Gramatica ragionata della lingua italiana

Autore:
Soave Francesco | Soave Francesco

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Indice

A’ leggitori p. [V]

Introduzione. Delle parti del discorso in generale [p. 1]

Parte I − Del nome, e del pronome [p. 12]

Capo I – Dei nomi particolari, e universali, ossia proprj, e appellativi [p. 15]

Capo II – Dei sostantivi, e aggettivi fisici, e metafisici [p. 19]

Capo III – Dei generi [p. 22]

Capo IV – Dei numeri [p. 27]

Capo V – Delle declinazioni [p. 32]

Capo VI – Dell’articolo, e degli aggettivi che determinan il significato de’ nomi universali [p. 37]

Capo VII – De’ nomi alterati [p. 56]

Capo VIII − De’ pronomi [p. 58]

Dei pronomi ‘questi’, e ‘costui’, ‘ cotesti’, e ‘cotestui’, ‘quegli’, e ‘colui’ [p. 69]

Dei pronomi ‘il medesimo’, e ‘lo stesso’ [p. 72]

Dei pronomi ‘che’, ‘cui’, ‘il quale’, ‘onde’, e ‘chi’ [p. 73]

Dei pronomi ‘altri’ e ‘altrui’ [p. 78]

 

Parte II – Del verbo, e del participio [p. 80]

Capo I − Dei numeri, e delle persone de’ verbi [p. 80]

Capo II – Dei tempi [p. 82]

Capo III − Dei modi [p. 88]

Capo IV – Dei verbi transitivi, e intransitivi [p. 95]

Capo V – Dei verbi ausiliari ‘essere’, e ‘avere’ [p. 98]

Conjugazione del verbo ‘essere’ [p. 99]

Conjugazione del verbo ‘avere’ [p. 101]

Capo VI – Delle conjugazioni de’ verbi regolari [p. 108]

Osservazioni sulle conjugazioni de’ verbi regolari [p. 113]

Capo VII – Dei verbi irregolari [p. 119]

Anomali della prima conjugazione [p. 121]

Anomali della seconda conjugazione [p. 123]

In -ere lungo [p. 123]

In -ere breve [p. 126]

Anomali della terza conjugazione [p. 129]

Capo VIII – De’ verbi difettivi [p. 132]

Capo  IX – De’ verbi adoperati in luogo de’ nomi [p. 134]

Capo X – Del participio, del gerundio e dei nomi verbali [p. 142]

 

PARTE III – Dell’avverbio. Della preposizione, della congiunzione, e dell’interposto [p. 147]

Capo I – Dell’avverbio [p. 147]

Avverbj, e modi avverbiali [p. 150]

Capo II – Della preposizione [p. 159]

Capo III - Delle congiunzioni [p. 177]

Capo IV −  Dell'interposto [p. 193]

 

PARTE IV - DELLA SINTASSI [p. 197]

Capo I - Della maniera, con cui le parti del discorso si debbono accordare fra loro [p. 198]

Articolo I - Del modo con cui si debbono accordare gli aggettivi coi sostantivi, e i verbi co’ loro soggetti [p. 201]

Articolo II - Del modo, con cui i nomi si debbon congiungere coi verbi, da cui son retti [p. 209]

Capo II – Dell’ordine con cui le parti del discorso si debbon disporre, ossia della costruzione [p. 224]

Capo  III - Delle alterazioni. che nelle cose precedenti per grazia, e proprietà di lingua sono permesse, ossia delle figure gramaticali [p. 237]

Dell’ellissi [p. 238]

Del pleonasmo [p. 242]

Della sillessi [p. 247]

Dell’enallage [p. 248]

Dell’iperbato [p. 249]

Capo  IV - Delle voci diverse, che servono ad esprimere una medesima idea, ossia de' sinonimi: e con questa occasione dei veri vantaggi di una lingua [p. 251]

Capo V - Delle voci, che esprimono più idee diverse [p. 265]

 

PARTE V - DELLA ORTOGRAFIA [p. 282]

Capo  I – Dell’alfabeto italiano [p. 282]

Capo  II - Dell’accento [p. 287]

Capo  III – Dell’apostrofo [p. 291]

Capo  IV – Del troncamento delle parole [p. 293]

Capo  V – Dell’accrescimento delle parole [p. 296]

Capo  VI – Della divisione delle parole in fin di riga [p. 297]

Capo  VII – Del raddoppiamento delle consonanti [p. 298]

Capo VIII – Dei punti, e delle virgole [p. 302]

Testo in formato elettronico

Indice

A’ leggitori p. [V]

Introduzione. Delle parti del discorso in generale [p. 1]

Parte I − Del nome, e del pronome [p. 12]

Capo I – Dei nomi particolari, e universali, ossia proprj, e appellativi [p. 15]

Capo II – Dei sostantivi, e aggettivi fisici, e metafisici [p. 19]

Capo III – Dei generi [p. 22]

Capo IV – Dei numeri [p. 27]

Capo V – Delle declinazioni [p. 32]

Capo VI – Dell’articolo, e degli aggettivi che determinan il significato de’ nomi universali [p. 37]

Capo VII – De’ nomi alterati [p. 56]

Capo VIII − De’ pronomi [p. 58]

Dei pronomi ‘questi’, e ‘costui’, ‘ cotesti’, e ‘cotestui’, ‘quegli’, e ‘colui’ [p. 69]

Dei pronomi ‘il medesimo’, e ‘lo stesso’ [p. 72]

Dei pronomi ‘che’, ‘cui’, ‘il quale’, ‘onde’, e ‘chi’ [p. 73]

Dei pronomi ‘altri’ e ‘altrui’ [p. 78]

 

Parte II – Del verbo, e del participio [p. 80]

Capo I − Dei numeri, e delle persone de’ verbi [p. 80]

Capo II – Dei tempi [p. 82]

Capo III − Dei modi [p. 88]

Capo IV – Dei verbi transitivi, e intransitivi [p. 95]

Capo V – Dei verbi ausiliari ‘essere’, e ‘avere’ [p. 98]

Conjugazione del verbo ‘essere’ [p. 99]

Conjugazione del verbo ‘avere’ [p. 101]

Capo VI – Delle conjugazioni de’ verbi regolari [p. 108]

Osservazioni sulle conjugazioni de’ verbi regolari [p. 113]

Capo VII – Dei verbi irregolari [p. 119]

Anomali della prima conjugazione [p. 121]

Anomali della seconda conjugazione [p. 123]

In -ere lungo [p. 123]

In -ere breve [p. 126]

Anomali della terza conjugazione [p. 129]

Capo VIII – De’ verbi difettivi [p. 132]

Capo  IX – De’ verbi adoperati in luogo de’ nomi [p. 134]

Capo X – Del participio, del gerundio e dei nomi verbali [p. 142]

 

PARTE III – Dell’avverbio. Della preposizione, della congiunzione, e dell’interposto [p. 147]

Capo I – Dell’avverbio [p. 147]

Avverbj, e modi avverbiali [p. 150]

Capo II – Della preposizione [p. 159]

Capo III - Delle congiunzioni [p. 177]

Capo IV −  Dell'interposto [p. 193]

 

PARTE IV - DELLA SINTASSI [p. 197]

Capo I - Della maniera, con cui le parti del discorso si debbono accordare fra loro [p. 198]

Articolo I - Del modo con cui si debbono accordare gli aggettivi coi sostantivi, e i verbi co’ loro soggetti [p. 201]

Articolo II - Del modo, con cui i nomi si debbon congiungere coi verbi, da cui son retti [p. 209]

Capo II – Dell’ordine con cui le parti del discorso si debbon disporre, ossia della costruzione [p. 224]

Capo  III - Delle alterazioni. che nelle cose precedenti per grazia, e proprietà di lingua sono permesse, ossia delle figure gramaticali [p. 237]

Dell’ellissi [p. 238]

Del pleonasmo [p. 242]

Della sillessi [p. 247]

Dell’enallage [p. 248]

Dell’iperbato [p. 249]

Capo  IV - Delle voci diverse, che servono ad esprimere una medesima idea, ossia de' sinonimi: e con questa occasione dei veri vantaggi di una lingua [p. 251]

Capo V - Delle voci, che esprimono più idee diverse [p. 265]

 

PARTE V - DELLA ORTOGRAFIA [p. 282]

Capo  I – Dell’alfabeto italiano [p. 282]

Capo  II - Dell’accento [p. 287]

Capo  III – Dell’apostrofo [p. 291]

Capo  IV – Del troncamento delle parole [p. 293]

Capo  V – Dell’accrescimento delle parole [p. 296]

Capo  VI – Della divisione delle parole in fin di riga [p. 297]

Capo  VII – Del raddoppiamento delle consonanti [p. 298]

Capo VIII – Dei punti, e delle virgole [p. 302]

 

 

 

 

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/V/ A’ LEGGITORI

 

Fra la moltitudine delle gramatiche, che intorno alla lingua italiana si son fin qui pubblicate, una gramatica ragionata tuttavia attendevasi, e questa è quella, che or, leggitori cortesi, vi si presenta.

Lo studio delle lingue arido per sé stesso, e stucchevole allora solo può divenir piacevole ad un tempo, e fecondo di utili cognizioni, quando considerata a fondo la natura, e l’indole delle lingue in generale, e esaminato quindi attentamente il genio, e l’uso di quella, che prendesi particolarmente a trattare, se ne stabiliscano fissamente i principj, se ne deducan le regole con sem/VI/plicità, e con chiarezza, si distingua ciò, che dipende dal sol capriccio dell’uso, da ciò che nasce da’ principj fondamentali, e ciò che è uso costante, e universale da ciò che è mera bizarria, o stravaganza di qualche scrittore particolare, si osservi l’analogia di una lingua coll’altre, si notino le loro irregolarità, si rilevino col confronto i loro pregi o difetti, e così discorrendo. Questo è quello, che l’autore della presente gramatica si è proposto di fare, e che egli si è studiato di eseguire coll’ordine, colla chiarezza, e colla precisione maggiore.

Della parte metafisica egli è debitore ai signori Lancelot, e Du Marsais, al Trattato delle lingue italiana, e latina dato alla luce alcuni anni sono da un celebre professore di que/VII/sta R[egia] Università, e alle proprie riflessioni; della parte gramaticale al Buommattei, al Cinonio, al Corticelli, al Soresi, e alla lettura diligente de’ migliori italiani scrittori. Circa a quest’ultima egli ha creduto di dover discendere

 

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 a tutte le particolarità ancor più minute, che giovar possano a chi ama d’apprendere la lingua italiana fondatamente: e quanto alla prima nel tempo stesso, ch’egli s’è studiato di analizzare esattamente tutto ciò, che può maggiormente interessare la metafisica delle lingue, ha procurato anche di farlo in modo, che nulla fosse tuttavia superiore all’intelligenza comune.

Per soddisfare poi chi amasse in questa parte meditazioni ancor più profonde egli spera di pubblicar fra non molto alcune sue Ricerche intorno all’istitu/VIII/zione delle lingue, e la loro influenza su le umane cognizioni, nelle quali stabilita l’ipotesi di due fanciulli di sesso diverso abbandonati in un’isola deserta, ei fa vedere come crescendo, e moltiplicandosi potranno questi formare a poco a poco una vera, e perfetta società, come potranno istituire una lingua, e come le loro cognizioni, di cui determina la picciolissima estensione nello stato naturale, coll’istituzione de’ segni articolati verranno di mano in mano accrescendosi, e perfezionandosi.

Voi accogliete frattanto di buon grado, leggitori cortesi, ciò ch’egli or vi presenta, e vivete felici.

 

 

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/1/GRAMATICA RAGIONATA

DELLA

LINGUA ITALIANA

 

INTRODUZIONE

Delle parti del discorso in generale

 

Il fine di ogni nostro discorso egli è quello di manifestare ad altri i nostri pensieri. A ciò sono necessarj in primo luogo i nomi, ed i verbi; e queste due parti sono di necessità assoluta.

Per ben comprenderlo basta osservar prima come nascano in noi l’idee, e come da noi si combinino; indi ciò che è richiesto per poterle palesare ad altrui. /2/ Io assaggio per esempio un frutto, e lo trovo amaro. Due idee si formano nella mia mente, una dell’oggetto, che è il frutto, e l’altra della qualità ch’egli ha d’esser amaro, ossia di produrre in me quella sensazione disgustosa, che io chiamo amarezza. Or se vorrò manifestare ad alcuno l’idea che in me si è destata di quest’oggetto, converrà che adoperi un qualche segno, com’è la parola frutto; se vorrò esprimere l’idea della sua qualità, bisognerà che n’adoperi un altro, qual è la parola amaro. Ma quei segni con cui si esprimono l’idee degli oggetti, come frutto, albero, terra, acqua, cielo ecc., si chiamano nomi sostantivi, e quelli con cui s’esprimono l’idee delle qualità, come amaro, dolce, bianco, nero ecc., si chiamano nomi aggettivi. Conciossiaché adunque il parlare consista principalmente nel significare agli altri l’idee che abbiamo degli oggetti, e delle lor

 

 

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 qualità: ognun vede che i segni, che servono ad esprimere queste idee, cioè i nomi son nel discorso assolutamente necessarj.

/3/ Ma dopo che in me si è destata l’idea del frutto, e della amarezza; d’essere nata l’una all’occasione dell’altra fa, che naturalmente insieme io le combini; e sapendo che il frutto è quello, che in me ha prodotto la sensazione amara, dica fra me medesimo: questo frutto è amaro, o ha la qualità di essere amaro. Quell’atto della nostra mente, con cui ella afferma, o nega fra sé che una qualità convenga ad un oggetto si chiama giudicio. Ora se io vorrò esprimere con parole ad un altro questo mio giudicio, non basterà ch’io dica semplicemente frutto amaro, perché con questo risveglierò bensì l’idea del frutto, e della qualità, che si significa col nome amaro; ma non farò già intendere, che questa qualità si trovi nel frutto, di cui io parlo. Converrà adunque aggiugnervi qualch’altro segno, e dire per esempio il frutto è amaro; e questo segno con cui si afferma che una qualità si trova in un oggetto è quello, che chiamasi verbo.

/4/ [1.] Ogni giudicio della nostra mente espresso colle parole si dice essere una proposizione, vale a dire tale si chiama ogni serie di parole, con cui si affermi, o si neghi, che una proprietà convenga ad un oggetto; quindi il frutto è amaro sarà una proposizione, il frutto non è dolce sarà un’altra. E in ogni proposizione il nome dell’oggetto, in cui si afferma, o si nega l’esistenza della tale, o tal altra qualità si dice il soggetto, il nome della qualità, che al soggetto s’attribuisce, si chiama l’attributo, e il verbo si chiama copula dal latino copulare, perché serve ad unire l’attributo col soggetto mostrando la convenienza, o disconvenienza dell’uno coll’altro. Quindi nella prima proposizione il frutto sarà il soggetto, amaro sarà l’attributo, e il verbo è sarà la copula. Or non essendo ogni nostro discorso che una serie più, o men lunga di proposizioni, ella è manifesta la necessità e de’ nomi, e de’ verbi, senza di cui niuna proposizione si può formare.

/5/ Le altre parti del discorso non sono di una necessità egualmente assoluta, ma sono però di una grandissima utilità.

E primieramente sovvente accade di dovere in due, o più proposizioni successive parlare del medesimo oggetto. Ora il ripetere sempre

 

 

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 lo stesso nome formerebbe una replica troppo nojosa. Usiamo adunque di sostituirvi alcuni aggettivi, che ne risveglin l’idea, quali sono egli, lo stesso, il medesimo ecc., e questi dall’ufficio, che fanno si chiaman pronomi; così in vece di dire: «Pirro cercò di corromper Fabrizio colle ricchezze: ma Fabrizio con animo forte ricusò le ricchezze», diciamo: «ma egli – o questi – con animo forte le ricusò».

2. Oltre all’idea della convenienza, o disconvenienza di una qualità con un oggetto noi vogliamo sovvente destare anche quella di una qualche relazione, che tale oggetto abbia con altri, il qual nome di relazione significa ciò che una cosa è rispetto ad un’altra, o paragonata ad un’altra. Or questo potrebbe ben farsi alcune volte coi nomi, e coi ver/6/bi soltanto: ma il discorso per lo più verrebbe lungo, e intralciato di modo, che non si potrebbe intendere agevolmente. Per esprimere adunque le relazioni con più chiarezza, e più brevità si sono introdotte alcune voci, che si chiamano preposizioni, perché si sogliono sempre premettere ai nomi, con cui ha relazione l’oggetto del quale si parla, e sono di, a, da, per, con ecc. Quindi dicendo: «Pietro passeggia con Paolo» la preposizione con indica tosto la relazione di compagnia, che uno ha coll’altro; laddove se non si volesse far uso di niuna preposizione, converrebbe dire: «Pietro passeggia; egli ha un compagno; questo compagno è Paolo».

3. Tutti i verbi, eccettuato il verbo essere, contengono in sé oltre all’affermazione anche un aggettivo, che vien poi ad essere l’attributo della proposizione; così amare è lo stesso che esser amante, vivere è lo stesso che esser vivente. Da questo viene, che per esempio Pietro ama, Pietro vive sono due proposizioni compiute, benché sembri, che non /7/ vi sia se non il soggetto, ed il verbo, perché gli attributi sono gli aggettivi amante, e vivente inchiusi nei verbi medesimi. Ora dicendo: Pietro ama, o è amante, vive, o è vivente, il verbo è esprime in primo luogo l’esistenza di Pietro, in secondo luogo afferma, che a lui convengono gli attributi amante, o vivente. Ma tanto l’esistenza, e l’affermazione espresse dal verbo essere, quanto le proprietà espresse dagli attributi posson ricevere varie modificazioni. Io posso per esempio affermare con certezza, o con dubbio che Pietro viva, e vario può

 

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 essere il luogo, il tempo, il modo, in cui egli vive, o è vivuto. Tutte queste modificazioni si potrebbero indicare bastantemente colle preposizioni, e coi nomi, dicendo: «Pietro vive senza dubbio, vive in questo luogo – o in questo tempo – vive con felicità». Ma per abbreviare il discorso, e per variarlo s’adopera in vece d’una preposizione, e d’un nome una sola parola, che a loro equivale, e si chiama avverbio perché serve ad esprimere una qualche modifi/8/cazione del verbo, o dell’attributo, che in lui si contiene; onde si dice: «Pietro vive certamente, qui, ora, felicemente».

            4. Per lo stesso fine d’abbreviare il discorso, e di variarlo si usa pure spesse volte di cangiare i verbi in nomi aggettivi, come sono amante, amato; vedente, veduto ecc., i quali perché partecipan del nome, e del verbo, si chiamano participj. La loro proprietà si è quella di ridurre due, o più proposizioni in una sola. E a questo uso pur servono alcuni altri nomi derivati dai verbi, e che perciò si dicon verbali, come amatore, conoscitore ecc. Oltreché in vece dei participj amante, vedente ecc., spesso si adoprano i gerundj amando, vedendo, che fanno lo stesso ufficio, e si chiaman gerundj perché hanno la terminazione del gerundio dativo dei Latini. Come sappiano questi nomi ristringere il numero delle proposizioni si potrà osservar di leggieri ne’ seguenti versi del Petrarca:

 

Giunto Alessandro alla famosa tomba

Del fero Achille sospirando disse ecc.

 

Qui non abbiamo che una sola proposi/9/zione: laddove sostituendo alle voci giunto, e sospirando i verbi, da cui derivano, le proposizioni sarebber tre: Giunse Alessandro alla famosa tomba del fero Achille; ivi egli sospirò; e disse ecc. Che le parole di Alessandro fossero: «Perché non ho io pure un Omero celebratore delle mie imprese?», questa proposizione equivarrebbe anch’essa alle due: Perché

 

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 non ho io pure un Omero; che celebri le mie imprese?.

            5. Se nel discorso le proposizioni fossero tutte staccate senza niuna connessione, egli verrebbe sovvente oscurissimo, e inintelligibile. Per unire adunque le proposizioni una coll’altra si sono introdotte alcune altre voci, che perciò chiamansi congiunzioni, e sono e, ma, benché, pure ecc. Queste nel medesimo tempo servono ad un altr’uso grandissimo, ed è quello di risparmiare la replica di molte parole, che altrimenti necessariamente si dovrebbon ripetere; così nell’esempio anzidetto: ivi egli sospirò, e disse, la congiunzione e oltre a connettere le due proposizioni risparmia la ri/10/petizione del soggetto egli e dell’avverbio ivi, che altrimenti sarebbe necessaria.

            6. Finalmente per esprimere gli affetti dell’animo più naturalmente, e con più forza si sogliono adoperare alcune voci, che chiamansi interposti, o interjezioni, perché s’usano d’ordinario frammezzo al discorso, benché s’adoprino spesse volte anche al principio; e sono oh, ahi, deh ecc. Queste voci equivalgon ciascuna ad un’intera proposizione; così ahi equivale alla proposizione: io son dolente, o io sento dolore, ed esprime poi la sensazion di dolore, che uno ha, con molto maggiore energia che non farebbe la proposizione medesima, accostandosi la voce ahi ad uno di quei gridi, che il dolore trae naturalmente da uno appassionato.

            Da questa enumerazione delle parti del discorso, e dei loro usi si vede chiaramente, che oltre ai nomi, ed ai verbi le altre non sono di una necessità assoluta: ma sono però di grandissima utilità, perché rendono il favellare più /11/ breve, più chiaro, più ordinato; e per questo si sono introdotte in tutte le lingue.

            Dovendo ora passare a discorrere di ciascuna di esse particolarmente, e delle regole con cui si devono presso noi adoprare (nell’ordinata esposizione, e dichiarazione delle quali consiste la gramatica di una lingua) tratteremo in primo luogo del nome, e del pronome, quindi del verbo, e del participio, che sono le parti, che chiamansi declinabili, perché soggette a varj cambiamenti di desinenza; appresso dell’avverbio, della preposizione, della congiunzione, e dell’interposto, che sono le parti indeclinabili; poi del modo, con cui queste parti

 

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 insieme si debbono combinare nel discorso, vale a dire della sintassi; e finalmente della maniera di esporre un discorso correttamente in iscritto, cioè dell’ortografia.

