio, nella Fig. 3, i correttori 24-26 con i due correttori 11.


Fig. 3 Estratti ricavati, nell’ordine, dal primo, dal secondo e dal quarto racconto

della sezione “Esercizio” delle Regole per la toscana favella (Roma, 1721) di Girolamo Gigli.

 

Raramente le note riguardano solo gli usi delle parole da correggere, senza che siano anche proposte alternative; si veda ad esempio, nella Fig. 4, il correttore 31.

 


Fig. 4 Estratto ricavato dal primo racconto della sezione “Esercizio”

delle Regole per la toscana favella (Roma, 1721) di Girolamo Gigli.

 

Da rilevare, seppur raro, è il ricorso alle note per approvare (ed eventualmente giustificare) talune forme presenti nel testo; si vedano ad esempio, nella Fig. 5, i correttori 14 e 27.

 

Fig. 5 Estratti ricavati dall’ottavo racconto della sezione “Esercizio”

delle Regole per la toscana favella (Roma, 1721) di Girolamo Gigli.

 

Marazzini (1997: 10-11), citato anche da Fornara (2019: 76), ipotizza che il metodo qui illustrato sia potuto derivare dall’esperienza universitaria di Gigli, che, nello Studio Senese, occupò la cattedra di “toscana favella” dedicata agli stranieri.

5. Per concludere

Le voluminose Regole di Gigli includono anche, come preannuncia l’autore ancora nella dedicatoria ai lettori, una raccolta di vocaboli “ad uso di prosodia” e un saggio degli idiomi toscani. Le colonnette relative alle varianti dei verbi verranno riproposte anche nelle Lezioni del 1722, mentre gli stessi esercizi qui visti riappariranno nella seconda edizione delle Lezioni (Venezia, 1729). Con tali espedienti Gigli senz’altro si distingue per originalità, in un secolo in cui la grammatica, molto gradualmente, e con alcune battute d’arresto, si avvia a diventare anche uno strumento didattico. 

marzo 2024

Per saperne di più

Elena Felicani, Le ragioni della grammatica: le Regole ed osservazioni della lingua toscana di Salvatore Corticelli, tra continuità della proposta normativa e novità strutturali, in «Italiano LinguaDue», 2, 2022, pp. 587-605.

Simone Fornara, Breve storia della grammatica italiana, Roma, Carocci, 2019 [I ed. 2005].

Girolamo Gigli, Vocabolario cateriniano, a cura di Giada Mattarucco, prefazione di Maria Antonietta Grignani, Firenze, Accademia della Crusca, 2008.

Chiara Gizzi, Verbo, in Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin (a cura di), Storia dell’italiano scritto. IV. Grammatiche, Roma, Carocci, 2018, pp. 293-322.

Claudio Marazzini, Grammatica e scuola dal XVI al XIX secolo, in Id. (a cura di), Norma e lingua in Italia: alcune riflessioni fra passato e presente, Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1997, pp. 7-27.

Giada Mattarucco, Girolamo Gigli e i “criminalisti del ben parlare”, in Nadia Cannata e Maria Antonietta Grignani (a cura di), Scrivere il volgare. Fra Medioevo e Rinascimento, Atti del Convegno di studi (Siena, 14-15 maggio 2008), Pisa, Pacini, 2009, pp. 115-122.

Stefano Telve, Prescrizione e descrizione nelle grammatiche del Settecento, parte I, in «Studi linguistici italiani», XXVIII, 2002, pp. 3-32.

Pietro Trifone, Il libro che Firenze mise al rogo, in Id., Malalingua. L’italiano scorretto da Dante a oggi, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 67-80, già pubblicato con il titolo Gli ingegnosi capricci di un linguaiolo: appunti sul “vocabolario cateriniano” di Girolamo Gigli, in Id. e Lino Leonardi (a cura di), Dire l’ineffabile. Caterina da Siena e il linguaggio della mistica, Atti del convegno (Siena, 13-14 novembre 2003), Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2006, pp. 189-204.

 

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