 

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/12/PARTE I

DEL NOME, E DEL PRONOME

 

 

Abbiam già detto, che i nomi sostantivi sono que’ segni, che esprimon gli oggetti, e i nomi aggettivi quelli, che esprimono le qualità. Or sarà bene prima di passar oltre accennar brevemente l’origine di questa denominazione di sostantivo, e di aggettivo.

            Negli oggetti noi propriamente non vediamo, e non sentiamo, che le loro qualità, cioè l’estensione, la solidità, la figura, il colore ecc. Ma queste qualità non sussistono da sé medesime. S’io prendo in mano a cagion d’esempio una palla d’argento, posso ben considerare separatamente ora la sua rotondità, ora la sua bianchezza, or la durezza ecc. Ma questa rotondità, questa bianchezza, questa durezza levate via dall’argento posson elle sussistere di per sé stesse? No. Come dunque sussistono nell’/13/argento? Qual è quella cosa, che nell’argento le tien congiunte, e le sostiene? Questo è quello, che non sappiamo. Per saperlo converrebbe conoscere l’intima essenza dell’argento, saper cioè che cosa egli sia in sé stesso, che cosa formi la sua intima natura; il che probabilmente dagli uomini non si arriverà a conoscer giammai. Ma qualunque siasi questa cosa, noi concepiamo però, che nell’argento (e così dicasi degli altri oggetti) vi ha qualche cosa, che sta come nascosta sotto alle sue qualità, e serve loro di vincolo, e di sostegno. Or questa cosa qualunque siasi è quella, che da’ filosofi si chiama sostanza dal latino sub stare ‘star sotto’.

            Ma il nome di sostanza non è limitato ad esprimere solamente ciò che negli oggetti serve di vincolo, e di sostegno alle qualità. Egli si adopera ancor più generalmente per significare gli oggetti medesimi: ed ogni cosa, che sussiste di per sé stessa si chiama generalmente una sostanza. Or di qui è che i nomi degli oggetti, come Pietro, Paolo, /14/ uomo, albero, frutto, oro, argento ecc., si dicono sostantivi. Tali

 

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essi si chiamano, perché esprimenti le sostanze, cioè le cose, che sussistono da sé medesime.

            All’opposto perché le qualità da sé non sussistono, ma non sono, che altrettante modificazioni aggiunte alla sostanza degli oggetti, perciò i loro nomi, come bianco, nero, rotondo, quadrato ecc., si appellano aggiuntivi, o aggettivi.

            Ma anche le qualità si consideran talvolta separatamente dagli oggetti come se da sé medesime sussistessero. In tal caso anche i loro nomi diventano sostantivi, quali sono bianchezza, nerezza, rotondità ecc. Ma di questi parleremo fra poco più distintamente.

            Or sarà d’uopo premetter prima alcune nozioni generali riguardo ai nomi necessarie per ben intendere quel che verrà in appresso: e passar quindi ad esporre le regole, che nell’uso di essi nella nostra lingua si devono osservare.

 

 

/15/CAPO I

Dei nomi particolari, e universali,

ossia proprj, e appellativi

 

Le prime idee, che gli uomini acquistano sono tutte d’oggetti particolari. Un bambino comincia ad acquistar per esempio l’idea di suo padre, di sua madre, della nutrice ecc. Vedendo poi, che altri oggetti hanno le stesse proprietà, e fanno le stesse operazioni, che suo padre, e sua madre, comincia a rifletter fra sé a queste proprietà comuni prescindendo dagli oggetti particolari, in cui elle esistono, e allora vien formando l’idea universale degli uomini. L’idea adunque universale non è altro, che la cognizione delle proprietà, che competono a più oggetti particolari. Ora i nomi esprimenti l’idee di questi oggetti particolari diconsi particolari, o proprj; come sono Parma, Piacenza,

 

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 Paolo, Pietro ecc., e quei che esprimono l’idee universali delle classi in cui si contengon gli oggetti, /16/ che hanno le stesse proprietà, si chiamano universali, o appellativi, quali sono città, uomo, albero, frutto ecc.

Se noi considereremo queste classi universali, vedremo che alcune sono fra loro diverse, altre hanno della somiglianza. Le pietre per esempio sono molto differenti dagli uomini; ma all’opposto i cavalli, i cani, i pesci, gli uccelli ecc., hanno questo di comune cogli uomini, che anch’essi si movon da sé, vivono, sentono ecc. Or siccome gli oggetti particolari fra loro simili si riducono sotto d’una medesima classe universale, così anche le classi, che hanno della simiglianza fra loro s’uniscono sotto d’un’altra classe più universale. Così gli uomini, e le bestie, che separatamente formano due classi distinte, entrano tutti insieme nella classe, che chiamasi degli animali. Medesimamente gli alberi che sono simili all’erbe, ai fiori, alle biade in questo, che tutti prendono il nutrimento dalla terra, germogliano, crescono ecc., si comprendono insieme con loro, sotto d’una medesima classe,  /17/che dicesi dei vegetabili. Questi insieme coi minerali, colle pietre, e con tutte le altre cose materiali s’uniscono nella classe dei corpi; i corpi, e gli spiriti in quella delle sostanze, le sostanze finalmente insieme colle qualità, e con tutto ciò, che dalla nostra mente si può concepire, si comprendono sotto alla classe universalissima degli enti.

            Or è da osservare, che le classi contenute in un’altra più universale si

chiamano specie, e quella che le contiene si dice genere. Quindi è, che una classe medesima può esser genere rispetto ad una, e specie rispetto ad un’altra classe: così animale è specie rispetto a sostanza, e genere rispetto ad uomo; uomo che è specie relativamente ad animale sarà genere rispetto alle varie classi degli uomini; e così via via finché s’arriva agli oggetti particolari, che chiamansi individui.

            Or si potrebbe domandare per qual motivo alcuni oggetti particolari oltre al nome universale della lor classe abbian anche un nome proprio, e distin/18/to, altri no. Gli uomini diffatti, le città, i fiumi oltre a questi nomi appellativi hanno ciascuno i loro proprj, come Pietro, Paolo, Parma, Piacenza, il Taro, il Po; al contrario i frutti (e così si

 

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dica degli alberi, delle pietre ecc.) hanno bensì varj nomi secondo le loro varie specie, come mele, castagne, pere; ma non già ciascun individuo un nome distinto. Ciò viene dal bisogno che abbiamo nei primi di spesso nominare il tal uomo, la tal città, il tal fiume particolare, il che non avvien nei secondi. Perciocché se uno ha desiderio per esempio di mangiare una pera, bisognerà bene che abbia il nome pera, con cui indicare che vuol un frutto di questa specie, e non d’un’altra: ma nel medesimo tempo purché gli si dia una pera, che importa a lui che sia piuttosto la tale, che tal altra particolare? Egli non occorre adunque che stabilisca un nome particolare per accennarla. Senzaché questa briga a che servirebbe, se subito dopo ch’egli avesse dato alla pera un nome proprio, /19/ ei se la mangerebbe, e le torrebbe così l’occasione di essere nominata mai più? Che se pure volesse accennarne una particolarmente, non mancan maniere di farlo, come vedremo nel capo 6 di questa parte, senza che sia necessario di stabilire un nome proprio per ciascuna.

 

 

CAPO II

Dei sostantivi, e aggettivi

fisici, e metafisici

 

Tutti i nomi degli oggetti fisicamente, e realmente esistenti, siano particolari, siano universali si chiamano sostantivi fisici; come similmente aggettivi fisici si chiamano i nomi delle qualità o reali, cioè che realmente esistono negli oggetti, come esteso, solido, figurato, o apparenti, cioè che sembrano esistere negli oggetti medesimi, come bianco, nero, caldo, freddo, quantunque in loro non vi sia che una certa configurazione, un certo moto, una certa disposizione di parti, atte a produrre in noi quelle sensazioni, a cui diam poi il /20/ nome di colore, di caldo, di freddo.

            Ma osservando noi varj oggetti, non possiamo a meno di fare qualche paragone fra loro, dal quale poi nascono in noi le idee delle relazioni, che fra lor passano, nome, che abbiamo già detto nella introduzione

 

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significare appunto ciò che una cosa è rispetto ad un’altra, o paragonata ad un’altra. Or gli aggettivi grande, piccolo, maggiore, eguale, minore, bello, brutto, buono, cattivo, virtuoso, vizioso ecc., con cui poscia esprimiamo queste idee relative, propriamente si chiamano aggettivi relativi: ma si dicon anche metafisici, perché non indicano alcuna qualità reale, né apparente di alcun oggetto, ma unicamente una nostra maniera di concepire le cose una rispetto all’altra.

            Sebbene poi come abbiamo veduto, niuna qualità possa esistere da sé fuori del suo soggetto, pure noi siamo soliti di considerarle talvolta da sé medesime separatamente, senza aver riguardo al soggetto in cui sono. Dopo avere per esempio sovvente osservato nella ne/21/ve, nell’argento, nel latte, nell’avorio, nel marmo il color bianco, formiamo di questo colore un’idea, considerando lui solo, senza badare agli oggetti, in cui l’abbiamo osservato, e a quest’idea diamo il nome di bianchezza. Or quell’atto della nostra mente, col quale consideriamo una qualità separatamente da sé senza badare agli oggetti, in cui ella si truova chiamasi astrazione; l’idee che formiamo delle qualità così da sé sole considerate si dicon idee astratte, e i nomi con cui le esprimiamo, quali sono figura, estensione, colore, durezza, calore, freddo ecc., s’appellano sostantivi astratti, o metafisici.

            Questa astrazione medesima si fa ancora delle qualità relative, e i nomi eguaglianza, bellezza, bruttezza, virtù, vizio ecc., con cui elle s’esprimono, sostantivi astratti, o metafisici similmente s’appellano.

 

 

/22/CAPO III

Dei generi

 

Premesse queste nozioni passiamo ora alle regole della nostra lingua riguardo all’uso dei nomi. Sono essi distinti in due generi maschile, e femminile; divisione inesatta, perché non dovrebbe competere, che ai soli animali, in cui v’ha distinzione di sesso, e le cose inanimate dovrebbero tutte porsi in un terzo genere diverso dai primi due, qual sarebbe il genere neutro dei Greci, e dei Latini, se in esso tutte le

 

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 cose inanimate essi avessero collocato.

            Il genere dei nomi si scorge dalla lor terminazione, la quale perché fosse regolare non dovrebbe essere, che una sola per tutti i maschili, e un’altra sola per tutti i femminili; ma anche questa regolarità manca sì alla nostra, che alle altre lingue. Né è maraviglia, perché si sono tutte formate a poco a poco, né è stato possibile, che nella introduzione di nuovi vocaboli si tenesse /23/ sempre da tutti una regola fissa, e costante di collocarli nel loro genere convenevole, e di terminare tutti quei dello stesso genere a un medesimo modo.

            Questa irregolarità di terminazione si trova massimamente nei sostantivi; tutta volta la desinenza in -o è propria per lo più dei maschili, eccettuandone mano, alcuni nomi proprj derivati la maggior parte dal greco, come Saffo, Erato, Cloto, Atropo, Aletto, e alcuni nomi accorciati, che s’usano di frequente in poesia come Dido, Cartago, immago, testudo in vece di Didone, Cartagine, immagine, testudine.

In -a cadono per lo più i femminili, trattine varj nomi proprj, come Andrea, Ermagora, Anassagora, alcuni nomi di dignità, come papa, patriarca, alcuni nomi di professione, come geometra, poeta, leggista, moralista, e alcuni altri nomi cavati quasi tutti dal greco, come dramma, epigramma, stemma, diadema, poema, problema, e simili.

/24/ Le desinenze in -e, in -u, in -i, e in tutte le vocali accentate sono comuni all’incontro tanto ai maschili, quanto ai femminili.

            Quando i nomi dalla desinenza in -o passano a terminare in -a, di maschili divengono femminili, come cavallo, e cavalla; colombo, e colomba; passero, e passera; e ciò avviene ancora nelle cose inanimate, come orecchio, e orecchia; nuvolo, e nuvola; bricciolo, e briciola.

            Ma i nomi degli alberi, e dei frutti variando di terminazione non solo varian di genere, ma ancora di significato, perché terminati in -o

 

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sono maschili, e significan l’albero, terminati in -a son femminili, ed esprimono il frutto, tali sono castagno, e castagna, pero, e pera, ciriegio, e ciriegia ecc. S’eccettuin fico, arancio, cedro, e pomo, che terminan sempre in -o maschile, e significan tanto l’albero, come il frutto.

            I nomi all’incontro, che cadono indifferentemente in -a, e in -e, ovvero in -o, e in -e, ovvero in -o, in -e, e in -i, ritengon sempre il medesimo genere. Così /25/ ala, e ale; arma, e arme; canzona, e canzone; dota, e dote; froda, e frode; macina, e macine; fronda, e fronde; redina, e redine; scura, e scure; tossa, e tosse; vesta, e veste, son tutti femminili (s’eccettui gregge, che è maschile, e cadendo in -a fa greggia femminile). Così similmente cavaliero, e cavaliere; sentiero, e sentiere; consolo, e console; pensiero, e pensiere; scolaro, e scolare; barbiero, barbiere, e barbieri; destriero, destriere, e destrieri; mestiero, mestiere, e mestieri, son tutti maschili: ma tra questi è da notare, che ale, arme, canzona, dota, macine, scura, tossa, barbieri, e destrieri son poco in uso.

            Vi sono dei nomi, che hanno una sola terminazione, e s’adoprano in amendue i generi come aere, arbore, fine, fune, fonte, fronte, trave, ordine, carcere, domane, margine: ma arbore, fune, fronte, e trave s’usano ordinariamente nel femminile, e aere, ordine, domane, e margine nel maschile; onde fine, fonte, e carcere, sono i soli, che s’usino /26/ più comunemente e nell’uno, e nell’altro genere. Anche i nomi delle città, come Milano, Firenze, Napoli s’adopran egualmente nell’uno, e nell’altro genere, eccetto quelle che cadono in -a, le quali son sempre femminili. Le lettere dell’alfabeto son pure di amendue i generi perché si dice egualmente una b, una c, e un b, un c.

            Circa agli animali ve n’hanno alcuni, il cui nome s’adopera o solamente al maschile, come tordo, merlo, fringuello, o solamente al femminile come aquila, volpe, tortora. Degli altri quale ha per la femmina un nome affatto diverso dal maschio, come bue, e vacca; quale cambia la terminazione dall’-o in -a, come sopra abbiamo veduto; quale s’adopera colla medesima terminazione in ambi i generi, come il serpe, e la serpe, il lepre, e la lepre.

 

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            Negli aggettivi vi ha maggior regolarità, perché la terminazione in -o

non appartiene che ai maschili, e in -a ai femminili; quella in -e, e in -i però anche fra loro è comune ad amendue i generi.

 

 

/27/CAPO IV

Dei numeri

 

Siccome due i generi, così anche due sono i numeri nella nostra lingua. Quando si vuol accennare un oggetto solo il suo nome si termina ad un modo, e allora egli si dice essere del numero singolare, o del meno; quando si vuole significarne più d’uno, il nome si termina ad un altro, e allora si dice essere del numero plurale, o del più.

            Le desinenze di cui abbiamo parlato nel capo precedente sono quelle, che i nomi secondo il loro diverso genere hanno nel numero singolare.

            Nel plurale tutti i maschili finiscono sempre in -i qualunque sia la lor terminazione singolare, e però da sonetto, poema, sermone, si fa sonetti, poemi, sermoni; eccettuati soltanto quei nomi, che son monosillabi, o cadono in vocale accentata, che conservano ancor nel plurale, la stessa desinenza o siano maschili, o femminili; laonde si dice egual/28/mente un re, una città, una tribù, come molti re, molte città, molte tribù. Alle volte però si sogliono questi nomi nel singolare terminare anch’essi alla maniera degli altri, aggiungendovi una sillaba, come rege, cittate, o cittade; virtute, o virtude, e allor nel plurale finiscono in -i come regi, cittati, virtuti; o cittadi, e virtudi; ma queste maniere son più del verso, che della prosa.

            Vi sono alcuni nomi maschili, che nel numero del meno cadono soltanto in -o, e in quello del più oltre la desinenza in -i ne hanno anche un’altra in -a, colla quale divengono femminili. Tali sono anelli, e anella; bracci, e braccia; calcagni, e calcagna; carri, e carra;

 

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castelli, e castella; cigli, e ciglia; coltelli, e coltella; comandamenti, e comandamenta; corni, e corna; demonj, e demonia; diti, e dita; fili, e fila; fondamenti, e fondamenta; frutti, e frutta; fusi, e fusa; gesti, e gesta; ginocchi, e ginocchia; gridi, e grida; labbri, e labbra, e in verso anche labbia; legni, e legna; lenzuoli, e lenzuola; letti, e /29/ letta; membri, e membra; mulini, e mulina; muri, e mura; ossi, e ossa; peccati, e peccata; quadrelli, e quadrella; risi, e risa; sacchi, e sacca; tini, e tina; vestigj, e vestigia; vestimenti, e vestimenta. Ma coltella, comandamenta, demonia, letta, mulina, peccata, tina, son da lasciarsi a chi ama di singolarizzare. All’opposto braccia, calcagna, ciglia, dita, gesta in significato d’imprese, ginocchia, labbra, membra, ossa, quadrella, e risa, son meglio usati, che bracci, calcagni ecc. Si trova anche frutte, geste, legne, osse, e  vestigie; ma i primi tre vengono dai singolari femminili frutta, gesta, legna. Gli antichi usaron anche fruttora, campora, pratora, e simili: ma queste parole or sono affatto antiquate. V’han finalmente alcuni nomi maschili, che nel plurale cadono solamente in -a, come le centinaja, le migliaja, le miglia, le moggia, le staja, le paja, le uova.

            I femminili, che nel singolare finiscon in -a hanno il plurale in -e, come musa, e muse, e quei che finiscono in -e l’hanno in -i, come madre, e madri: /30/ si eccettuin requie, specie, superficie, barbarie, serie, e progenie, che ritengono anche in plurale la stessa terminazione per ischifare la cacofonìa, o sia il cattivo suono, che nascerebbe dai due i, se si dicesse reqii, specii ecc. Quelli poi, che hanno nel singolare la doppia terminazione in -a, e in -e, hanno anche nel plurale la doppia terminazione in -e, e in -i; onde ale e ali; arme, e armi; canzone, e canzoni; dote, e doti; frode, e frodi; macine, e macini; fronde, e frondi; redine, e redini; scure, e scuri; tosse, e tossi; veste, e vesti; ma canzone, dote, frode, macini, scure, tosse, e veste non sono del miglior uso.

 

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            Un’osservazione da farsi riguardo ai plurali si è, che i nomi maschili terminati nel singolare in -co, e -go se hanno avanti a queste sillabe una consonante, nel plurale finiscono in -chi, e -ghi, come da palco palchi, da albergo alberghi; trattone porco, che fa porci; se hanno una vocale finiscono per lo più in -ci, e -gi come da medico, e teologo medici, e teologi; ma ve ne sono però molti ec/31/cettuati, come fichi, antichi, fuochi, cuochi, pochi, biechi, ciechi, roghi, luoghi, dialoghi, analoghi, ed altri; e ve ne son pure alcuni, che hanno amendue le desinenze, come mendici, e mendichi, pratici, e pratichi, salvatici, e salvatichi, domestici, e domestichi, astrologi, e astrologhi. Nei femminili la cosa è più regolare, perché quei che finiscono in -ca, e -ga siano queste sillabe precedute da una consonante, o da una vocale, hanno tutti il plurale in -che, e -ghe, come da monaca, e verga, monache, e verghe.

            Si dee osservare per ultimo, che alcuni nomi s’adoprano solamente al singolare, come fra i sostantivi mele, e mane in significato di ‘mattina’, e fra gli aggettivi niuno, veruno, ciascuno, qualche (1) , qualunque, e simili. Altri all’/32/opposto non s’usano che al plurale, come nozze, esequie, e vanni.

 

 

CAPO V

Delle declinazioni

 

Da quello, che abbiam veduto nei due capi precedenti, è chiaro che le varie terminazioni dei nomi hanno due usi, nella nostra lingua cioè di risvegliare con una sola voce non solo l’idea di quell’oggetto, o di

 

1 Di qualche usato in plurale v’ha un esempio nel Boccaccio:

Addormentato in qualche verdi boschi;

ma da non seguirsi. A qualunque allorché si voglia plurale si sostituisce quantunque, come nel Petrarca:

Fra quantunque leggiadre donne, e belle (N.d.A.).

La prima citazione in realtà non è di Boccaccio, ma di Petrarca (RVF, CCXXXVII, 32: «adormentato in qua’ che verdi boschi»); la seconda è tratta da RVF, CCXVIII, 1 («Tra quantunque leggiadre donne et belle»).

 

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 quella qualità, che dal nome è significata; ma l’idea ancora del suo genere o maschile, o femminile, e della sua unità, o moltiplicità: così il nome colombo non solo fa pensare all’oggetto che egli esprime, ma spiega eziandio, che si parla di un maschio, e di un solo; e colombe fa conoscere che si parla delle femmine di questa specie e di più d’una.

            I Greci, ed i Latini valevansi delle diverse terminazioni dei nomi ancora ad un altr’uso, ed era d’esprimer con esse varie di quelle relazioni, che noi esprimiamo per via delle preposizioni. /33/ Le desinenze variate a questo fine chiamavansi casi, e i nomi che nella variazione de’ loro casi terminavano al medesimo modo, dicevansi della medesima declinazione. Ma nella nostra lingua per esprimere le relazioni mai non si varia la desinenza de’ nomi; e i casi si significan invece con alcune preposizioni, che perciò comunemente si dicono segnacasi.

            Pel nominativo, e per l’accusativo s’adopera il nome semplice, o accompagnato soltanto dall’articolo il quale pei maschili è il, o lo nel singolare, e i, li, o gli nel plurale; e pei femminili la nel singolare, e le nel plurale.

            Lo, e gli si usano quando il nome comincia per s impura cioè seguita da un’altra consonante, o per z, o per vocale (nel qual caso però si fa per lo più l’elisione dell’-o, in lo, ed anche dell’-i in gli se la vocale seguente è un i, non già se è diversa); onde si dice lo studioso, lo zotico, lo amore, o l’amore, lo innamorato, o l’innamorato; e gli studiosi, gli zotici, gli innamorati, o /34/gl’innamorati, e gli amori, ma non gl’amori, del che recherem la ragione nell’ortografia. Il, i, e li s’usano quando il nome comincia per qualunque altra consonante fuori della s impura, e della z, trattone dei, che vuol gli, onde si dice gli dei, non i dei, o li dei; e li s’usa di rado ancora cogli altri nomi, che tutti amano d’essere accompagnati piuttosto dall’i, come i campi, i prati, i fiori, non li campi, li prati, li fiori. Quando poi ai nomi si debba dare l’articolo, e quando no, il vedremo nel capo seguente.

            In vece della terminazione del genitivo si premette al nome la preposizione di, in vece del dativo la preposizione a, e in vece dell’ablativo le preposizioni da, per, con, in ecc., e ciò qualunque sia il genere,

 

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 e ’l numero del nome, ov’egli non debba essere accompagnato dall’articolo.

            Quando poi ha l’articolo, questo s’unisce colle preposizioni, e se ne formano del, dello, e della; al, allo, e alla; dal, dallo, e dalla; nel, nello, e /35/ nella pel singolare (in poesia si tollera anche in la) e de’, dei, delli, degli, e delle; a’, ai, alli, agli, e alle; da’, dai, dalli, dagli, e dalle; ne’, nei, nelli, negli, e nelle pel plurale: ma delli, alli, dalli, e nelli son da schifarsi.

            Per unito all’articolo fa pel, o per lo, e per la nel singolare (per il rigorosamente non può dirsi); e pe’, o pei o per gli, e per le nel plurale (per i è riguardato come errore; per li si truova usato da molti, ma da’ migliori gli si preferisce pe’, o pei; gli antichi usarono anche pella, e pelle, ma non sono seguiti).

            La preposizione con ama anch’essa d’incorporarsi coll’articolo, e far col, collo, e colla nel singolare, e co’, coi, cogli, e colle nel plurale piuttosto che andarne staccata facendo con lo, con la, con gli, e con le; molto meno poi con il, con i, e con li.

            Ecco due esempi di due nomi di diverso genere colle loro preposizioni e senza l’articolo, e coll’articolo.

 

 

/36/Singolare

 

 

padre 

 

madre

 

 

il

padre

la

madre

di

padre

di

madre

 

 

del

padre

della

madre

a

padre

a

madre

 

 

al

padre

alla

madre

 

padre

 

madre

 

 

il

padre

la

madre

da

padre

da

madre

 

 

dal

padre

dalla

madre

 

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Plurale

 

 

padri

 

madri

 

 

i

padri

le

madri

di

padri

di

madri

 

 

dei

padri

delle

madri

a

padri

a

madri

 

 

ai

padri

alle

madri

 

padri

 

madri

 

 

i

padri

le

madri

da

padri

da

madri

 

 

dai

padri

dalle

madri

           

Da questi esempi è manifesto, che ritenendo i nomi italiani sempre una medesima desinenza nel singolare, una medesima nel plurale, non si può dire ch’essi abbiano casi, e per conseguenza neppur declinazioni. Quindi in vece di dire il nominativo dovrebbe dirsi il soggetto della proposizione, perché il nome ponevasi dai Greci, e dai Latini in questo caso appunto per significare il soggetto; in vece del genitivo dovrebbe dirsi il nome accompagnato dalla preposizione di, e così discorrendo. Tuttavol/37/ta noi ci varremo e dell’una, e dell’altra denominazione secondo che per la chiarezza, e per la brevità sembrerà tornar più in acconcio.

 

 

CAPO VI

Dell’articolo, e degli aggettivi,

che determinan il significato de’ nomi universali

 

Noi abbiamo veduto nel capo 1 per qual motivo gli oggetti simili fra di loro si sian divisi in varie classi, e a ciascuna di esse si sia imposto un nome universale. Ora nel discorso noi vorremo tal volta di una, o d’un’altra classe d’oggetti risvegliare semplicemente l’idea, e allora basterà soltanto pronunciarne il nome. Ma vorremo talora altresì dichiarare, che parliamo o di tutta quella classe, o di una qualche sua parte (e questa ora sarà determinata, ora indeterminata), o soltanto di uno, o più oggetti particolari in lei conte/

 

BEGIN PAGE 22/

 

nuti. A questo fine non basta il pronunciare soltanto il nome della classe: ma /38/ conviene aggiugnervi qualche cosa, che indichi l’estensione maggiore, o minore, in cui vogliamo ch’ella si prenda.

I. Adunque quando si vuol comprendere tutta la classe, è necessario l’articolo, o uno degli aggettivi ogni, ognuno, ciascuno, tutti ecc. Quindi se io dirò: nel tal luogo non v’erano che uomini, ciò farà ben pensare, che gli oggetti, che in quel luogo trovavansi, erano della classe degli uomini, ma non esprimerà né quanti, né quali uomini fossero. Se dirò all’incontro: l’uomo deve essere ragionevole; gli uomini devono giovarsi scambievolmente, ognuno intenderà ch’io parlo di tutti gli uomini, e di doveri, che agli uomini tutti convengono.

            II. Quando si vuole accennare solamente una parte degli oggetti contenuti in una classe, ciò si può fare in più modi. Questi hanno tutti delle qualità, o delle relazioni comuni, per cagione di cui ad una classe medesima si riducono; e tali qualità, o relazioni non li posson distinguere gli uni, dagli altri: ma ne han anche di quelle, che convengo/39/no ad alcuni di loro solamente, e ciascheduno di più ne ha qualcuna sua propria e particolare. L’esser sensibile per esempio conviene a tutti gli animali: ma l’essere ragionevole conviene agli uomini solamente; quante siano poi le proprietà, e quanti i contrassegni che distinguono un uomo dall’altro ognuno il vede manifestamente. Or indicando queste qualità, o relazioni noi veniamo a ristringere il significato d’un nome universale a quegli oggetti soltanto, a cui esse appartengono. Questo può farsi in tre maniere: 1. cogli aggettivi esprimenti tali qualità, o relazioni, come dicendo corpi solidi, corpi fluidi, uomini virtuosi, uomini viziosi; 2. coll’aggiugnere al nome universale un genitivo, ossia un altro nome accompagnato dalla preposizione di, come monete d’oro, monete d’argento, il qual genitivo equivale sempre ad un aggettivo, come infatti d’oro, d’argento equivalgono ad aureo, argenteo; 3. coll’aggiugnervi una delle proposizioni, che chiamansi incidenti (delle quali si parlerà nel /40/capo 8 di questa parte più ampiamente), e che pure corrispondono ad un aggettivo; così corpo, che pesa vale lo stesso, che corpo pesante.

            Ma dopo che coll’aggiunta di queste qualità, o relazioni io avrò ristretto il significato del nome di una classe a quella parte di oggetti

 

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 solamente, a cui esse convengono, o vorrò di questa parte destare semplicemente l’idea senza determinarla di più, e allora sopprimerò l’articolo; così dicendo nei grandi affari sono necessarj uomini d’integrità, e di prudenza, non dico quanti, né quali: o vorrò determinatamente comprendere tutta questa parte, e sarà necessario l’articolo, o qualcuno degli aggettivi sopraccennati ogni, ognuno ecc.; quindi non potrò dire uomini virtuosi devon esser pregiati, ma gli uomini virtuosi, perché qui ben si vede, ch’io parlo di tutti quegli uomini, a cui conviene il titolo di virtuosi: o vorrò finalmente di questa parte accennare soltanto alcuni oggetti indeterminatamente, e potrò farlo in tre modi, cioè servendomi o dell’ag/41/gettivo alcuni, o della preposizione di senza l’articolo, o della preposizione medesima unita all’articolo, con cui si formano, come abbiamo già detto, le voci del, della, dei, delle ecc.; così là dove disse il Boccaccio gior[nata] 4, nov[ella] 4: «fece due galee sottili armare, e messivi su di valenti uomini; con essi sopra la Sardigna n’andò», avrebbe potuto dire ancora «messivi su dei valenti uomini», cioè alcuni valenti uomini. Si osservi però, che del, dello, della ecc., s’adoperan anche quando al nome universale non s’aggiugne niuna qualificazione, cioè quando si vuol esprimere una parte indeterminata di tutta una classe, come veggo degli uomini, vale a dire alcuni uomini; ma veggo di uomini non si può dire, né può mai usarsi in questo senso la preposizione di scompagnata dall’articolo, se non quando al nome universale vada unito qualche aggettivo. (2)

/42/ III. Quando poi col nome universale di una classe si vuol indicare uno, o più oggetti particolari in lei contenuti, o ciò si vuol fare indeterminatamente, e basta porvi gli aggettivi uno, qualche, qualcuno,

 

(2) La ragione di quest’uso è forse, che dicendo veggo degli uomini si sottintende veggo alcuni oggetti della classe degli uomini. Or non si potrebbe già dire: veggo alcuni oggetti della classe d’uomini, perché il nome uomini è determinato in questo luogo a tutta la classe, e richiede per conseguenza l’articolo. All’opposto poté ben dire il Boccaccio messivi su di valenti uomini, perché l’aggettivo valenti ristringe il significato di uomini ad una parte soltanto della sua classe, e di questa parte se ne prende un numero indeterminato, sottintendendovi una compagnia, un corredo, un buon numero di valenti uomini (N.d.A.).

 

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 certo, un certo, taluno, o tale, che s’usa anche nel medesimo senso di taluno, come per esempio: ho veduto una persona, o certa persona; vorrei qualche vostro libro, o qualcuno de’ vostri libri; vi ha taluno, o tale che antepone l’interesse all’onore ecc.; o si vuol determinare l’oggetto particolarmente, e in questo caso se l’oggetto è già noto a chi ascolta, o per le circostanze del discorso, o per altro checchessiasi, basta l’articolo solo; così avendo parlato /43/poc’anzi per esempio dell’Eneide di Virgilio, dirò il poema è bellissimo, i versi son pieni di dignità ecc., se poi non è noto bisogna esprimere o con un aggettivo, o con un genitivo, o con una proposizione incidente qualche contrassegno, che lo determini, e aggiugnervi pure l’articolo, che sempre è necessario quando un nome universale deve essere determinato. Dirò dunque per esempio le truppe romane, l’armi di Cesare, i regni che ha conquistato Alessandro.

IV. Quando però l’oggetto di cui io parlo sia o vicino a me, o vicino a chi m’ascolta, ancorché non sia noto per alcuna circostanza precedente, basterà per determinarlo aggiugnervi solamente gli aggettivi questo, o cotesto dicendo per esempio questo, o cotesto libro, queste, o coteste carte; perciocché l’aggettivo questo significa sempre una cosa vicina di luogo a chi parla, e cotesto a chi ascolta. Il primo s’adopera ancora per significare una cosa vicina di tempo, o vicina di discorso, cioè che poco prima si sia nominata; ma ad un /44/ tal uso non può servire il cotesto, che esprime solamente vicinanza di luogo, e vicinanza a chi ascolta. Per il che non sono da imitare coloro che avendo per esempio nominato innanzi le orazioni di Cicerone diranno coteste orazioni in vece di queste orazioni. Poiché malgrado qualche esempio contrario, che vi potesse essere anche di buono scrittore si deve sempre nel discorso conservare la proprietà de’ vocaboli, e non confonderne il senso.

            L’aggettivo quello siccome esprime una cosa distante, e da chi

 

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 parla, e da chi ascolta, e questa distanza può essere o maggiore, o minore, così per sé solo non basta a determinare l’oggetto se non si accenna col dito, o non si esprime qualche suo contrassegno.

            V. Per fissare la quantità degli oggetti si adoperano gli aggettivi numerali uno, due, tre ecc.: ma dicendo per esempio vorrei due libri esprimo bene quanti ne voglia, ma non già quali. Volendo dunque esprimere anche questo, converrà ch’io v’aggiunga o l’articolo solamen/45/te se son già noti o qualche altra determinazione di più nelle maniere che si son dette di sopra, se non son noti. Che se ci basta di accennarne una quantità indeterminata, ci serviamo allora degli aggettivi alcuni, certuni, e simili; se questa è grande diciam molti, assai, parecchi, varj, diversi, se è piccola diciamo pochi, o scarsi.

            VI. Gli aggettivi maggiore, e minore esprimono il paragone tra due quantità diverse, e perciò si chiamano comparativi. In loro vece spesso s’adoprano gli avverbj più, o meno sottintendendovi grande: come il tale ha più, o meno amore di prima pe’ suoi parenti, e per la patria, incambio di più grande, o men grande amore. Questi avverbj posti dinanzi agli altri aggettivi se non hanno l’articolo esprimono il comparativo, ma se l’hanno esprimono il superlativo, che io chiamerei superlativo di paragone, come il men grande, o il più grande di tutti, che equivale al minimus, o maximus omnium dei Latini, ed è diverso dal superlativo assoluto, ove il paragone non /46/ è mai espresso, e che si forma col dare all’aggettivo la terminazione in ‑issimo, come grandissimo, picciolissimo eccettuati alcuni pochi, che finiscono in ‑errimo, come acerrimo, celeberrimo. In tanto poi il superlativo di paragone richiede sempre l’articolo, in quanto appunto l’oggetto, al quale egli s’aggiunge, resta da lui assolutamente, e precisamente determinato fra tutti quegli altri, con cui egli si paragona.

            VII. Quanto agli aggettivi mio, tuo, suo, nostro, vostro, loro che si chiamano possessivi, perché indican sempre possesso, o attinenza, egli è chiaro, che uniti ai sostantivi universali ne ristringon di molto il significato. Perciocché dicendo a cagion d’esempio vostre terre io parlo di quelle sole, che a voi appartengono. Ma siccome queste posson esser diverse, così il loro senso non è del tutto determinato, e a

 

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determinarlo è necessario l’articolo o solo, o con qualche qualificazione ancora di più, se bisogna, come le vostre terre, ovvero le vostre terre di pianura, o di collina. Non v’han/47/no che i sostantivi padre, madre, e talvolta anche figlio, fratello, sorella, cugino, zio, nipote, cognato, avo, e simili che uniti agli aggettivi possessivi rifiutan l’articolo, perché sono da essi determinati abbastanza. Quando però s’aggiunga loro qualche qualificazione voglion l’articolo anch’essi, se questa qualificazione è posta prima del sostantivo, come l’ottimo vostro padre, la vostra amorosa madre. Imperocché sentendo ottimo vostro, o vostra amorosa senza l’articolo prima di sapere a che sostantivo si riferiscano, l’orecchio ne rimarrebbe offeso, usando noi sempre d’aggiugnere ai possessivi l’articolo, quando sono accompagnati da un altro aggettivo, perché il sostantivo seguente viene allora ad essere determinato; così dicendo il vostro bel libro io accenno necessariamente un libro determinato, e particolare appartenente a chi m’ascolta. All’incontro mettendo vostro padre, o vostra madre prima, si può dopo aggiugner loro qualunque qualificazione, che l’articolo non è più necessario: laonde si dirà ottimamente vo/48/stro padre saviissimo uomo, vostra madre piissima donna, e simili. Nei poeti si trovano spesse volte gli aggettivi possessivi uniti ancora cogli altri nomi senza l’articolo, come dove dice il Petrarca:

 

            Mio ben non cape in intelletto umano:

 

ma ciò nella prosa è da schivarsi, benché ve n’abbia pur qualche esempio.

            Dal fin qui detto apparisce, che innanzi ai nomi universali, o appellativi si dee por sempre l’articolo quando si hanno a prendere in un senso determinato, toltone allora che vi sia un aggettivo, che pienamente li determini per sé stesso, come ogni, ciascuno, ciascheduno, cadauno (che è voce però da fuggirsi), tanto, quanto, altrettanto, niuno, nessuno, nullo, veruno ecc. Si eccettui l’aggettivo tutto, col

 

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 quale benché i nomi universali siano abbastanza determinati, pure amano, d’aver anche l’articolo; onde non si può dire tutti uomini, ma convien dir tutti gli uomini. Ciò è forse perché questo aggettivo esprime una universalità indefinita, che abbraccia ogni qualunque cosa, la quale /49/ universalità vien poi ristretta, e determinata dal sostantivo, che segue. Diffatti udendo tutti noi pensiamo tosto in generale a tutte le classi degli enti, la cui universalità quest’aggettivo può esprimere. E però se alcuno poi vuol ristringere questa universalità ad una classe soltanto, come a quella degli animali, o degli alberi, o dei metalli ecc., ei vi deve aggiugner l’articolo per indicare, che essi sono quei nomi determinati, a cui il significato dell’aggettivo tutti si vuol ristretto. V’han però tuttodì, tutto giorno, e pochi altri, che s’adoprano senza l’articolo, come quando dicesi: quel che accade tutto giorno. Ma si osservi, che il nome giorno in questo senso è preso indeterminatamente, e l’espressione tutto giorno è piuttosto un modo avverbiale (di cui altrove parleremo) corrispondente all’avverbio continuamente, che altro. Infatti quando il nome giorno è preso determinatamente, richiede anch’egli l’articolo, come dicendo il tale ha lavorato tutto il giorno.

            /50/ All’incontro quando il senso di un qualche nome universale si vuole indeterminato, l’articolo si deve ommettere.

            Passando ora dai nomi universali, o appellativi ai nomi particolari, o proprj, egli pare che essendo questi per sé determinatissimi non dovrebbero aver mai l’articolo, e infatti non si dice il Pietro, o il Paolo, ma Pietro, e Paolo. Tuttavolta ai nomi di femmina si dà sovvente, come la Fiammetta, la Tancia ecc.; e si dà pure ai nomi di famiglia applicati ad una sola persona, come il Boccaccio, il Petrarca, il Tasso. Ma se bene osserveremo, ciò si fa ordinariamente per dare al nome un non so che di maggiore determinazione (tanto più che i nomi, e cognomi medesimi convengon a molti); né si userà se non parlando d’una persona che sia nota, e in questo caso si userà ancora coi nomi di maschio, massimamente ove siano alterati (di cui parleremo nel capo seguente), come il Peppino, il Mariuccio, il Carlone; laonde è come se si dicesse quella Tancia, quel Peppino ecc., che voi

 

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 /51/ ben conoscete, o che ben vi è noto.

            Quando poi i nomi proprj hanno davanti un aggettivo, o un nome di dignità, o di professione, o altra cosa simigliante, allora l’articolo è assolutamente necessario; perciò si dice il re Antioco, il poeta Ovidio, il grande Alessandro, il famoso Archimede. E la ragione si è, che i nomi re, poeta ecc. sono sostantivi universali, che restano poscia determinati dai nomi proprj Antioco, Ovidio ecc. Essi devono adunque necessariamente aver l’articolo; perciocché è come se si dicesse il re chiamato Antioco, il poeta chiamato Ovidio. E lo stesso è pure quando al nome proprio si premette un semplice aggettivo; poiché vi si sottintende sempre il nome universale di quella classe, a cui il nome proprio appartiene, il qual nome universale spesse volte anche si suole esprimere, come infatti invece di dire semplicemente il grande Alessandro, il famoso Archimede, si dice spesso il gran re, o conquistatore Alessandro, il famoso geometra Archimede.

/52/ Da questa regola ciò non ostante si sottraggono alcuni nomi di titolo, come donno, messere, sere, maestro, santo, monsignore, donna, madonna, madama, suora, e frate, i quali allorché stanno innanzi a un nome proprio ricusan sempre l’articolo; onde si dice don Alberto, messer Cino, ser Brunetto ecc. Di ciò non v’ha altra ragione che l’uso. Perciocché infatti qual ragione vi può mai essere, ch’ei debba darsi a signore, e padre, come quando dicesi il signor tale, o il padre tale, e si debba poi negare a sere, e frate?

            Al nome papa, l’articolo si dà, e si toglie indifferentemente, dicendosi al pari a cagion d’esempio papa Urbano, e il papa Urbano; se non che il mettervi l’articolo indica un certo maggior rispetto in chi parla. L’Ariosto lo tolse anche a re, dicendo re Carlo, re Pipino: ma da’ migliori non è seguito.

            V’hanno de’ nomi proprj, che indicano oggetti di grande estensione,

 

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 come cielo, terra, aria, mare, e tutti i nomi di provincie, di città, di monti, /53/ e di fiumi. Ora siccome accade, che vogliamo di questi ora semplicemente risvegliare l’idea, ora accennarne una parte indeterminata, e ora esprimere tutta la loro estensione, o qualche loro parte determinata; così ne’ primi due casi essi rifutan l’articolo, e lo vogliono ne’ secondi. Quindi uno dirà bene indeterminatamente: non si vedeva che cielo, e mare, ma determinatamente dovrà dire il cielo italico, il mar toscano: né potrà dirsi il tale ha scorsa Lombardia, ma sibbene la Lombardia, perché s’intende tutta questa provincia.

            Circa ai nomi di città, di monti, e di fiumi però vi ha una specie di irregolarità, ed è, che i primi ricusano tutti costantemente l’articolo, fuori d’alcuni pochi, come il Cairo, e la Mirandola, i secondi lo voglion sempre, come l’Alpi, gli Appennini, i Pirenei, i terzi fuorché quando si vogliano accennare affatto indeterminatamente, come cadere in Po, il richieggono più comunemente essi pure, onde si dice il Tamigi, la Senna ecc. Quindi nasce tuttavia un co/54/modo, il quale è che dove per una città scorra un fiume del medesimo nome, basta l’articolo solo a distinguer tosto l’uno dall’altra: così Parma a cagion d’esempio significa la città, e la Parma il fiume.

            I sostantivi metafisici siccome quelli, che non esprimono alcun oggetto reale, ma semplicemente la maniera, con cui noi concepiamo l’idee delle qualità, o delle relazioni in astratto, non dovrebbero avere che un significato solo, e determinato. Ciò non ostante noi siamo soliti a favellare di queste idee come si fa degli oggetti reali, e le dividiamo esse pure in tante classi, come son quelle delle virtù, dei vizj, delle arti, delle scienze ecc. Quindi è che ai loro nomi eziandio ora si dà, ora si nega l’articolo colle medesime regole, come se fossero nomi universali.

            Osserviamo ora per ultimo due cose: 1. il vantaggio, che la nostra lingua per via dell’articolo acquista su la latina. Questo è stato già notato assai bene dal Buommattei, di cui riferiremo qui le /55/ parole: «I Latini dicono vinum bibere. Noi lo diciamo in tre modi con tre significati diversi: bere vino, bere il vino, ber del vino. Il primo modo significa semplicemente non si astenere da vino; il secondo accenna

 

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 ber tutto il vino; il terzo inferisce bere alcuna quantità di vino... Ma il latino perché non ha articoli, confonde tutti e tre questi diversi significati»; 2. quanto sia irragionevole quel precetto, che si trova nei dialoghi del Bembo sopra la lingua toscana che quando ad un nome sostantivo viene appresso un altro accompagnato dalla preposizione di, se il primo ha l’articolo, lo debba avere anche il secondo, di maniera che si debba dir per esempio le chiome dell’oro, e non le chiome d’oro. Io non so perché il Bembo non abbia riflettuto, che l’ufficio dell’articolo è quello di determinare il significato de’ nomi, e che per conseguente dei due nomi noi dobbiam porre l’articolo a quello che vogliamo determinare, e lasciarne senza quel che vogliamo, che resti indeterminato.

 

 

 

/56/CAPO VII

De’ nomi alterati

 

Questi son quelli, che servono ad accrescere, o diminuire il significato de’ nomi semplici. I primi si dicono aumentativi, o accrescitivi quando dinotan ingrandimento, e finiscon in ‑one se son maschili, come alberone, braccione; e in -one, o ‑ona se son femminili: la prima maniera però è più usitata, e li converte anch’essi in maschili, come da casa casone, e da porta portone; e ve n’han pure alcuni, che

 

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 non significan ingrandimento della medesima cosa, ma una cosa differente, come da pianta, carta, piantone, cartone. Si dicon poi peggiorativi quando significan peggioramento, o malvagità, e cadono in ‑accio o -azzo, e ‑accia o -aglia come popolazzo o popolaccio, e gentaccia o gentaglia, in -astro, e -astra, come giovinastro, e giovinastra, e talora s’unisce il peggiorativo coll’accrescitivo, facendone omaccione, ribaldonaccio, e simili. Degli ac/57/crescitivi ve n’ha un altro pure, che però s’adopera ordinariamente per vezzo, e finisce in ‑otto, e -otta, come giovinotto, e giovinotta.

            Quelli che diminuiscono il significato si chiamano diminutivi, e s’adoperano quando per vezzo, e quando per dispregio. Finiscono in -ino, e in -ina, come fanciullino, e fanciullina, in -etto, e in -etta come giovinetto, e giovinetta, in -ello, e in -ella, come contadinello, e contadinella, in -uccio, o -uzzo, e -uccia, o -uzza, come sonettuccio, o sonettuzzo, cosuzza, o cosuccia: e spesso si fa un doppio diminutivo, come cosettina, cassettuccia. Vi son anche alcune altre specie di diminutivi, come cerbiatto ‘per piccolo cervo’, casipola per ‘casa piccola, e cattiva’, amarognolo per ‘alquanto amaro’, verdigno per ‘alquanto verde’, tristanzuolo per ‘alquanto tristo’.

 

 

/58/ CAPO VIII

De’ pronomi

 

I pronomi entran anch’essi propriamente nella classe degli aggettivi, essendo l’ufficio loro quello di significare l’identità di un oggetto già nominato, nell’atto medesimo che ne risveglian l’idea. Non tutti però gli aggettivi, che stanno talvolta da sé, e richiaman l’idea d’un sostantivo precedente, o sottinteso, a cui si riferiscono, debbonsi annoverar tra i pronomi; altrimenti se io dirò: «tutti gli uomini cercano la felicità, ma pochi la trovano, e non sono che i saggi, e i virtuosi», pochi, saggi, e virtuosi, sarebber pronomi, e generalmente niun aggettivo dovrebbe da questo numero esser escluso potendo tutti far l’ufficio medesimo quando che sia.

            Tra i pronomi debbonsi porre quei soli, che si usano espressamente,

 

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e al solo fine di risvegliare l’idea d’un sostantivo già nominato senza che alcuna nuova qualificazione v’aggiungano; e tali /59/ sono egli, o esso, e desso, lo stesso o il medesimo, questi o costui, chi, altri, altrui, quegli o colui, cotesti o cotestui, che o il quale, e l’articolo quando s’adopera assoluto invece di lui, lei, loro.

            Siccome i pronomi si pongono invece dei sostantivi, così non s’accompagnano mai coi sostantivi medesimi, e però non si dice egli uomo, né questi, o costui, cotesti, o cotestui, quegli, o colui uomo. Che se esso, stesso, medesimo, e quale, si veggon talvolta accompagnati coi sostantivi, allora sono aggettivi semplici, e non più pronomi.

            Quanto ai nomi personali io, tu, noi, voi, sé, io non so come siano stati collocati fra i pronomi, essendo essi veri sostantivi universali che significano una, o più persone, che parlano, o che ascoltano, e una o più persone da queste diverse considerate in sé medesime; non già aggettivi che si riferiscano ad alcun nome, e ne richiamin l’idea. Noi parleremo tuttavia anche di essi nel presente capo, essendo questo il luogo più opportuno di favellarne.

/60/ Il pronome egli, e i nomi personali sono soggetti a molte variazioni di desinenza. Eccole tutte per ordine.

 

Variazioni del pronome egli

Sing[olare]

Masch[ile]

Fem[minile]

egli, ei, e’

di lui

a lui, lui, gli

lui, lo, il

da lui

ella

di lei

a lei, lei, le

lei, la

da lei

Plur[ale]

Eglino, ei, e’                    elleno, elle

di loro, o loro

a loro, o loro

li, gli, loro                         le, loro

da loro

 

 

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Osserviamo qui in primo luogo, che lui, lei, e loro non possono mai usarsi nel caso retto, ossia nel nominativo, ma negli obliqui soltanto, e se ve n’ha qualche esempio non è da seguirsi. Tre eccezioni si fanno: 1. quando il senso del discorso esprime tal simiglianza di due persone, o di due cose, che /61/ l’una si prenda in iscambio dell’altra, come è nel Boccaccio gior[nata] 3, nov[ella] 7: «Maravigliossi forte Tedaldo, che alcuno in tanto il simigliasse che fosse creduto lui»; e come avvien pure in quelle maniere comuni s’io fossi lui, s’io fossi lei: ma qui ognuno vede, che si deve supplire ‘in lui’, ‘in lei’: e nel primo esempio si dice lui, e non egli, perché essendo alcuno il soggetto della proposizione che fosse creduto lui, mettendo egli parrebbe, che si riferisse ad alcuno, e non a Tedaldo; 2. quando il pronome è preceduto dal come, o siccome. Tale è quell’esempio del Boccaccio: «Si vergognò di fare al monaco quello, che egli, siccome lui, aveva meritato»; ma qui pure il lui è posto per evitar l’ambiguità tra egli, e monaco; e diffatti quando questa non v’abbia si dice egualmente siccome egli, e siccome lui; 3. nelle esclamazioni, come oh lui beato!, oh lui misero!, ma qui il lui è accusativo come lo è me beatum, me miserum! nelle esclamazioni latine. /62/ Lui, lei, e loro spesso s’adoprano per semplici aggettivi invece di quello, o di colui ecc., e ciò massimamente in verso, e quando sono seguiti dal pronome relativo che, come nel Petrarca:

 

            Ad or ad or a me stesso m’involo

            Pur lei cercando, che fuggir dovria;

 

in vece di quella, o colei. Lui, e lei in dativo in vece di a lui, e a lei si possono usar qualche volta in poesia, ma parcamente.

           

 

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Loro all’accusativo non è di un uso troppo frequente, e in suo luogo s’adopera gli, o li, e le. Gli si usa quando segue una vocale, o una s impura, come gli unì, gli sparse; e li quando segue qualunque altra consonante, come li trovò, li perdette. S’avverta che gli in dativo non si può mai usare invece del plurale ‘a loro’; ma solamente nel significato del singolare ‘a lui’; e però gli scrisse significa ‘scrisse a lui’, non ‘a loro’.

            Anche ei, o e’ nel plurale si trovan di rado, e s’usano in cambio eglino, o essi.

            Di lui, di lei, e di loro posti fra l’articolo, e il nome, come il di lui /63/ onore, il di loro coraggio sono maniere da schifarsi, e si dice in cambio il loro coraggio, o il coraggio loro, e l’onor di lui.

            V’hanno alcuni esempi di ella, e elle usati ne’ casi obliqui; ma non sono da imitare. Ello per egli, e elli per eglino son maniere antiquate.

            Dopo il non il pronome maschile nell’accusativo singolare dev’esser lo; e volendo pure usar il, convien unirlo col non in una sola parola, dicendo nol; come non lo veggo, o nol veggo.

            Quando si parla, o si scrive ad uno in terza persona, siccome si parla alla signoria di quel tale, così bisogna usare il pronome femminile, onde si deve dire le raccomando, o la prego, e non gli raccomando, o lo prego. Molto più poi si dee fuggire l’error volgare di dir ci offero, ci dico in vece di le offero, le dico.

            Egli, ei , e’, ed ella si pongono spesso per puro vezzo di lingua, e si chiaman allora ripieni, o particelle espletive. I tre primi si usano in tutti i numeri, e in tutti i generi, come egli non è cosa /64/ strana, egli vi sono molti. Il quarto soltanto nel femminile. Nello stil famigliare, e nel burlesco in vece di egli si usa anche gli, e di ella, la, come gli è grande, la non è piccola.

            Esso, e essa che hanno il medesimo significato di egli, e ella

 

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s’adoprano indifferentemente e nel caso retto, e negli obliqui, se non che nel retto si dice piuttosto egli, e ella.

            Anche questo pronome spesso si usa per puro ripieno, ma sempre colla terminazione maschile, come essolui, essolei, essoloro, sovr’esso il ponte, lungh’esso il fiume.

Desso esprime qualche cosa di più, che egli, o esso, e significa egli appunto, o egli stesso, come lo veggo; è desso. Questo pronome non s’usa che nel caso retto.

 

 

 

 

/65/Variazioni dei nomi personali

Singolare

io

di me

a me, mi

me, mi

da me

tu

di te

a te, ti

te, ti

da te

 

di sé

a sé, si

sé, si

da sé

Plurale

noi

di noi

a noi, ci, ne

noi, ci, ne

da noi

voi

di voi

a voi, vi

voi, vi

da voi

 

di sé

a sé, si

sé, si

da sé

 

            Io, e tu, non s’adoprano che nel caso retto. Mi, ti, si, ci, ne, vi, come pure i pronomi gli, le, il, lo, la, li si debbon por sempre innanzi al verbo, come mi vide, lo incontrai, gli dissi, o ponendoli dopo si debbono con lui unire in una sola parola, come videmi, dissegli ecc. Essi allora si chiamano affissi, e spesso se ne appone più d’uno, come dirovvelo, o dirollovi.

            Quando però vi sia corrispondenza di due, o più pronomi, o nomi perso/66/nali, l’affisso non può usarsi, ma si dee in quella vece adoperare il nome personale, o il pronome staccato. Quindi disse il Petrarca par[te] 1, son[etto] 3:

 

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            Ferir me di saetta in quello stato,

            E a voi armata non mostrar pur l’arco.

 

I nomi personali mi, ti, si, ci, ne, vi spesso s’accoppiano coi pronomi lo, la, gli, le, li, ma conviene ne’ primi cangiare l’i in e, come me lo diede, ce li ritolse, ve le offro; se non che tal volta per grazia di lingua il pronome si mette davanti al nome personale, come il vi darò, la vi ho data.

            Il pronome gli si unisce egli pure sovvente cogli altri anzidetti, aggiungendovi un’e frammezzo, e ne nascono glielo, gliela, gliele ecc. Quest’ultimo, invece di cui s’usa anche gliene si trova adoperato nei buoni autori per riguardo al gli in amendue i generi cioè tanto in significato di a lui, come di a lei; e per riguardo al le in amendue i generi, e i numeri, cioè tanto per significare lo, e la, come li, e le. Così il Boccaccio gior[nata] 3, nov[ella] 3, disse: «piena di stizza gliele /67/ tolsi di mano, ed holla recata a voi, acciocché voi gliele rendiate», cioè ‘la tolsi a lei, acciocché a lui la rendiate’, e gior[nata] 2, nov[ella] 9: «Portò certi falconi pellegrini al soldano, e presentogliele», cioè ‘li presentò a lui’.

            Oltre al proprio significato di nomi personali le voci ne, ci, e vi ne han pure un altro. Il ne corrisponde alle parole di questa, o quella cosa, da questo, o quel luogo: così ne vengo ora, vuol dire ‘vengo ora da quel luogo’; non ne trovo vuol dire ‘di questa’, o ‘di quella cosa’. Il ci significa propriamente ‘in questo luogo’, o ‘a questo luogo’; e il vi ‘in quello’, o ‘a quel luogo’; e però rigorosamente non ci è vuol dire ‘qui’, e non vi è ‘ivi’; non ci torno significa ‘non torno qua’, e non vi torno ‘non torno là’: ma spesso si pongono indifferentemente l’uno per l’altro. Sovvente pur nel discorso servono di mere particelle espletive.

 

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Il nome , che si chiama reciproco, s’adopera quando vuolsi esprimere, che l’azione significata dal verbo rimane nel soggetto medesimo della proposi/68/zione, ossia nel nome medesimo da cui il verbo è regolato. Così dicendo: Catone piuttosto che cadere nelle mani di Cesare si uccise, significa ‘uccise sé medesimo’, e volendovi dare ancora più forza dirò da sé stesso si uccise, ma non già da lui stesso, e di sua propria mano, non già colla di lui propria mano, come alcuni per errore pur soglion dire.

            Giacché siamo entrati a parlare del possessivo suo, sarà bene accennar qui brevemente quand’egli s’abbia ad usare, e quando in sua vece si debba adoperare di lui. Egli è dunque regola generale, che quando la cosa, di cui si discorre, appartiene al nominativo, ossia al soggetto della proposizione si deve usar suo, e non di lui, onde il padre deve amare i suoi figli, e non i di lui figli, o i figli di lui; se però questo soggetto è plurale invece di suo s’adopera loro; diremo pertanto i figli sono tenuti a riamare il loro padre, non il suo padre.

            Quando poi la cosa spetta a tutt’altro nome diverso dal soggetto della proposizione, rigorosamente dovrebbesi usar di /69/ lui, ma ove non possa nascere ambiguità si adopera indifferentemente anche il suo. Quindi io dirò egualmente: amo Pietro, e i suoi figli, o i figli di lui; ma non dirò già Paolo ama Pietro, e i suoi figli, perché s’intenderebbe che ami i figli proprj, non i figli di Pietro.

            I possessivi mio, tuo, suo, nostro, vostro, loro si pongono spesso assolutamente senza compagnia di sostantivo, il quale però loro sempre si sottintende, ed è avere, o roba se sono nel singolare; parenti, o famigliari se son nel plurale. Laonde consumar tutto il suo vuol dire tutto il suo avere; rivedere i suoi, vuol dire i suoi parenti, o famigliari.

 

 

Dei pronomi ‘questi’, e ‘costui’, ‘cotesti’,

e ‘cotestui’, ‘quegli’, e ‘colui’

 

Questi, cotesti, e quegli non s’adoperan in singolare se non nel caso retto. Alcuni pretendono, che non si possano usar nemmeno se

 

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 non quando si riferiscono ad uomo, e che riferendosi ad /70/ altro animale, o ad oggetto inanimato si debba dire questo, cotesto, e quello: ma abbiamo ne’ buoni autori degli esempi contrarj, come nel Dante Inf[erno], cant[o] 1:

 

Ma non sì, che paura non mi desse

            La vista, che m’apparve d’un leone.

            Questi parea, che contra me venesse;

 

e nel Boccaccio gior[nata] 4, nov[ella] 1: «Dall’una parte mi trae l’amore ecc., e dall’altra giustissimo sdegno: quegli vuole ch’io ti perdoni, e questi vuole che contra a mia natura in te incrudelisca». Oltreché siccome egli s’adopera indistintamente qualunque sia l’oggetto, di cui dee risvegliare l’idea, così pare, che debba farsi lo stesso ancora di questi altri pronomi: tanto più che questo, cotesto, e quello posti assolutamente significan ‘questa’, ‘cotesta’, e ‘quella cosa’, come ciò significa ‘essa’, o ‘tal cosa’. Checché ne sia però questi, cotesti, e quegli fuor di quando si riferiscono ad uomo, che debbonsi usare necessariamente, in altre occasioni s’adopran di rado, e solo si trovan usati qualche volta riferiti ad altro animale, o a cosa che nel discorso faccia sem/71/biante di animata, come lo sono amore, e sdegno nell’esempio del Boccaccio.

            Quando siansi innanzi nominate due cose, di cui s’abbia a continuare a discorrere in appresso, questi, o questo significa l’ultima, e quegli, o quello la prima, come dal medesimo esempio del Boccaccio apparisce.

            Invece di quegli singolare in verso si dice anche quei, come nel Dante:

 

 

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E quale è quei che disvuol ciò che volle.

 

Il Dante l’usò ancora nel caso accusativo invece di quello:

 

            Che non soccorri quei, che t’amò tanto?

 

ma non è da imitarsi. Nel plurale quand’è pronome invece di quegli si dice piuttosto quelli, quei, o que’, e servono per tutti i casi.

            Ma spesso invece di esser pronome egli è un semplice aggettivo, che accompagna il suo sostantivo, come quel frutto, quell’albero. In tal caso se il sostantivo comincia per vocale, o per s impura, o per z nel singolare si dice quello, e nel plurale quegli come quello spazio, quegli anni; se il sostantivo comincia /72/ per tutt’altra consonante nel singolare si usa quel; e nel plurale quei, o que’, come quel frutto, e quei frutti, o que’ frutti: il dire quelli frutti non è di buon uso.

            Anche questo, e questa sovvente son semplici aggettivi. Invece di questa coi nomi mane, sera, e notte si usa anche sta, come sta mane, sta sera, sta notte. Ma cogli altri nomi ciò non può farsi. I poeti incambio usan talvolta esto, e il Dante «esta selva», «esti tormenti».

            I pronomi costui, e costei, colui, e colei, equivalgono a ‘questi’, e ‘questa’, ‘quegli’ e ‘quella’, e servono per tutti i casi: ma noi v’abbiamo ora allegata una certa idea di disprezzo in modo, che non si debbono usare parlando di una persona, a cui s’abbia rispetto. Cotesti, e cotestui son di rarissimo uso.

 

 

Dei pronomi ‘il medesimo’, e ‘lo stesso’

 

Questi servono a determinare precisamente l’identità di un oggetto,

 

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 e però quando sono pronomi sempre vo/73/glion l’articolo. S’uniscono sovvente cogli altri pronomi, come egli stesso, questo medesimo: ma essi allora, come ben si vede, non son che semplici aggettivi. In vece di medesimo in verso si dice anche medesmo: ma medemo è termine del volgo.

 

 

Dei pronomi ‘che’, ‘cui’,

‘il quale’,’onde’, e ‘chi’

 

Nel capo 6 si è detto, che per ristringere il significato di un nome aggiugnendovi una qualche qualificazione, in luogo d’un aggettivo, o di un genitivo può adoperarsi una proposizione incidente, che ad un aggettivo equivale. Queste proposizioni si dicono incidenti, perché cadono in una proposizion principale, e formano una parte di essa, come farebbe appunto un semplice aggettivo. Così dicendo: l’uomo, che vive in ozio, è indegno di godere i vantaggi della società, a cui egli non fa niun bene, avremo una sola proposizion principale, come se dicessimo: l’uomo ozioso è inde/74/gno di godere i vantaggi della società da lui niente beneficata.

            Or per unire le proposizioni incidenti coi nomi, a cui elle si riferiscono, s’adoprano i pronomi che, e il quale, che perciò chiamansi relativi. Il primo è invariabile, e si usa al nominativo, e all’accusativo di ambedue i numeri, ma sempre senza l’articolo, perché unito coll’articolo significa non il quale semplicemente, ma la qual cosa: benché in questo senso talvolta si truova anche senza l’articolo, come nel Boccaccio introd[uzione]: «L’un fratello l’altro abbandonava, e (che maggior cosa è) i padri, e le madri i figliuoli». Quando poi ha l’articolo, questo dev’essere piuttosto il, che lo, ed è meglio detto il che che lo che. Negli altri casi obliqui a che si sostituisce cui, e si dice di cui, a cui, per cui ecc., e quando il pronome debba essere accusativo,

 

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 e usando che, o il quale possa nascere ambiguità, s’adopera cui per levarla; così dicendo è morto l’amico, che Pietro amava moltissimo, non si saprebbe se fosse Pietro, o l’amico quel, che ama/75/va; sostituendo cui il senso è chiarissimo, non potendo questo mai essere che caso obliquo. Le preposizioni di, e a sovvente con lui si ommettono, come il cui valore; cui egli tolse, e simili, invece di dire, il valore di cui, o a cui egli tolse. Il di cui valore è maniera viziosa.

            Anche il che si può unire talvolta colle preposizioni, benché sia semplice relativo, come quello di che vi dolete, quello a che avete atteso, quello in che v’occupate, e la preposizione in specialmente se si parla di tempo si può ancor tralasciare, come: l’anno, che morì il Galileo nacque il Newton. Gli antichi usaron anche di sopprimer con esso varie altre preposizioni, come il Petrarca:

 

 

 

da quel nodo sciolta

            Che più bel mai non seppe ordir Natura;

 

e il Boccaccio: «Involato avrebbe con quella coscienza, che un uomo offerirebbe»; ove il che è usato per ‘di cui’, e ‘con cui’: ma da’ migliori moderni quest’uso non è troppo seguito. Il quale quando è pronome relativo vuol sempre l’articolo, onde per /76/ esempio: la lettera, qual mi scriveste è errore. All’opposto quando è semplice aggettivo esprimente qualità, e correlativo di tale, o altrettale, come anche quando s’adopera per esprimer dubbio, o per interrogare, non lo vuol mai: come nel Boccaccio gior[nata] 8, nov[ella] 8: «assai dee bastare a ciascuno, se quale asino dà in parete, tal riceve»; e

 

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gior[nata] 10, nov[ella] 8: «non so quale Iddio dentro mi stimola, ed infesta»; e finalmente gior[nata] 5, nov[ella] 6: «‘impetratemi una grazia da chi così mi fa stare’. Ruggieri domandò: ‘Quale?’».

            Invece di quale aggettivo semplice s’adopera eziandio il che, quando però non vi sia il correlativo tale, come: mira in che stato io sono; che cosa è mai? non so che cosa ella sia; e i sostantivi stato, e cosa spesso ancor si tralasciano, come vedi a che son ridotto; che è mai? non so che sia. All’opposto non son da seguire quei che dicono: non so cosa sia; cosa è mai?, lasciando il che. Alle volte questo nome è anche un puro sinonimo di cosa, come quando si dice un gran che.

/77/ Dopo tale, tanto, così, più, meno ecc., si mette il che per correlativo, ma allora è semplice congiunzione corrispondente all’ut, o al quam dei Latini.

            Onde, che è anch’egli una congiunzione equivalente a laonde, o per la qual cosa, si usa pure nel senso di ‘quale’ accompagnato dalle preposizioni di, da, con, o per, come: la cosa, onde si parla; il luogo, onde ei viene, o onde è passato; il laccio onde è avvinto. La preposizione da qualche volta vi si unisce, e i nomi luogo, o cosa si ommettono, come non so d’onde venga, cioè ‘da qual luogo’; non so d’onde proceda cioè ‘da qual cosa’.

Chi significa ‘colui che’, o ‘coloro che’. Egli pure è invariabile, e s’adopera in tutti i generi, e in tutti i numeri. In sua vece tal volta si pone cui, come nel Boccaccio: «vedi cui do mangiare il mio» in cambio di a chi, e altrove: «Macchie apparivano a molti a cui grandi, e rade, e a cui minute, e spesse». Talvolta all’incontro si usa il chi invece di cui, come in quel verso:

 

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            Tra’ magnanimi pochi, a chi ’l ben piace.

 

/78/ Il chi si adopera nelle enumerazioni nel senso medesimo, in cui s’adoperan quale, tale, uno, altri, questi, e quegli, come: «degli uomini chi è avventurato, chi misero; quale è buono, qual è malvagio; tale è troppo ardito, tal è troppo timido; uno piange, uno ride; altri ama, altri odia; questi di tutto è pago, quegli di tutto si lagna».

 

 

De’ pronomi ‘altri’, e ‘altrui’

 

Altri s’adopera nel caso retto, e significa propriamente ‘altr’uomo’, come nel Boccaccio gior[nata] 1, nov[ella] 8: «Né voi, né altri con ragione potrà più dire, ch’io non l’abbia veduta». Ne’ casi obliqui si dice altrui, e con esso le preposizioni di, e a spesse volte si tralasciano. Altrui significa ancora le cose appartenenti ad altri, come consumare l’altrui, cioè ‘la roba degli altri’.

            Vi ha anche altro che si pone talvolta assolutamente, e vuol dire ‘altra cosa’, come nel Boccaccio gior[nata] 7, nov[ella] 3: «sembiante facendo di rider d’altro». /79/ Uno, alcuno, veruno, qualcuno, ciascuno, chiunque, chicchessia, taluno, tale, niuno, nessuno si pongon anch’essi spesse fiate assolutamente sottintendendovi uomo, o persona. Si osservi però che niuno, e nessuno quando son posti innanzi al verbo non possono avere la negativa non, altrimenti la negazione si toglie, e formano un senso affermativo: ma quando son dopo il verbo, l’ammettono senza cambiar di senso. Per il che si dirà egualmente: niuno quaggiù è pienamente felice, e non v’ha niuno quaggiù pienamente felice; ma non già niuno non è quaggiù pienamente felice, perché niuno non è equivarrebbe a tutti sono. Lo stesso si dica ancora dei sostantivi niente, e nulla. V’hanno dei casi però, in cui la particella

 

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 non si può replicare anche dopo niuno, e niente senza che tolga la negazione, come di ciò niente non gli importa; niuno non v’è, che non si maravigli ecc.; ma ciò non si dee fare, se non con molto riguardo, e allora soltanto, che il senso sia per sé stesso chiarissimo.

 

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/80/ PARTE II

DEL VERBO, E DEL PARTICIPIO

 

 

CAPO I

Dei numeri, e delle persone de’ verbi

 

L’ufficio del verbo abbiam già detto esser quello di affermare, o negare l’esistenza di qualche proprietà in qualche soggetto. Or siccome il verbo essere è il solo, che posto da sé esprima l’affermazione, e accompagnato dal non la negazione, così egli pure è il solo, che propriamente debbasi chiamar verbo. Agli altri in tanto si dà questo nome, in quanto contengon tutti il verbo essere insieme con un aggettivo, che esprime una qualche proprietà, o operazione del soggetto, e fa perciò nella proposizione l’ufficio dell’attributo. Quindi è, come abbiam notato, che un solo nome, e un solo verbo posson formare un’intera proposizione, perché io vivo, io spiro, tanto valgono quanto io sono vivente, io sono spirante.

/81/ Ma a formare un’intera proposizione può anche bastare il verbo solo quando il soggetto sia uno dei nomi personali io, tu, noi, voi. E ciò perché sì nella nostra lingua, come nella più parte delle altre si è introdotto di dare al verbo una diversa terminazione secondo che il soggetto della proposizione, a cui il verbo si riferisce, è o la persona che parla, che dicesi persona prima, o quella che ascolta, che dicesi persona seconda, oppure una persona, o una cosa diversa da amendue, che dicesi persona terza. E una diversa terminazione gli si

 

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 dà pure secondo che queste persone sono del numero singolare, o del plurale. Per la qual cosa dicendo vivo, o vivi io formerò una proposizione compiuta, perché quantunque il soggetto non sia espresso, la sola terminazione però indica bastantemente, che è io, o tu; e così pure due proposizioni perfette saranno viviamo, e vivete, perché egli è chiaro, che noi, e voi ne sono i soggetti.

            Di questo comodo mancan gli Inglesi, presso cui il plurale de’ verbi ha /82/ una sola desinenza per tutte e tre le persone, la quale trattone il presente del dimostrativo è comune ancora alla prima, e alla terza del singolare: onde presso di loro per distinguere le persone è necessario sempre il nome personale, fuorché nella seconda del singolare, che ha una particolare terminazione o del verbo medesimo, o del prefisso, che vi soglion aggiugnere per la distinzione de’ modi, e de’ tempi.

            Quando però il soggetto è di terza persona anche presso di noi il solo verbo non basta a formare una proposizione. Perciocché vive, e vivono accennan bene, che il soggetto è diverso da chi parla, e da chi ascolta; e il primo accenna ancora che egli deve esser plurale: ma non possono già dimostrare qual sia. Pertanto fa di mestieri, ch’ei vi si aggiunga, toltone quando sia stato nominato poco innanzi, o facilmente si possa sottintendere.

 

 

/83/CAPO II

Dei tempi

 

Le operazioni, e le proprietà, che i verbi affermano, o negano esistere in un soggetto, possono in lui trovarsi presentemente, o esservi state per lo passato, o dovervi essere in avvenire. Queste varie determinazioni di tempo si esprimono anch’esse col dare ai verbi diverse desinenze, cioè variando secondo il tempo, che vuolsi significare, le desinenze dei numeri, e delle persone. Quindi è che scrivo mostra che questa operazione esiste nella prima persona singolare nel tempo presente; scrissi che vi è stata in un tempo di già passato; scriverò che vi

 

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 debb’essere in un tempo, che ha ancora a venire.

            Il tempo presente non è, né può essere, che un solo, perché quel ch’è presente non può dirsi che sia più o men lontano, più o men vicino di tempo. Il passato all’incontro, e ’l futuro siccome posson essere più o men lontani, o /84/ vicini, così posson anche ricevere più di una determinazione.

            Riguardo al passato quando l’azione si considera come già affatto compiuta, ei si chiama passato perfetto, e questo in italiano si esprime in due modi, come fui, e sono stato. Il primo si usa quando si parla di un tempo lontano assai, e che non abbia più niuna concatenazione col tempo presente, o d’un tempo passato indeterminato; quindi si chiama perfetto indeterminato, e può dirsi anche rimoto. Tale sarebbe se noi dicessimo: Roma cominciò da piccioli principj; i Greci furon un tempo selvaggi. Il secondo si adopera quando si tratta di un tempo determinato, e vicino; o che se è lontano si considera come unito tuttavia al tempo presente; e perciò dicesi perfetto determinato, o vicino, come jeri, o oggi, o l’altro giorno ho veduto il tale; in questo secolo le scienze si sono di molto perfezionate.

            Ma parlandosi di uno stesso tempo si può usare talvolta indifferentemente e l’uno e l’altro perfetto secondo la ma/85/niera con cui egli si concepisce. Si può dire per esempio: nel principio dell’era cristiana sono vissuti in Roma dottissimi uomini, e nel principio dell’era cristiana vissero in Roma dottissimi uomini, perché nel secondo caso io considero la distanza assoluta di tempo, che passa fra ’l principio dell’era cristiana, e l’età nostra; laddove nel primo malgrado la distanza di diciassette secoli, e più io considero il tempo come vicino, perché egli forma una parte dell’era cristiana, in cui siamo noi pure tuttavia.

            Se colla mente ci trasportiamo in un tempo passato, e consideriamo le cose, che allora eran presenti il tempo si chiama passato imperfetto, o pendente, e potrebbe chiamarsi ancora presente di passato. Così dicendo: Archimede fu ucciso da un soldato romano mentre stavasi tutto attento a’ suoi studj; l’azione di Archimede sebbene già passata di molti secoli, si considera come presente a quel tempo, in cui egli fu ucciso.

           

 

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Quest’abito di trasferirci col pensiero nei tempi ancor più lontani fa, che /86/ descrivendo le azioni d’allora usiamo spesso il presente, come se ora avvenissero. Così all’immaginazione rappresentandomi il fratricidio di Caino potrò dire come se ne fossi spettatore attuale: guida egli maliziosamente in un campo l’innocente fratello, e qui sfogando la sua malsana invidia furioso l’assale, e l’uccide.

            Che se favellando d’un tempo passato vogliamo esprimere qualche cosa avvenuta prima d’allora, il tempo dicesi passato più che perfetto, o trapassato, come: Temistocle fu esigliato da quella patria medesima ch’egli avea salvata col suo valore, e colla sua avvedutezza. Espresso in questo modo il trapassato dicesi imperfetto, perché si forma coll’imperfetto dei verbi avere, o essere. Ma quando gli si premettono gli avverbj poiché, dopoché, allorché, quando, e simili, egli si forma allora col perfetto indeterminato de’ medesimi verbi avere, o essere, e dicesi trapassato perfetto; come Temistocle dopoché ebbe salvata la patria, ne fu bandito. Questo tempo però /87/scompagnato dagli avverbj suddetti non esprime che il passato indeterminato, o rimoto, come nel Boccaccio gior[nata] 2, nov[ella] 5: «Alzata alquanto la lanterna ebber veduto il cattivello di Andreuccio», ove è manifesto, che ebber veduto equivale a videro.

            I futuri italiani son due, uno si chiama imperfetto, e esprime semplicemente una cosa avvenire. L’altro si chiama perfetto, e significa una cosa futura bensì, ma che deve esser compiuta prima d’un’altra, così dicendo: quando avrò ordinate le cose mie, verrò, il primo verbo sarà futuro perfetto, il secondo imperfetto. Molte altre specie di futuri si posson fare coll’unire i varj tempi de’ verbi essere, o avere cogli altri verbi, frapponendovi le preposizioni per, o a, come io son per amare, io era per amare, io ebbi ad amare, avrò ad amare ecc.

 

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/88/CAPO III

Dei modi

 

Noi siam paghi talvolta di accennare semplicemente con un verbo l’esistenza di qualche operazione, o proprietà senza determinare il numero, né la persona del soggetto, a cui ella conviene. Il verbo dicesi allora di modo infinito, cioè indefinito, o indeterminato, e ha una sola desinenza per tutte le persone, e tutti i numeri, come amare, leggere, udire ecc.

            Ma se col dare al verbo una particolar desinenza vogliamo non solo risvegliare l’idea della proprietà, o operazione da lui espressa, ma significare eziandio il numero, e la persona del soggetto, in cui si trova, e il tempo, in cui v’è stata, o v’è, o vi debb’essere: il verbo si dice allora di modo finito, cioè definito, o determinato. Tali sono amo, amasti, amerà ecc.

            Il modo definito distinguesi in assoluto, e relativo. Allorché il verbo affer/89/ma assolutamente da sé senza dipendere da niun altro, che una tal proprietà, o operazione esiste in un tal soggetto, e in un tale determinato tempo, il verbo è di modo assoluto, il qual modo si chiama anche dai gramatici dimostrativo, o indicativo. Così dicendo: io veggo Paolo, io leggo un libro, i verbi veggo, e leggo, affermano per sé assolutamente l’atto di vedere, e di leggere senza aver dipendenza da niuno, e sono perciò di modo assoluto.

            Ma quando il verbo si riferisce ad un altro, e da un altro dipende, il modo si chiama allor relativo; e di questi ne abbiamo due nella nostra lingua, che sono l’imperativo, e il soggiuntivo. Il primo s’adopera quando si vuole esprimere comando, preghiera, consiglio, avviso, esortazione di far qualche cosa, e con una sola voce si vuol significare e ’l comando, e l’azione, che deve farsi. Così dicendo: va nel tal luogo, fa la tal cosa, si sottintende io ti comando, o ti prego ecc.; ma la sola terminazione di va, e fa equivale a questi verbi, a /90/ cui essi non lascian per altro di riferirsi.

            Che se i verbi suddetti si voglion esprimere, quello che lor si soggiunge invece di esser posto all’imperativo, si manda al soggiuntivo, e

 

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 si dice: io comando, prego, consiglio, esorto, avviso, desidero, voglio, ecc., che tu faccia la tal cosa; ove egli è chiaro, che i verbi comando, prego, ecc., affermano assolutamente il volere, o il desiderio, ch’è in me, e perciò sono di modo assoluto; ma il verbo faccia non afferma già che l’operazione si eseguisca, ma è soggiunto ai verbi precedenti per indicare qual sia l’operazione, che si vuole eseguita.

V’ha nella nostra lingua un’altra specie di soggiuntivo, che chiamasi condizionale, perché indica l’esistenza di un’operazione, o di una proprietà colla condizione, che se ne verifichi un’altra; così s’io potessi farei la tal cosa vuol dire ‘pongo la condizione ch’io potessi, e dico che farei la tal cosa’. Spesse volte il primo soggiuntivo esprimente la condizione si ommette, ma allora però soltanto, che facilmente vi si possa sottin/91/tendere; come vorrei esser sano, vorrei esser tranquillo, ove è chiaro che si sottindende se potessi, se mi fosse permesso.

            I Greci per esprimere il desiderio davano al verbo una particolar desinenza, e avevan perciò un altro modo di più, che dal suo ufficio chiamavasi ottativo. Ma questo modo non dee ammettersi né in latino, né in italiano, non v’essendo per esso alcuna particolar terminazione. In fatti i Latini adoperavan invece il soggiuntivo preceduto dall’interposto utinam, e noi due soggiuntivi usiamo, come: piaccia al cielo, o voglia Iddio, che voi diventiate un giorno buoni cittadini, e utili alla vostra patria, ove si sottintende io desidero, che piaccia al cielo ecc.

            Per distinguere i modi l’uno dall’altro si dà al verbo una desinenza diversa in tutti i suoi tempi, i suoi numeri, e le sue persone. Quindi nei verbi le varie desinenze servono a quattro usi, cioè ad esprimere con una sola parola: 1. la persona del soggetto; 2. il numero del medesimo; 3. il modo con cui o si af/92/ferma, o si accenna solamente in lui l’esistenza di qualche proprietà, o operazione; 4. il tempo, in cui si afferma, o si accenna, che questa operazione, o proprietà in lui esista. Così colla sola parola vivo s’indica, che ’l soggetto è la prima persona

 

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 singolare, si afferma assolutamente, che in lei esiste la proprietà di vivere, e che esiste nel tempo presente.

            Il dimostrativo ha otto tempi; il presente amo, il passato imperfetto amava; due passati perfetti amai, e ho amato, due trapassati aveva amato, e ebbi amato; e due futuri amerò, e avrò amato. Nelle proposizioni però, che esprimon dubbio i due futuri hanno un altro significato, vale a dire il futuro imperfetto equivale al presente, come: quante ore saranno adesso?, e il futuro perfetto equivale al passato, come: credo ch’ei sarà già partito.

            L’imperativo non ha propriamente che il tempo futuro, perché le cose, che si comandano sono sempre da farsi ancora. Tuttavia quando l’azione si dee /93/ eseguir subito, il tempo si dice presente, e ha una terminazione propria; quando si dee eseguir dopo un’altra, o dopo qualche tempo, che v’abbia a scorrer di mezzo, s’adopera per lo più il futuro del dimostrativo, come: «va prima nel tal luogo, dopo andrai nel tal altro; passerai quindi al tal altro ecc.».

            Il soggiuntivo ne ha cinque: il presente, che io ami; l’imperfetto che io amassi; il perfetto che io abbia amato; il più che perfetto che io avessi amato; e il futuro che io sia per amare, o che io abbia ad amare. Ma l’imperfetto si truova usato qualche volta nel senso del perfetto, come nel Boccaccio g[iornata] 1, n[ovella] 7: «Mangia pane, il quale mostra che egli seco recasse», ove recasse è invece di abbia recato; e qualche volta pure egli equivale al futuro rispetto ad un tempo passato, come ho pregato jeri l’amico, che venisse oggi da me.

            Il soggiuntivo condizionale ha di proprio il presente, come se ora potessi verrei, e l’imperfetto, come se avessi potuto sarei venuto; quando poi la condi/94/zione è futura s’adopera il futuro del dimostrativo, come se potrò, verrò. Ma se trasportandoci in un tempo passato consideriamo le cose che eran future allora, si usa in tal caso il condizionale presente se il tempo è indeterminato, come l’amico m’ha promesso che verrebbe; e l’imperfetto se il tempo è determinato, come m’ha promesso che sarebbe venuto oggi.

 

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L’infinito siccome è retto sempre da un altro verbo, così riceve tutte le determinazioni di tempo del verbo, da cui dipende: e però devo andare è presente, ho dovuto andare è passato, dovrò andare è futuro. Ha nondimeno anch’egli un passato proprio, come esser andato, e un futuro come essere per andare, o avere ad andare.

 

 

/95/CAPO IV

Dei verbi transitivi, e intransitivi

 

I verbi si chiamano transitivi, o intransitivi secondo la natura dell’attributo, che in lor si contiene. Allorché questo esprime un’azione, o una proprietà relativa, che non riman nel soggetto, ma dal soggetto passa per così dire in un altro oggetto, il verbo appellasi transitivo dal latino transire, ‘passare’. Così dicendo il fuoco abbrucia le legna, l’azione di abbruciare non resta nel fuoco, ma passa nelle legna; abbruciare pertanto è un verbo transitivo, come lo sono pure amare, leggere, scrivere ecc. Quando all’opposto l’attributo esprime una proprietà, o un’azione, che non passa in alcun oggetto, ma modifica solamente il soggetto medesimo, il verbo si chiama intransitivo; così Pietro cammina, esprime bensì un’azione di Pietro, ma che rimane in lui, e modifica soltanto la sua esistenza senza passare in alcun altro oggetto.

/96/ I verbi transitivi si pongon anch’essi talvolta assolutamente senza esprimere niun oggetto, a cui il loro significato si riferisca; così ad uno, che mi chiedesse quel ch’io so, posso rispondere semplicemente: io leggo, o io scrivo, non significando che l’atto, in cui sono; ma per lo più anche l’oggetto si esprime, come io leggo l’Eneide; e in tal caso il soggetto della proposizione, perché è quello che opera, dai gramatici si chiama agente, e l’oggetto a cui l’operazione è diretta, perché vien come a soffrire quest’operazione sopra di sé, dicesi paziente.

            Questi verbi talvolta esprimono direttamente l’azione del soggetto, sopra l’oggetto, e allora si chiamano attivi; ma talvolta la proposizione

 

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 si rovescia di modo, che essi esprimono invece la passione per così dire, che l’oggetto soffre dall’azione del soggetto, e allora si chiaman passivi. Così dicendo: Achille uccise Ettore il verbo è attivo, e dicendo Ettore fu ucciso da Achille il verbo è passivo.

/97/ I verbi intransitivi, come ognun vede, non possono mai farsi passivi, perché non esprimono alcuna azione, che cada sopra d’alcun oggetto. Tuttavolta si usan anch’essi passivamente quando si vuole accennare indeterminatamente l’esistenza di qualche proprietà, o azione senza indicare il soggetto, in cui si trova, come si va, si viene; e qualche volta ancora quando il soggetto è espresso, ma in una maniera indeterminata, come: da tutti si corre al maraviglioso; da pochi si vive rettamente, e saggiamente. E questi si chiamano impersonali di voce passiva, perché si usan soltanto nella terza persona del singolare.

            Gli intransitivi presso ai gramatici si chiaman neutri, cioè né attivi, né passivi; e fra i neutri si pongon ancora alcuni verbi transitivi di lor natura, ma che però dai Latini non si facevano mai passivi, perché il loro oggetto invece di esser posto all’accusativo mettevasi al dativo, come obedire, servire, studere alicui, o alicui rei invece di aliquem, o aliquid. Ma presso di noi tutti i verbi /98/ transitivi si possono far passivi egualmente, onde si dirà ottimamente: è vergogna che da noi si studiin per tanto tempo le lingue morte, o straniere, e non si studii la propria; chi ha diritto di comandare deve essere ubbidito; i padroni sovvente son mal serviti ecc.

 

 

CAPO V

Dei verbi ausiliari ‘essere’, e ‘avere’

 

Prima di passare alle conjugazioni de’ verbi cioè ad esporre la maniera, con cui secondo la diversità dei modi, dei tempi, dei numeri, e delle persone varian le lor desinenze, convien premettere le notizie necessarie intorno all’uso de’ verbi essere, e avere, che servono alla formazione de’ tempi passati di tutti gli altri, e chiamansi perciò ausiliari. La lor conjugazione è irregolare, ed eccola per disteso.

 

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/99/Conjugazione del verbo ‘essere’

 

MODO DIMOSTRATIVO

Tempo presente. Singolare: io sono, tu sei, egli è. Plurale: noi siamo, voi siete, essi sono.

Passato imperfetto. Sing[olare]: era, eri, era. Plur[ale]: eravamo, eravate, erano.

Passato perfetto indeterminato. Sing[olare]: fui, fosti, fu. Plur[ale]: fummo, foste, furono, e in poesia furo.

Perfetto determinato. Sing[olare]: sono stato, sei stato, è stato. Plur[ale]: siamo stati, siete stati, sono stati.

Trapassato imperfetto. Sing[olare]: era, eri, era stato. Plur[ale]: eravamo, eravate, erano stati.

Trapassato perfetto. Sing[olare]: poiché fui, fosti, fu stato. Plur[ale]: poiché fummo, foste, furono stati.

Futuro imperfetto. Sing[olare]: sarò, sarai, sarà, o fia. Plur[ale]: saremo, sarete, saranno, o fieno.

/100/ Futuro perfetto. Sing[olare]: sarò, sarai, sarà stato. Plur[ale]: saremo, sarete, saranno stati.

 

IMPERATIVO

 

Presente. Sing[olare]: sii, o sia tu, sia egli. Plur[ale]: siamo noi, siate voi, siano, o sieno eglino.

Futuro. Sing[olare]: sarai tu, sarà egli. Plur[ale]: saremo noi, sarete voi, saranno eglino.

 

SOGGIUNTIVO

 

Presente. Sing[olare]: che io sia, tu sii, o sia, egli sia. Plur[ale]: siamo, siate, siano, o sieno.

Imperfetto. Sing[olare]: fossi, fossi, fosse. Plur[ale]: fossimo, foste, fossero.

Passato perfetto. Sing[olare]: sia, sii, sia stato. Plur[ale]: siamo, siate, siano, o sieno stati.

Trapassato. Sing[olare]: fossi, fossi, fosse stato. Plur[ale]: fossimo, foste, fossero stati.

Futuro. Sing[olare]: sia, sii, sia per essere. Plur[ale]: siamo, siate, sieno per essere.

 

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/101/SOGGIUNTIVO CONDIZIONALE

 

Presente. Sing[olare]: fossi, e sarei; fossi, e saresti; fosse, e sarebbe, o saria, o fora. Plur[ale]: fossimo, e saremmo; foste, e sareste; fossero, e sarebbero, o sarebbono, o sariano, o forano.

Imperfetto. Fossi, e sarei ecc., aggiungendovi stato.

 

INFINITO

 

Presente: essere. Passato: essere stato. Futuro: esser per essere, o avere ad essere.

 

 

Conjugazione del verbo ‘avere’

 

DIMOSTRATIVO

Presente. Sing[olare]: ho, hai, ha. Plur[ale]: abbiamo, avete, hanno.

Imperfetto. Sing[olare]: aveva o avea, avevi, aveva o avea. Plur[ale]: avevamo, avevate, avevano, o aveano.

Perfetto indeterminato. Sing[olare]: ebbi, avesti, ebbe. Plur[ale]: avemmo, aveste, ebbero.

/102/ Perfetto determinato. Sing[olare]: ho, hai, ha avuto. Plur[ale]: abbiamo, avete, hanno avuto.

Trapassato imperfetto. Sing[olare]: aveva, avevi, avea avuto. Plur[ale]: avevamo, avevate, aveano avuto.

Trapassato perfetto. Ebbi, avesti ecc., avuto.

Futuro imperfetto. Sing[olare]: avrò, avrai, avrà. Plur[ale]: avremo, avrete, avranno.

Futuro perfetto. Avrò, avrai ecc. avuto.

 

IMPERATIVO

 

Presente. Sing[olare]: abbi tu, abbia egli. Plur[ale]: abbiamo noi, abbiate voi, abbiano eglino.

Futuro. Avrai tu, avrà egli ecc.

 

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SOGGIUNTIVO

 

Presente. Sing[olare]: che io abbia, tu abbia, o abbi, egli abbia. Plur[ale]: noi abbiamo, voi abbiate, essi abbiano.

Imperfetto. Sing[olare]: avessi, avessi, avesse. Plur[ale]: avessimo, aveste, avessero.

Perfetto. Abbia, abbi ecc. avuto.

Trapassato. Avessi, avessi, avesse ecc. avuto.

/103/ Futuro. Che io abbia, tu abbi ecc. ad avere, o sia per avere.

 

SOGGIUNTIVO CONDIZIONALE

 

Presente. Sing[olare]: avessi, e avrei; avessi, e avresti, avesse, e avrebbe, o avria. Plur[ale]: avessimo, e avremmo; aveste, e avreste; avessero, e avrebbero, o avrebbono, o avriano.

Imperfetto. Avessi, e avrei; avessi, e avresti ecc. avuto.

 

INFINITO

 

Presente: avere. Passato: aver avuto. Futuro: aver ad avere, o essere per avere.

 

            Le qui notate sono le sole voci, che si debban usare di questi due verbi. E perciò fossimo, e avessimo, o ebbimo per fummo, e avemmo; che tu fosti, o avesti per fossi, e avessi; saressimo, e avressimo per saremmo, e avremmo sono errori.

            Ero, e avevo nella prima persona dell’imperfetto sebbene più regolari, per/104/ciocché distinguono la prima persona dalla terza, pure dai migliori non s’usano.

            Semo, sete, e avemo per siamo, siete, e abbiamo; eramo, eri, e avevi per eravamo, eravate, e avevate; che io sii, o abbi, che essi siino, o abbino per sia, abbia, siano, e abbiano; io saria, o avria per

 

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 sarei, avrei; averò, averai ecc. per avrò, avrai sono voci pur da guardarsene.

            Furo, fia, fieno, saria, o fora, e sariano, o sarieno, o forano, invece di furono, sarà, saranno, sarebbe, sarebbero son più del verso, che della prosa, come pure aggio, ave, avei, avia, aggia, aggiate, aggiano invece di ho, ha, avevi, avea, abbia, abbiate, abbiano. Ebben, o ebbon, arò, arei per ebbero, avrò, avrei sono affettazioni.

            Quanto al loro uso nella formazione de’ tempi passati degli altri verbi, i transitivi quando sono attivi sempre voglion l’avere; quando sono passivi non solo i passati, ma tutti i loro tempi si formano col verbo essere, e il participio passato del verbo proprio, come sono amato, eri veduto, fu letto ecc.

/105/ I verbi intransitivi s’accompagnano la maggior parte col presente, e coll’imperfetto del verbo essere, come sono andato, era venuto. Ma ve n’hanno alcuni, che amano in cambio la compagnia del verbo avere, e sono dormire, parlare, tacere, desinare, cenare, ridere, scherzare, tardare, indugiare, passeggiare, navigare, cavalcare, e pochi altri, che hanno ai passati ho dormito, ho parlato, ho taciuto ecc. E ve n’han pure di quelli, che richiedono ora l’essere, ora l’avere; e sono quei, che talvolta si pongon soli, talvolta sono seguiti da un nome colla preposizione, e talora da un nome senza preposizione. Questi nei primi due casi si costruiscono col verbo essere, come è fuggito dai ladri; è corso per lungo tratto; è vissuto per lungo tempo, o semplicemente è fuggito, è corso, è vissuto; nel terzo si costruiscono coll’avere, come se fossero verbi transitivi, e si dice ha fuggito i ladri; ha corso lungo tratto; ha vissuto molt’anni.

            Quando i verbi si accompagnano coi nomi personali mi, ti, si, ci, vi, ri/106/chieggono ai loro passati o l’essere, o l’avere secondo i varj ufficj che fanno questi nomi personali a lor congiunti. Qualche volta essi esprimono i passivi, come: la verità si odia da molti invece di dire è odiata; o gli impersonali di voce passiva, come si va, si viene, si corre ecc. Qualche volta significano, che l’azione, o la proprietà espressa dal verbo rimane nel soggetto medesimo, o sopra di lui ricade, come affligersi, rallegrarsi, che voglion dire ‘affligere’, ‘rallegrare
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sé medesimo’, e lo stesso si dica di vendicarsi, compiacersi, contristarsi ecc., i quali verbi benché si pongano fra gli intransitivi, egli è però chiaro, che sono transitivi di lor natura, e il loro oggetto, o accusativo paziente è il nome personale, che gli accompagna. Qualche volta finalmente questi nomi personali s’aggiungono ai verbi semplicemente per ripieno, e per grazia di lingua, e ciò si fa tanto coi transitivi, quanto cogli intransitivi, come per esempio: il tale non sa quel ch’ei si dica, e faria gran senno s’ei si tacesse.

/107/ Or nel primo, e nel secondo caso i tempi passati si forman sempre col verbo essere; onde si dice: non si è veduto nessuno; si è parlato molto; mi son doluto; ci siam rallegrati ecc. Nell’ultimo caso, se il nome personale aggiunto per puro ripieno va unito ad un verbo transitivo, questo seguita tuttavia a formare i suoi passati col verbo avere, come: ei non sa quello, che s’abbia detto. Ma se il verbo è intransitivo, ei si costruisce anche in questo caso col verbo essere; e perciò si dirà egli avrebbe fatto meglio, se si fosse taciuto.

            Quanto ai verbi potere, e volere la regola è, che quando sono seguiti da un infinito, che soglia costruirsi col verbo essere, vogliono essi pure questo ausiliare, e quando da un infinito, che si costruisca coll’avere, anch’essi richiedon l’avere, e perciò si dirà non son potuto andare; non ho potuto vedere. Ma l’uso dei migliori dimostra, che quando non siano accompagnati dai nomi mi, ti, si, ci, vi si possono senza errore costruir sempre coll’avere; onde sarà ben detto egualmente /108/ non ho potuto, e non son potuto andare, non ho voluto, e non son voluto venire.

 

 

CAPO VI

Delle conjugazioni de’ verbi regolari

 

I verbi, che varian nella medesima maniera le lor desinenze secondo la variazione de’ modi, de’ tempi, de’ numeri, e delle persone si dicon essere della medesima conjugazione. Queste si distinguono dalla terminazione dell’infinito, e sono tre nella nostra lingua, in -are,
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 in -ere, e in -ire, come amare, temere, o leggere, e sentire.

            I Latini non avevano che queste tre medesime terminazioni; ma laddove presso di noi quei che cadono in -ere sia egli lungo, o sia breve son della stessa conjugazione, presso loro formavano due conjugazioni distinte.

            Quei verbi, che in tutto seguono la lor conjugazione si chiamano regolari, quei che da lei s’allontanano si dicono anomali, ossia irregolari.

/109/ In altro poi non consiste la maniera di conjugare un verbo italiano, che nel levargli la desinenza dell’infinito, e lasciando intatto il resto della parola sostituirvi quella, che è propria d’ogni modo, tempo, numero, e persona. Porremo qui l’esempio di quattro verbi regolari un della prima conjugazione, due della seconda colle due terminazioni in -ere lungo, e in ‑ere breve, e un della terza. Questi sono amare, temere, leggere, e sentire, i quali debbon servire di norma per la conjugazione di tutti gli altri verbi regolari.

 

 

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MODO DIMOSTRATIVO

 

 

Tempo presente

 

Sing[olare]

amo            temo                leggo                sento

ami             temi                 leggi                senti

ama            teme                 legge                sente

Plur[ale]

amiamo       temiamo           leggiamo          sentiamo

amate          temete              leggete             sentite

amano         temono             leggono                        sentono

 

 

/110/Passato imperfetto

 

Sing[olare]

amava         temeva             leggeva            sentiva

amavi          temevi              leggevi             sentivi

amava         temeva             leggeva            sentiva

Plur[ale]

amavamo     temevamo         leggevamo        sentivamo

amavate      temevate           leggevate          sentivate

amavano     temevano          leggevano         sentivano

 

 

 

Perfetto indeterminato

 

Sing[olare]

amai                       temei                lessi                 sentii

amasti         temesti             leggesti            sentisti

amò            temé                 lesse                 sentì

Plur[ale]

amammo     tememmo          leggemmo         sentimmo

amaste        temeste             leggeste            sentiste

amarono      temerono          lessero             sentirono

 

 

 

 

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Perfetto determinato

Sing[olare]

Ho

hai

ha

Plur[ale]

abbiamo

avete

hanno

   amato  temuto  letto  sentito

 

 

Trapassato imperfetto

 

Aveva, avevi, aveva ecc. amato, temuto, letto, sentito.

 

 

/111/Trapassato perfetto

 

Ebbi, avesti, ebbe ecc. amato, temuto, letto, sentito.

 

 

Futuro imperfetto

 

Sing[olare]

Amerò         temerò             leggerò            sentirò

amerai        temerai            leggerai           sentirai

amerà         temerà             leggerà            sentirà

Plur[ale]

ameremo     temeremo         leggeremo        sentiremo

amerete       temerete           leggerete          sentirete

ameranno    temeranno        leggeranno       sentiranno

 

 

Futuro perfetto

 

Avrò, avrai, avrà ecc. amato, temuto, letto, sentito.

 

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MODO IMPERATIVO

 

Tempo presente

 

Sing[olare]

ama            temi                 leggi                senti

ami             tema                legga                senta

Plur[ale]

amiamo       temiamo           leggiamo          sentiamo

amate          temete              leggete             sentite

amino          temano             leggano                        sentano

 

 

Futuro

 

amerai, temerai, leggerai, sentirai; amerà, temerà, leggerà, sentirà ecc. come nel dimostrativo.

 

 

/112/MODO SOGGIUNTIVO

 

Presente

 

Sing[olare]

ami             tema                legga                senta

ami             tema                legga                senta

ami             tema                legga                senta

Plur[ale]

amiamo       temiamo           leggiamo          sentiamo

amiate         temiate             leggiate                        sentiate

amino          temano             leggano                        sentano

 

 

Passato imperfetto

 

Sing[olare]

amassi         temessi             leggessi                       sentissi

amassi         temessi             leggessi                       sentissi

amasse        temesse            leggesse           sentisse

 

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Plur[ale]

amassimo    temessimo        leggessimo       sentissimo

amaste        temeste             leggeste            sentiste

amassero     temessero         leggessero        sentissero

 

 

Passato perfetto

 

abbia, abbi, abbia ecc. amato, temuto, letto, sentito.

 

 

Trapassato

 

avessi, avessi, avesse ecc. amato, temuto, letto, sentito.

 

 

Futuro

 

sia, sii, sia ecc. per amare, temere, leggere, sentire, ovvero abbia, abbi, abbia ad amare, temere, leggere, sentire.

 

/113/SOGGIUNTIVO CONDIZIONALE

 

Presente

 

Quel che esprime la condizione è amassi, temessi, leggessi, sentissi come nell’imperfetto del soggiuntivo semplice; il suo correlativo è:

 

Sing[olare]

amerei         temerei             leggerei            sentirei

ameresti      temeresti          leggeresti         sentiresti

amerebbe    temerebbe        leggerebbe       sentirebbe

Plur[ale]

ameremmo  temeremmo      leggeremmo      sentiremmo

amereste      temereste          leggereste         sentireste

amerebbero temerebbero     leggerebbero    sentirebbero

 

Imperfetto

 

 

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Quel che esprime la condizione è avessi, avessi, avesse ecc. amato, temuto, letto, sentito.

 

 

MODO INFINITO

 

Presente: amare, temere, leggere, sentire.

Passato: aver amato, temuto, letto, sentito.

Futuro: essere per, o aver ad amare, temere, leggere, sentire.

 

 

Osservazioni sulle conjugazioni

de’ verbi regolari

 

La maniera, con cui abbiamo disposto l’uno a fianco dell’altro i quattro verbi precedenti fa agevolmente /114/ distinguere in che sian essi diversi nelle loro desinenze, e in che s’accordino.

            In tutti i verbi regolari il presente del dimostrativo è quale da noi si è esposto.

            Nell’imperfetto convien notare, che il dire nella prima persona amavo, temevo, leggevo, sentivo non è di buon uso; e il dire nella seconda del plurale voi amavi, temevi, leggevi, sentivi è error manifesto. Nei tre ultimi verbi invece di temeva, leggeva, sentiva si dice anche temea, leggea, sentia, e invece di temevano, leggevano, sentivano si dice temeano, leggeano, sentiano.

            Nel perfetto indeterminato è errore il dire nella prima del plurale amassimo, temessimo, leggessimo, o lessimo, e sentissimo. I poeti usano nella terza anche amaro, temero, sentiro: ma amorono, o amorno invece di amarono è maniera bassa, e viziosa.

            Quei della prima e della terza conjugazione seguono quasi tutti esattamente anche in questo tempo come negli altri i verbi esemplari amare, e sentire: /115/ ma quei della seconda varian moltissimo. Alcuni nella prima, e terza del singolare, e nella terza del plurale oltre alla terminazione accennata ne hanno un’altra in -etti, -ette, -ettero, come  temetti, temette, temettero; credetti, credette, credettero ecc.

 

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 Tacere, piacere, giacere, nascere, nuocere e i loro composti nelle tre anzidette persone fanno tacqui, piacqui, giacqui, nacqui, nocqui; tacque, piacque, giacque, nacque, nocque; tacquero, piacquero, giacquero, nacquero, nocquero.

            I verbi, che nella prima del dimostrativo presente finiscono in -ggo terminan nel perfetto in -ssi, come da leggo, traggo, affliggo, struggo lessi, trassi, afflissi, strussi; questa terminazione è comune ancora a molt’altri, come scrivo, scrissi; vivo, vissi; muovo, mossi; cuoco, cossi; conduco, riduco, adduco ecc. condussi, ridussi, addussi; imprimo, esprimo, opprimo, reprimo ecc. impressi, espressi, oppressi, repressi; scuoto, riscuoto, percuoto scossi, riscossi, percossi; cedo, concedo ecc. cessi, concessi; quantunque i migliori in prosa usan piuttosto cedetti, e concedetti.

/116/ Quei che nella prima lor voce finiscono in -do preceduta da vocale hanno il perfetto in -si, come da chiedo, rido, rodo, chiudo chiesi, risi, rosi, chiusi. La stessa desinenza hanno pure quei che finiscono nella prima in -endo, -ondo, come da intendo, accendo, ascondo, rispondo intesi, accesi, ascosi, risposi. Fondo, confondo ecc. fanno fusi, confusi; pongo, compongo posi, composi; metto, prometto misi, promisi.

            I verbi, che nella prima voce escono in -lgo, -ngo, -rgo, nel perfetto cadono in -lsi, -si, -rsi, come da scelgo, tolgo, valgo scelsi, tolsi, valsi; da piango, spengo, cingo, pungo piansi, spensi, cinsi, punsi; da spargo, immergo, porgo, sorgo, o surgo sparsi, immersi, porsi, sorsi, o sursi. S’aggiungano torco, che fa torsi, ardo arsi, mordo morsi, scerno scersi, corro corsi, presumo, e consumo presunsi, e consunsi; anche perdo presso i poeti qualche volta ha persi, ma è meglio perdei, o perdetti.

            In -ei cadono empiere, battere, tondere, splendere, pascere, pendere, fendere; /117/ in -ei, e in -etti premere, vendere, rendere, ricevere, credere, cedere. Conoscere fa conobbi, piovere piovvi, e piovei, rompere ruppi.

            Quanto ai tempi che si formano cogli ausiliari essere, o avere, e i participj degli altri verbi non vi è da osservare che le varie desinenze,

 

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 che questi participj aver possono, e ne parleremo nel capo ultimo di questa parte.

            Nel futuro quei della prima conjugazione cangiano l’-a- di -are in ‑e-, il che pur accade nel soggiuntivo condizionale, onde amerò, e non amarò; amerei, e non amarei. Sono però eccettuati tutti i bisillabi, come darò, farò, starò ecc.

            L’imperativo non ha di voce propria che la seconda persona singolare nella prima conjugazione; nelle altre prende in prestanza la seconda persona e singolare, e plurale dal presente del dimostrativo, e l’altre persone dal presente del soggiuntivo. Invece della seconda persona del singolare suole anche adoperarsi l’infinito, quando però il verbo sia accompagnato dal non, come non fa/118/re altrui quello, che non vorresti, che a te fosse fatto.

            Nel presente del soggiuntivo la prima conjugazione ha tutto il singolare in -i, le altre l’han tutto in -a, salvo la seconda persona, che cade anche in -i quando non si possa confondere colla seconda del presente del dimostrativo, come da volere, sapere, potere vogli, sappi, possi. La terza del plurale nella prima conjugazione è sempre in -ino, nelle altre in -ano.

            Nel soggiuntivo condizionale invece di amerebbe, temerebbe ecc. si dice anche ameria, temeria, e invece di amerebbero, temerebbero, ameriano, o temeriano, amerebbono, o temerebbono: ma non già ameressimo, temeressimo, leggeressimo, sentiressimo in vece di ameremmo, temeremmo, leggeremmo, sentiremmo.

            Nell’infinito v’han molti verbi, che han doppia terminazione, come togliere, e torre, sciogliere, e sciorre ecc. ma questi son quasi tutti irregolari.

/119/ Quanto ai verbi passivi, noi abbiamo già avvisato, che tutti i loro modi, e i loro tempi si formano con quelli del verbo essere, aggiungendovi il participio passato del verbo attivo, e nelle terze persone si forman anche col verbo attivo unito al si. Non resta da aggiugnere, se non che all’essere spesso si sostituisce il verbo venire, come: la moderazione nelle cose vien praticata da pochi, invece di dire è praticata.

 

 

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CAPO VII

Dei verbi irregolari

 

In quasi tutte le lingue i verbi di maggior uso, e più frequente sono irregolari, il che naturalmente deriva da questo, che essi furono introdotti i primi, e in tempo per conseguenza, che formandosi una nuova lingua bastava agli uomini di poter convenire fra loro sopra il significato di alcune parole per manifestarsi scambievolmente col mezzo di esse i bisogni, e i pensieri più importanti, senza che potesser badare a terminar/120/le tutte regolarmente ad un medesimo modo. Ciò si conferma maggiormente dall’osservare, che lo stesso avviene ancora dei nomi, e in quelli massimamente, che si usano pressoché di continuo, quali sono i nomi personali, ed i pronomi. Dall’altra parte finché in una lingua non si erano introdotte che le parole più necessarie, essendo elleno poche, malgrado la loro irregolarità non potevano generare confusione. Laddove quando le lingue han cominciato ad arricchirsi, e a farsi copiose colla introduzione successiva di sempre nuovi vocaboli, dovettero allora gli uomini pensar necessariamente a stabilire alcune regole generali di terminazioni uniformi per evitar la confusione, che altrimenti doveva nascerne.

            Oltre agli ausiliari essere, e avere, di cui abbiam già parlato, ogni conjugazione ha i suoi verbi irregolari. Noi gli andremo enumerando, e riferiremo quei tempi, in cui dalla conjugazione regolare o in tutte, o in alcune delle loro voci si allontanano.

 

/121/Anomali della prima conjugazione

 

ANDARE. Questo verbo ha alcune voci proprie, altre prese dal latino vadere. Dimostrativo. Presente. Vado, o vo che è meglio detto, vai, va. Andiamo, andate, vanno. Futuro. Andrò, andrai ecc., non anderò, anderai. Imperativo. Va, vada, andiamo, andate, vadano. Soggiuntivo. Presente. Che io vada, tu vadi, o vada, egli vada. Andiamo, andiate, vadano. Soggiuntivo condizionale. Andrei, andresti

 

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ecc., non anderei, anderesti.

            DARE. Dimostrativo. Presente. Do, dai, dà, diamo, date, danno. Perfetto indeterminato. Io diedi, o detti, o die’, tu desti, egli diede, o diè, o dette. Demmo, deste, diedero, o diedono, o dierono, o dettero. Imperativo. . Soggiuntivo. Presente. Dia, dii, dia. Diamo, diate, dieno piuttosto che diano. Imperfetto. Dessi, dessi, desse. Dessimo, deste, dessero; non dassi, dasse ecc.

/122/ STARE. Dimostrativo. Presente. Sto, stai, sta. Stiamo, state, stanno. Perfetto. Indeterminato. Stetti, stesti, stette. Stemmo, steste, stettero. Imperativo. Sta. Soggiuntivo. Presente. Io stia, tu stii, o stia, egli stia. Stiamo, stiate, stieno piuttosto che stiano. Imperfetto. Stessi, stessi, stesse. Stessimo, steste, stessero, non già stassi, stasse ecc.

            FARE. È composto in parte di voci tratte dal latino facere. Dimostrativo. Presente. Faccio, o fo che è migliore, fai, fa. Facciamo, fate, fanno. Imperfetto. Faceva, e poetic[amente] fea, facevi, faceva ecc. Perfetto indeterminato. Feci, facesti, fece. Facemmo, faceste, fecero, e all’antica ferono, feciono, fenno. Imperativo. Fa. Soggiuntivo. Presente. Io, tu, egli faccia. Facciamo, facciate, facciano. Imperfetto. Facessi, facesse, e in verso fesse. Facessimo, faceste, facessero. Gerundio. Facendo. Participio passato. Fatto.

            CONSUMARE. Nel perfetto indeterminato oltre alle terminazioni regolari consumai, consumasti ecc. ha consunsi, consunse, e consunsero: e nel participio /123/ passato oltre a consumato ha consunto, voci tratte dal latino consumere.

 

 

Anomali della seconda conjugazione

 

In -ere lungo

 

CADERE. Dimostrativo. Presente. Cado, o caggio, cadi, cade. Cadiamo, o caggiamo, cadete, cadono, o caggiono. Perfetto indeterminato. Caddi, cadesti, cadde. Cademmo, cadeste, caddero. Futuro. Cadrò, o caderò, cadrai o caderai ecc. Similmente nel soggiuntivo

 

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 condizionale cadrei, o caderei ecc. ma cadrò, cadrei ecc. è meglio usato che caderò, caderei.

            DOVERE. Dimostrativo. Presente. Devo, debbo, o deggio; devi, debbi, o dei; deve, debbe, o dee. Dobbiamo, dovete, devono, debbono, deggiono, deono, o denno. Perfetto indeterminato. Dovetti, dovesti ecc. egli è regolare. Futuro. Dovrò, dovrai ecc. Soggiuntivo. Presente. Io debba, o deggia, tu debbi, debba, o deggia, egli debba, o deggia. Dobbiamo, dobbiate, debbano, o deggiano. Soggiun/124/tivo condizionale. Dovrei, dovresti ecc.

            PARERE. Dimostrativo presente. Pajo, pari, pare. Pajamo, o pariamo, parete, pajono. Perfetto indeterminato. Parvi, paresti, parve. Paremmo, pareste, parvero. Futuro. Parrò, parrai, parrà. Parremo, parrete, parranno. Soggiuntivo presente. Io, tu, egli paja. Pajamo, pajate, pajano. Soggiuntivo condizionale. Parrei, parresti ecc. Participio passato. Paruto piuttosto che parso.

            POTERE. Dimostrativo presente. Posso, puoi, può, o puote, non puole. Possiamo, potete, possono. Perfetto. Potei, potesti, poté. Potemmo, poteste, poterono, non puoti, puote, puotero. Futuro. Potrò, potrai ecc. Soggiuntivo. Presente. Io possa, tu possi, o possa, egli possa. Possiamo, possiate, possano. Soggiuntivo condizionale. Potrei, potresti, potrebbe, o potria, o poria. Potremmo, potreste, potrebbero, o poriano.

            SAPERE. Dimostrativo. Presente. So, sai, sa. Sappiamo, sapete, sanno. Perfetto. Seppi, sapesti, seppe. Sapemmo, /125/ sapeste, seppero. Futuro. Saprò, saprai ecc. Imperativo. Sappi. Soggiuntivo. Presente. Io sappia, tu sappi, o sappia, egli sappia. Sappiamo, sappiate, sappiano. Soggiuntivo condizionale. Saprei, sapresti ecc.

            SEDERE. Dimostrativo. Presente. Seggo, siedi, siede. Sediamo, o seggiamo, sedete, seggono, o seggiono. Perfetto. Sedei, sedesti ecc. Soggiuntivo. Presente. Segga. Sediamo, o seggiamo, sediate, seggano.

            TENERE. Dimostrativo. Presente. Tengo, tieni, tiene. Tenghiamo, o teniamo, tenete, tengono. Perfetto. Tenni, tenesti, tenne. Tenemmo, teneste, tennero. Futuro. Terrò, terrai ecc. Soggiuntivo. Presente. Io tenga, tu tenghi, o tenga, egli tenga. Tenghiamo, tenghiate, tengano.

 

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 Soggiuntivo condizionale. Terrei, terresti ecc.

            VEDERE. Dimostrativo. Presente. Vedo, veggo, o veggio, vedi, vede. Vediamo, o veggiamo, vedete, vedono, veggono, o veggiono. Perfetto. Vidi, o veddi, vedesti, vide, o vedde. Vedemmo, vedeste, videro, o veddero. Futuro. Vedrò, ve/126/drai ecc. Soggiuntivo. Presente. Io veda, vegga, o veggia, tu vegghi, o vegga, egli veda, vegga, o veggia. Vediamo, o veggiamo, vediate, o veggiate, vedano, veggano, o veggiano. Soggiuntivo condizionale. Vedrei, vedresti, vedrebbe ecc.

            VOLERE. Dimostrativo. Presente. Voglio, o vo’, vuoi, vuole. Vogliamo, volete, vogliono. Perfetto. Volli, volesti, volle. Volemmo, voleste, vollero. Futuro. Vorrò, vorrai ecc. Imperativo. Vogli tu. Soggiuntivo. Presente. Io voglia, tu vogli, o voglia, egli voglia. Vogliamo, vogliate, vogliano. Soggiuntivo condizionale. Vorrei, vorresti, vorrebbe ecc.

 

 

In -ere breve

 

BEVERE, o BERE. Dimostrativo. Presente. Bevo, o beo, bevi, o bei, beve, o bee. Beviamo, o bejamo, che è però affettato, bevete, o beete, bevono, o beono. Imperfetto. Beveva, o bevea ecc. Perfetto. Bevetti, o bevvi, bevesti, o beesti, bevette, o bevve. Bevemmo, o beemmo, beveste, o beeste, bevettero, o bevvero: bebbi, bebbe, bebbero dai buoni /127/ non s’usano. Futuro. Berò, berai, berà ecc. Soggiuntivo. Presente. Io beva, o bea, tu bevi, o beva, o bei, o bea, egli beva, o bea. Beviamo o bejamo, beviate, o bejate, bevano, o beano. Soggiuntivo condizionale. Berei, beresti ecc.

            DIRE, anticamente DICERE. Dimostrativo. Presente. Dico, dici, dice. Diciamo, dite, dicono. Imperfetto. Diceva, dicevi ecc. Perfetto. Dissi, dicesti, disse. Dicemmo, diceste, dissero. Futuro. Dirò, dirai ecc. Imperativo. Di. Soggiuntivo. Presente. Io dica, tu dichi, o dica, egli dica. Diciamo, diciate, dicano. Imperfetto. Dicessi, dicesse ecc. Soggiuntivo condizionale. Direi, diresti, direbbe ecc. Gerundio. Dicendo. Participio passato. Detto. Le stesse terminazioni hanno pure

 

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 i suoi composti benedire, maledire ecc.

            PORRE anticamente PONERE. Dimostrativo. Presente. Pongo, poni, pone. Poniamo, o ponghiamo, ponete, pongono. Imperfetto. Poneva, ponevi ecc. Perfetto. Posi, ponesti, pose. Ponemmo, poneste, posero. Futuro. Porrò, porrai ecc. /128/ Soggiuntivo. Presente. Io ponga, tu ponghi, o ponga, egli ponga. Ponghiamo, ponghiate, pongano. Imperfetto. Ponessi, ponesse ecc. Soggiuntivo condizionale. Porrei, porresti ecc. Gerundio. Ponendo. Participio passato. Posto. Tutti i suoi composti disporre, comporre, frapporre ecc. finiscono allo stesso modo.

            SCEGLIERE, o SCERRE. Dimostrativo. Presente. Scelgo, scegli, sceglie. Scegliamo, scegliete, scelgono. Perfetto. Scelsi, scegliesti, scelse. Scegliemmo, sceglieste, scelsero. Soggiuntivo. Presente. Io scelga, tu scelghi, o scelga, egli scelga. Scelghiamo, scelghiate, scelgano. Participio passato. Scelto. Lo stesso è de’ suoi composti.

            SCIOGLIERE, o SCIORRE. Dimostrativo. Presente. Scioglio, o sciolgo, sciogli, scioglie. Sciogliamo, sciogliete, sciogliono, o sciolgono. Perfetto. Sciolsi, sciogliesti, sciolse. Sciogliemmo, scioglieste, sciolsero. Futuro. Sciorrò, sciorrai ecc. Soggiuntivo. Presente. Io sciolga, tu sciolga, egli sciolga. Sciogliamo, o sciolghiamo, sciogliate, sciolgano. Soggiuntivo /129/condizionale. Sciorrei, sciorresti ecc. Participio passato. Sciolto. Così fan pure i suoi composti disciorre, prosciorre ecc.

            SPEGNERE. Dimostrativo. Presente. Spegno, spegni, spegne. Spenghiamo, spegnete, spengono. Perfetto. Spensi, spegnesti, spense. Spegnemmo, spegneste, spensero. Soggiuntivo. Presente. Io spenga, tu spenghi, o spenga, egli spenga. Spenghiamo, spenghiate, spengano. Participio passato. Spento.

            TOGLIERE, o TORRE co’ suoi composti ha le stesse variazioni che sciogliere, o sciorre.

            ADDURRE, CONDURRE, PRODURRE, RIDURRE ecc., si piegano come se l’infinito fosse adducere, conducere ecc., se non che nel futuro hanno addurrò, addurrai ecc., e nel condizionale addurrei, addurresti ecc.

 

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Anomali della terza conjugazione

 

APRIRE, COPRIRE ecc., son regolari in tutto, se non che nel perfetto oltre alle desinenze in -ii, -ì, e -irono /130/ hanno anche quelle in ‑ersi, -erse, e -ersero, come aprii, e apersi; aprì, e aperse; aprirono, e apersero.

MORIRE. Dimostrativo. Presente. Muojo, e poeticamente anche moro, muori, muore. Moriamo, o muojamo, morite, muojono. Perfetto. Morii, e non morsi, che è perfetto di mordere. Futuro. Morrò, morrai ecc. Soggiuntivo. Presente. Io muoja, tu muoi, o muoja, egli muoja. Moriamo, o muojamo, moriate, o muojate. Muojano. Soggiuntivo condizionale. Morrei, morresti ecc. Participio. Morto.

            SALIRE. Dimostrativo. Presente. Salgo, sali, sale. Saliamo, o salghiamo, salite, salgono, o sagliono. Soggiuntivo. Presente. Io salga, o saglia, tu salghi, o salga, egli salga, o saglia. Salghiamo, o sagliamo, salghiate, o sagliate, salgano, o sagliano.

            UDIRE prende alcune voci dall’antico odire. Dimostrativo. Presente. Odo, odi, ode. Udiamo, udite, odono. Soggiuntivo. Presente. Oda. Udiamo, udiate, odano.

            VENIRE. Dimostrativo. Presente. Vengo, o vegno, vieni, viene. Veniamo, /131/ venghiamo, o vegniamo, venite, vengono. Perfetto. Venni, venisti, venne, e non vense. Venimmo, e non vennimo, veniste, vennero. Futuro. Verrò, verrai ecc. Soggiuntivo. Presente. Io venga, tu venghi, o venga, egli venga. Venghiamo, venghiate, vengano. Soggiuntivo condizionale. Verrei, verresti ecc. Gerundio venendo, o vegnendo. Participio. Presente. Vegnente. Passato. Venuto.

            USCIRE. Dimostrativo. Presente. Esco, esci, esce. Usciamo, uscite, escono. Soggiuntivo. Presente. Esca. Usciamo, usciate, escano. Benché alcuni dicano esciamo, esciva, escirò ecc., derivandole dall’infinito escire; fuori però delle voci sopra accennate, in tutte le altre questo verbo ama meglio di cominciare per u-, che per e-.

            FINIRE. Dimostrativo. Presente. Finisco, finisci, finisce. Finiamo, finite, finiscono. Soggiuntivo. Presente. Finisca. Finiamo, finiate, finiscano.

 

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 Al medesimo modo in questi due tempi si piegano Ambire, fiorire, gioire, impallidire, gradire, languire, concepire, riverire, con/132/ferire, riferire, sparire. Ferire poi, inghiottire, nutrire, offerire, proferire si piegano e all’una, e all’altra maniera, come fero, inghiotto, nutro, offero, o offro, profero; e ferisco, inghiottisco, nutrisco, offerisco, e proferisco: ma nutro, e offero, o offro son meglio detti che nutrisco, e offerisco; fero è più del verso, che della prosa; e proferisco all’incontro è più usitato di profero.

            APPARIRE ha nel dimostrativo apparisco, apparisci, apparisce, o appare. Appariamo, apparite, appariscono, o appajono; e nel soggiuntivo apparisca, o appaja, e appariscano, o appajano. Lo stesso è di comparire, trasparire, e sparire.

 

CAPO VIII

De’ verbi difettivi

 

Verbi difettivi si chiamano quelli, che non han tutte le voci, siccome gli altri. Nella nostra lingua ve ne son varj; noi non accenneremo, se non quelli, che vengon più ad uso.

/133/ GIRE ha queste voci: gite; giva, o gìa, givi, givamo, givano, gìano; gisti, gì, o gìo, gimmo, giste, girono; girò, girai, girà, giremo, girete, giranno; gissi, gisse, gissimo, giste, gissero; girei, giresti, girebbe, giremmo, gireste, girebbono; gito.

            IRE ha ite, iva, ivano, iremo, irete, iranno, ito.

            RIEDI, riede, rieda, riedano sono le sole voci del verbo antico REDIRE.

            CALERE ha cale, caleva, calse, calerà, o carrà, caglia, calesse, calerebbe, o carrebbe, caluto.

            ARROGERE ha arroge, arrose, arrogendo.

            OLIRE ha oliva, olivi, olivano.

            SOLERE ha soglio, suoli, suole. Sogliamo, solete, sogliono, ha tutto l’imperfetto soleva, o solea, solevi ecc.; il soggiuntivo presente, soglia, sogli, sogliamo, sogliate, sogliano, e imperfetto solessi, solesse
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ecc., il gerundio solendo, e il participio solito.

            LICE, o lece è la sola voce del verbo licere, o lecere, che non s’adopera neppure all’infinito.

 

 

/134/CAPO IX

De’ verbi adoperati in luogo de’ nomi

 

Invece d’un sostantivo metafisico si usa spesso un verbo infinito, che esprime quella medesima idea astratta di qualche operazione, proprietà, o relazione, che dal sostantivo metafisico sarebbe espressa; così l’esser avaro è cosa sconvenevole, significa lo stesso, che l’avarizia è cosa sconvenevole, e si dice egualmente. Anzi egli è pur naturale, che gli uomini innanzi di inventare i sostantivi metafisici esprimessero prima le loro idee astratte col verbo essere e un aggettivo, o con un verbo, che li contenesse amendue dicendo per esempio l’esser vivo, o il vivere è cosa dolce; l’esser sano è cosa desiderabile; e che solo dappoi per abbreviare il discorso, e renderlo più vario abbiano inventati i sostantivi metafisici corrispondenti a questi infiniti dicendo la vita invece di dire l’esser vivo, o il vivere, la sanità invece di dir l’esser /135/ sano. Perciocché i primi nomi ad introdursi in ogni lingua devono certamente essere stati i sostantivi, e gli aggettivi fisici esprimenti l’idee degli oggetti reali, e delle qualità o reali o apparenti, che aveano gli uomini tutto giorno sott’occhio, e di cui avevan mestieri frequentemente di favellare. In appresso per esprimere le qualità relative tra due, o più oggetti avrann’essi inventato gli aggettivi, che chiamansi metafisici. Le idee astratte delle qualità o reali, o apparenti, o relative non si formano che dopo averle già negli oggetti osservate più volte, e avviene assai più di rado di averne a parlare. I segni adunque, con cui si esprimono sì fatte idee, cioè i sostantivi metafisici non debbon essere stati inventati, se non assai dopo. Or quando gli uomini avranno avuto mestieri di significare una qualche qualità considerata in astratto, si saranno serviti frattanto degli aggettivi,
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 e de’ verbi che già avevano, e che combinati fra loro bastano ad esprimerle egualmente. Questo è quello diffatti, che facciamo noi pure, /136/ quando ci occorra di dover favellare d’una qualche idea astratta, e ce n’han molte, per cui non siasi inventato ancora alcun sostantivo corrispondente. E di vero nella nostra lingua vi ha ben un nome, che significa l’atto di studiare, ed è studio; ma non ve n’ha già niuno, che esprima l’atto di imparare, e fa d’uopo, che diciamo necessariamente l’imparare. Oltreciò gli infiniti insieme coi nomi, che da loro son retti, giovan moltissimo per esporre alcune idee complicate, e composte, che mal si potrebbero dichiarare coi semplici nomi. S’io dirò per esempio: l’esser contento del proprio stato, il moderare i desiderj soverchi, il non lasciarsi né trasportare ad eccessiva gioja nelle prosperità, né abbattere nelle disgrazie ecc., formano il carattere d’un uomo saggio, s’intenderà facilmente quali siano le proprietà, che al carattere d’un uomo saggio io reputo convenire; laddove ciò mal potrebbesi esprimere coi soli nomi.

            Gl’infiniti adoperati in questi casi s’accompagnano colle preposizioni, e col/137/l’articolo secondo il bisogno come i nomi a cui equivalgono, e nelle proposizioni ora fanno l’ufficio del soggetto, ora dell’oggetto relativo del verbo. Così dicendo: l’invidiare altrui è cosa vile, e vergognosa, l’infinito invidiare sarà il soggetto, come lo sarebbe il nome invidia, a cui corrisponde. E dicendo desidero veder nei giovani un’onesta emulazione, l’infinito vedere insieme cogli altri nomi che l’accompagnano, esprimerà l’oggetto, a cui è indirizzato il mio desiderio. Ma può dirsi ancora desidero di vedere, e avremo allora un infinito accompagnato dalla preposizione di; l’oggetto però del verbo desidero non è più l’infinito, ma un sostantivo sottinteso, di cui questo infinito determina il significato: di maniera che è lo stesso, che se si dicesse «desidero la fortuna – o il piacere, o la consola­zio­ne di vedere ne’ giovani ecc. un’onesta emulazione».

            Ma non sempre il verbo, quando nella proposizione fa l’ufficio dell’oggetto relativo, si mette all’infinito. Ei si pone anche talvolta ad un modo defini/138/to, cioè al dimostrativo, o al soggiuntivo premettendovi la particella che. Così invece di dire: tutti concedono la virtù
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 essere necessaria alla felicità, si dice anche: tutti concedono, che la virtù è necessaria alla felicità. Anzi spesse volte egli ricusa di esser posto all’infinito, e vuole assolutamente un modo definito. Così non può dirsi: voglio te esser contento; ma deve dirsi: voglio che tu sii contento.

            Or sarebbe qui da vedere quando si debba egli porre all’infinito, e quando al dimostrativo, o al soggiuntivo. La cosa non è sì facile a definire: noi farem tuttavia su di ciò le osservazioni più importanti. Conviene adunque badare in primo luogo, se il verbo che serve di oggetto relativo, appartenga al soggetto della proposizion principale, o appartenga ad altro nome. Dicendo per esempio voglio andar nel tal luogo il verbo andare spetta al soggetto io; e dicendo voglio che tu vada il verbo vada spetta al nome tu. Secondo, conviene osservare se il verbo della proposizion principale esprime un affetto dell’animo, come mi /139/ piace, mi duole, temo, spero, voglio, desidero ecc., o un atto della mente, come so, credo, conosco, dubito ecc., o una sensazione, come sento, pruovo ecc., o un’azione, che fassi col mezzo delle parole, come ei narra, dice, prega, esorta, consiglia, persuade, comanda, afferma, nega, induce, muove, raccomanda, commette, incarica ecc., o un movimento proprio, come va, viene, giugne, scende, ascende ecc., o un movimento fatto fare ad altri, come tira, conduce, strascina, spinge, manda, o altre cose simiglianti.

            Quando il verbo principale esprime un affetto dell’animo, se il verbo soggiunto appartiene al soggetto della proposizione egli ama di esser posto all’infinito, e trattone il verbo voglio, cogli altri ama anche di esser accompagnato dalla preposizione di, come voglio far la tal cosa, e desidero, bramo, mi piace, temo, spero, godo, m’incresce di far la tal altra, sottintendendo l’occasione, l’incontro, l’obbligo ecc. di farla: se poi appartiene ad altro nome, egli ama piuttosto di esser messo ad un modo definito; e que/140/sto dev’essere il soggiuntivo perché la proprietà, o l’azione da lui espressa non si afferma, ma si
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 accenna soltanto. Quindi si dirà voglio, desidero, godo, mi spiace ecc., che tu faccia la tale, o tal altra cosa.

            Se il verbo principale esprime un atto della mente, il verbo soggiunto si può mettere sempre all’infinito: ma se appartiene al soggetto vuole per ordinario la preposizione di, come egli sa, crede, conosce di essere innocente, laddove quando appartiene ad altro nome non la vuol mai, come io so, credo, parmi, dubito, penso, conosco lui esser reo: lo stesso è pure dei verbi dire, narrare, sentire, provare, affermare, negare, e simili. Che se il verbo soggiunto vuol porsi ad un modo definito, egli deve essere dimostrativo, quando il verbo principale è affermativo, e esprime una cognizione certa, ma all’incontro deve essere soggiuntivo quando il verbo è accompagnato dalla negazione, o significa una cognizione soltanto probabile, o dubbiosa. Si dirà adunque so, conosco, vedo, comprendo, che ciò /141/ è vero; e non so, non conosco, dubito, credo, parmi, che ciò sia falso. E la ragione n’è chiara: poiché nel primo caso l’oggetto della cognizione certa si afferma assolutamente, laddove nel secondo l’oggetto d’una cognizione o soltanto probabile, o dubbiosa non può che solamente accennarsi.

            Coi verbi andare, venire, giugnere, scendere, ascendere, tirare, condurre, accompagnare, spingere, mandare, indurre, movere, sforzare, e con tutti quegli altri, che significano qualche specie di movimento o reale, o figurato, il verbo soggiunto dee porsi all’infinito accompagnato dalla preposizione a: come ei va, giugne, tira, sforza ecc., a prendere, o lasciar la tal cosa. Coi verbi raccomandare, commettere, incaricare, comandare, come pure coi verbi pregare, consigliare, esortare, persuadere, e simili abbiam già avvisato nel capo 3, che se il soggiunto si mette ad un modo definito egli dev’essere il soggiuntivo; se poi si mette all’infinito coi primi vuol essere preceduto dalla preposizione di, coi secondi ammette /142/ anche questa, ma colla preposizione a si accompagna più volentieri.

 

 

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CAPO X

Del participio, del gerundio

e dei nomi verbali

 

Siccome il participio non è che un verbo trasformato in nome, così ritiene la proprietà del verbo di significar varj tempi. I Latini avevano tre participj uno pel presente, uno pel passato, e un altro pel futuro, come amans, amatus, e amaturus. Noi altri non abbiamo che il presente, e il passato, che sono amante, amato, leggente, letto ecc., benché il Boccaccio, e il Dante per imitare i Latini abbian voluto farne ancor dei futuri, dicendo perituro, e passuro. Anzi lo stesso participio presente è pochissimo in uso, e gli si sostituisce ordinariamente il gerundio dicendo per esempio: egli vedendo il pericolo se ne fuggì, piuttosto che vedente il pericolo.

            Il participio presente della prima conjugazione termina in -ante, come a/143/mante, dichiarante, e il gerundio in -ando come amando, dichiarando. Nelle altre conjugazioni il participio presente finisce in -ente come vedente, leggente, sentente (sebbene questo non s’usa) e il gerundio in -endo, come vedendo, leggendo, sentendo.

            Quanto al participio passato quei della prima, e della terza conjugazione hanno regolarmente la desinenza in -ato, e in ­-ito, come amato, e sentito; fra quei della terza però si debbono eccettuare comparire, aprire, concepire, morire, offerire, sepellire, che hanno per participj comparso, aperto, conceputo, o concetto, morto, offerito, o offerto, sepellito, o sepolto.

            Quelli della seconda siccome nel perfetto, così anche nel participio passato son variissimi. I verbi, che han l’infinito in -ere lungo, hanno ordinariamente il participio in -uto come temere temuto, godere goduto, eccettuatone rimanere, che ha rimaso, o rimasto. Quei che l’hanno
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 in -ere breve se nella prima persona del perfetto indetermina/144/to finiscono in ‑ssi, hanno il participio in ­-tto, come lessi letto, distrussi distrutto, trassi tratto, afflissi afflitto; se nel perfetto cadono in -si preceduta da vocale, l’hanno in -so, come rasi raso, affisi affiso, rosi roso, chiusi chiuso; s’eccettuin chiesi che ha chiesto, posi posto, misi messo; se cadono in -lsi l’hanno in -lto, come scelsi scelto, tolsi tolto; s’eccettuin valse, e calse, che han valuto, e caluto; se cadono in -rsi altri l’hanno in -rso, altri in -rto, come sparsi sparso, dispersi disperso, morsi morso, e scorsi scorto, sorsi sorto; se cadono in -nsi l’hanno in -nto, come fransi franto, spensi spento, finsi finto, giunsi giunto; se in -ei, o in -etti l’hanno in -uto, come perdei perduto, non perso, ricevei ricevuto. V’han di quelli, che l’hanno in -esso, -isso, -osso, ‑usso, come concesso, invece di cui però meglio si dice conceduto, fisso, percosso, discusso ecc.

            Abbiam già più volte osservato, che il participio passato unito col presente, e coll’imperfetto degli ausiliarj essere, e avere serve a formare i tempi /145/ passati de’ verbi intransitivi, e transitivi attivi; e unito con tutti i tempi del verbo essere a formar tutti i tempi de’ verbi passivi. Or nei verbi intransitivi egli deve sempre accordarsi, quando questi hanno l’essere per ausiliare, col soggetto della proposizione, onde si dirà è giunta l’ora, è giunto il tempo: all’opposto quando hanno l’avere, il participio ritiene sempre la terminazione in -o qualunque sia il genere, e il numero del soggetto; quindi si dice egualmente io ho taciuto, e molti hanno taciuto. Nei verbi passivi deve accordarsi col nome, che riceve sopra di sé l’azione, o la relazione espressa dal verbo; e però si dice: «Cartagine fu distrutta da Scipione»; «i Romani furon più volte sconfitti da Annibale». Nei verbi attivi dovrebbe sempre accordarsi coll’oggetto, a cui il suo significato si riferisce; e perciò si dovrebbe dire: «ho vedute molte persone, ho veduta molta gente»: ma si dice anche «ho veduto molte persone, o molta gente»; e ciò forse perché sentendo ho veduto noi vi suppliamo colla mente il no/146/me universale un oggetto, il quale oggetto vien poi determinato qual sia dalle parole seguenti molte persone, o molta gente.

 

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            I nomi verbali son varj, e han vario significato. Commendabile, o commendevole, venerabile, o venerando, significan un oggetto degno d’essere commendato, o venerato; amatore, conoscitore, e simili significan un oggetto che ama, o che conosce ecc. Essi debbon sempre accordarsi col sostantivo a cui si riferiscono, come fan tutti gli altri aggettivi; e perciò quando il sostantivo è femminile si dice invece di amatore, conoscitore, amatrice, e conoscitrice.

 

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/147/PARTE III

DELL’AVVERBIO, DELLA PREPOSIZIONE,

DELLA CONGIUNZIONE, E DELL’INTERPOSTO

 

 

CAPO I

Dell’avverbio

 

L’ufficio dell’avverbio già s’è spiegato abbastanza nella introduzione, dove abbiam detto, che egli serve ad esprimere qualche modificazione o dell’affermazione, e dell’esistenza significate dal verbo essere, o delle azioni, proprietà, e relazioni significate dagli attributi; e ad esprimerla con una sola parola, dove altrimenti necessaria sarebbe una preposizione con uno, o più nomi.

Egli accade però sovvente, che un avverbio si vegga modificare, un semplice aggettivo, senza che sia l’attributo della proposizione, come è difficile trovare un uomo pienamente contento. Ma se vorremo esaminar questi casi attentamente, vedremo che sempre vi si /148/ sottintende il verbo essere, il quale forma una nuova proposizione implicita, di cui sì fatti aggettivi son gli attributi. Infatti nell’esempio arrecato non si sottintende egli manifestamente un uomo, che sia pienamente contento?

            Nella stessa maniera si può spiegare ancor l’uso di quegli avverbj, che si adoprano per dar maggiore, o minor forza ad un altro avverbio. In fatti vivere poco, o molto, più, o meno felicemente, non è egli lo stesso, che vivere in uno stato poco, o molto, più, o meno felice? E in questa proposizione non si sottintende apertamente il verbo essere, cioè in uno stato, che è poco, o molto, più o meno felice? Noi possiam dunque dire generalmente, che la proprietà degli avverbj è sempre di modificare o un verbo, o un attributo, e che qualora essi sembrano
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 modificare un semplice aggettivo, o un altro avverbio, il verbo, o l’attributo vi è sottinteso.

            Ciò posto agevolmente si vede in quante classi gli avverbj si debban di/149/stinguere. Perciocché essi debbono modificare o l’affermazione, e l’esistenza significate dal verbo essere, o le azioni, proprietà, e relazioni espresse dagli attributi. Ma l’affermazione, e la negazione può farsi o con certezza, o con probabilità, o con dubbio. L’esistenza d’una operazione, proprietà, o relazione può trovarsi in un soggetto in uno, o in un altro tempo, in uno, o in un altro luogo. Le operazioni, proprietà, e relazioni medesime posson esser diverse, o riguardo alla quantità, o riguardo alla qualità. Vi saran dunque gli avverbj: 1. di affermazione, e negazione assoluta; 2. di probabilità, e di dubbio; 3. di tempo; 4. di luogo; 5. di quantità; 6. di qualità.

            Nel numero degli avverbj si soglion porre comunemente alcune maniere, in cui è espressa la preposizione, e il nome a cui l’avverbio deve con una sola parola equivalere, come per verità, per certo, da senno, e simili. Queste maniere, come ognun vede non possono entrare per alcun modo nella classe degli /150/ avverbj. Tuttavolta siccome s’usano a modo d’avverbj, e l’uso n’è frequentissimo, noi riferirem queste pure, e darem loro il nome di modi avverbiali. Né ci prenderemo tuttavia la briga di separare i modi avverbiali dagli avverbj, perciocché è troppo facile il distinguerli per sé stessi, e avendo la maggior parte di essi dei veri avverbj a loro corrispondenti nel significato, sembra più opportuno il collocarli l’un presso all’altro, ciascuno nel proprio luogo.

 

 

Avverbj, e modi avverbiali

 

            Di AFFERMAZIONE, e NEGAZIONE assoluta. Tra questi si sogliono annoverare principalmente le voci , e no, e i loro composti maisì, e mainò: ma siccome esse equivalgono non ad una preposizione, e ad un nome, ma alle intere proposizioni ‘ciò è vero’, ‘ciò è falso’, così appartengono alla classe degli interposti. Le voci bene, e volentieri 
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quando s’adoprano per affermare significan ‘va bene’, ‘il farò volentieri’. Sono adun/151/que avverbj usati con ellissi (che è come vedremo una delle figure gramaticali, per cui si tralascia qualche parte del discorso, che facilmente si possa sottintendere) e in grazia dell’ellissi significan affermazione, che altrimenti di lor natura sono avverbj puramente di qualità.

            I veri avverbj, e modi avverbiali di affermazione assoluta sono adunque: assolutamente, certamente, certo, per certo, di certo, francamente, sicuramente, di sicuro. Veramente, per verità, in verità, in vero. Infatti, difatti. Appunto, per l’appunto, propriamente, precisamente. Infallibilmente, infallantemente, senza fallo. Indubitatamente, senza dubbio, senza meno. Affé, per mia fé, in fede mia. Da senno, da buon senno. Da galantuomo, da uomo onesto. Come «certamente ei vi fu», «è così assolutamente», «è così appunto», «è così diffatti»; «ve n’assicuro da uomo onesto» ecc.

            Per la negazione assoluta servono gli avverbi medesimi, ove il verbo sia accompagnato dal non. Ella però ne ha inol/152/tre alcuni suoi proprj e particolari, e sono mica, punto, per nulla, per niente, nulla, niente, niente affatto, i quali tutti amano d’esser posti dopo del verbo, e che il verbo tuttavia sia preceduto dal non; come «ei non è mica giunto»; «non l’ama punto, niente, niente affatto».

            Di PROBABILITÀ. Probabilmente, naturalmente.

            Di DUBBIO. Forse, che equivale a può darsi, può essere. Se mai, se a caso, se per avventura, che esprimono una condizion dubbiosa. Circa, incirca, all’incirca, intorno a, presso a, a un di presso, presso a poco, in quel torno, quasi, pressoché, che indican una quantità incerta.

            Di TEMPO. Presente. Ora, adesso, presentemente, attualmente. Passato. Poco fa, poc’anzi, dianzi, or ora, testé, (che significa anche ‘in questo punto’) di fresco; recentemente. Già, una volta, anticamente. Prima, in prima, avanti, innanzi, anzi. Per l’addietro, per lo passato. Futuro. Fra poco, in breve, di corto. In avvenire, per l’avvenire, da /153/ qui innanzi, di qua in avanti, quando che sia. Per significare la successione d’una cosa, ad un’altra, o di un tempo, ad un altro.

 

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 Appresso, dopo, indi, quindi, quinci, poscia, poi, di poi, dappoi, d’allora, o da quell’ora, o da quel punto in poi, o in appresso. Per significare l’avvenimento di due, o più cose nel medesimo tempo. Intanto, frattanto, mentre, in quel mentre, in questo, in quello, in questa, o in quella. Per esprimere prontezza, e celerità. Subitamente, subito, tostamente, tosto, tantosto, prestamente, presto, ratto, di presente, immantinente, incontanente, prontamente. Per esprimere tardanza, e lentezza. Tardi, adagio, a bell’agio, lentamente, pian piano, passo passo, a poco a poco. Per esprimere un tempo continuato. Continuo, di continuo, continuamente, continuatamente. Per significare, che una cosa dura anche al presente. Tuttora, tuttavia, ancora, puranco. Per significare, che è durata fino al presente. Finora, fino ad ora, infino ad ora. Per un tempo limitato. Finché, infinché, fino a tanto che. /154/ Per un tempo interrotto. Di quando in quando, di tratto in tratto, interrottamente. Per esprimere variazioni d’accidenti, o di fatti in diversi tempi. Ora, ora; quando, quando; adesso, adesso. Per significare un tempo lungo. Molto, assai, lungamente, a lungo, a dilungo. Per un tempo breve. Poco, non guari, brevemente, in breve, in poco d’ora. Per significare in qualunque tempo. Qualora, qualvolta, ogni qual volta. Se una cosa medesima suol avvenire più volte in diversi tempi. Spesso, di spesso, spesse volte, spesse fiate, sovvente, sovventi volte, sovventemente, più volte, assai volte, frequentemente, di frequente. Se tutte le volte. Sempre, mai sempre, sempre mai, ognora, ogni volta. Se quasi tutte. Il più, per lo più, il più delle volte, le più volte. Se poche. Raro, rado, di raro, di rado, rare, o rade volte. Se alcune volte soltanto. Alle volte, talvolta, talora, qualche volta, qualche fiata. Mai vuol dire in alcun tempo, e volendo esprimere in nessun tempo conviene aggiugnervi il non. Giammai, unqua, unque/155/mai han lo stesso significato. Ma unquanco equivale all’unquam adhuc dei Latini, o mai ancora: e io non so approvare quelli, che l’usano per mai semplicemente. Omai, ormai, oggimai talvolta significan ‘alla fine’, e talvolta ‘ora quasi’ come: «egli è tempo oggimai che vi risolviate a tornare», cioè ‘alla fine’; «sono ormai sette mesi, che voi mancate di qui», cioè ‘sono ora quasi’. Oggidì vuol dire ‘a questi giorni’. Oggi,Pagina 84

 

 jeri, e domani per sé son veri sostantivi, come «oggi è lunedì, domani è martedì», e quando s’adopran come avverbj si sottintende loro la preposizione in. Finalmente, alla fine, in fine, ultimamente, per ultimo, in ultimo si adoperan nelle conclusioni, e per indicare il termine d’una cosa qualunque.

            Di LUOGO. Qui, qua significan ‘in questo luogo’; costì, costà ‘in cotesto luogo’; , là, colà, quivi, ivi ‘in quel luogo’. Ivi, e quivi non s’adoperan, che parlando d’un luogo già nominato, e non si possono come gli altri unire colle preposizioni; ma incambio di dire di /156/ ivi, o di quivi, si dice indi e quindi.  non s’adopera che parlando d’un luogo vicino. Onde significa ‘da quale’, o ‘dal qual luogo’; ove ‘in quale’, o ‘nel qual luogo’; altrove ‘in altro luogo’; altronde ‘da altro luogo’; ovunque ‘in qualunque luogo’; pertutto, e da per tutto ‘in tutti i luoghi’; su, e sopra ‘nel luogo superiore’, giù, e sotto ‘nel luogo inferiore’; entro, dentro, per entro, addentro ‘nel luogo interiore’, fuori, fuora, e di fuori, o di fuora ‘nel luogo esteriore’. Avanti, davanti, innanzi, nanti ‘nel luogo anteriore’. Dietro ‘nel luogo posteriore’. Appresso, o presso, o vicino ‘in un luogo vicino’. Lontano, o lungi ‘in un luogo lontano’. Gli altri sono: a parte, in disparte. Da un canto, da un lato, da una parte. A fianco, accanto, allato. Di rimpetto, di rincontro, incontro, di contra, di contro. Attorno, d’attorno, intorno, d’intorno. Addosso. Quassù, quaggiù. Lassù, laggiù. Costassù, costaggiù. In alto, o all’alto. Al basso, abbasso, o da basso. In fondo, o al fondo. Lungo, o al lungo, /157/come lungo il fiume, al lungo della spiaggia.

            Di QUANTITÀ, e di NUMERO. Tanto, o cotanto, quanto (invece di cui s’adoperan anche così, e come) ne sono i principali. Più, meno, o manco. Molto, assai, grandemente, d’assai, di gran lunga, di molto. Troppo, soverchio, soverchiamente, senza modo, oltremodo, senza misura, oltre misura, smisuratamente. Affatto, appieno, pienamente, compiutamente, al tutto, del tutto. Abbastanza, assai, sufficientemente. Il più, per lo più, per la più parte, per la maggior parte. Ancora, anche, eziandio, pure, pur anco. Di più, inoltre, oltre ciò. Solo, soltanto, solamente, unicamente, senza più. Almeno, almanco, neppure, nemmeno, nemmanco, neanche. Poco, scarsamente.

 

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 Alquanto, alcun poco, qualche poco, in parte, in qualche parte. Nulla, punto ecc.

            Di QUALITÀ, e di MODO. Bene, meglio, benissimo, ottimamente. Piuttosto, più presto, avanti, innanzi, anzi, prima, che s’usan tutti nel medesimo senso, e significan preferenza di una /158/ cosa ad un’altra. Male (che significa anche ‘difficilmente’, come mal si può uscire da questo impaccio), malamente, peggio, malissimo, pessimamente. Come, siccome, a modo di, a foggia di, a guisa di, a maniera di. Così, similmente, parimente, medesimamente, egualmente, al paro. Altrimenti, o altramente, diversamente, differentemente. All’incontro, al contrario, all’opposto, per lo contrario. Volentieri, di buon grado, di buona voglia. Mal volentieri, di mala voglia, a mal grado. Ad onta, a dispetto. A posta, a bello studio, avvertitamente, di proposito, espressamente. A senno, a talento, a capriccio, a sua posta, a suo genio, a sua fantasia. In balìa, o alla balìa. In palese, in pubblico, palesemente, pubblicamente, all’aperto, alla scoperta. Di nascosto, di soppiatto, nascostamente, celatamente.

            Oltre agli avverbj qui riferiti, ve n’hanno infiniti altri, che si formano

col dare agli aggettivi la terminazione in -mente, come dottamente, prudentemente ecc., e hanno anch’essi i loro compara/159/tivi che si fanno coll’aggiugnervi più, o meno, trattine meglio, e peggio, che sono comparativi per sé stessi di bene, e male; hanno i superlativi, che si formano col terminarli in ‑issimamente, come dottissimamente, prudentissimamente.

            Alcuni hanno usato talvolta, seguendo due avverbj terminati in ‑mente, di troncare il primo, dicendo chiara, e distintamente, prudente, e giudiziosamente invece di chiaramente, e prudentemente. Ma dai buoni scrittori quest’uso non è seguito, se non quando l’avverbio troncato ha senso avverbiale da sé medesimo, come prima, e principalmente; forte, e vigorosamente, ove prima, e forte equivalgon da sé a primamente, e fortemente.

 

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CAPO II

Della preposizione

 

Ogni relazione, siccome esprime il paragone, che si fa tra due cose, così contiene due termini. La cosa, che si paragona ad un’altra si chiama il pri/160/mo termine della relazione, la cosa con cui si fa il paragone si chiama il secondo termine. Così in questa proposizione Pietro è con Paolo, Pietro è il primo termine, Paolo il secondo, e la preposizione con esprime la relazione di compagnia, che il primo termine ha col secondo.

            Le preposizioni significan talvolta da sé sole la relazione che passa fra due cose, come fa la preposizione con nell’esempio precedente, e allora il loro senso può chiamarsi significativo: ma talvolta non fanno che indicare il secondo termine d’una relazione già espressa da altre parole, e il loro senso può dirsi allora indicativo. Così in questa proposizione Pietro è simile a Paolo, la relazione di simiglianza è espressa dall’aggettivo simile, e la preposizione a, non fa che accennare esser Paolo il secondo termine, con cui Pietro ha questa relazione.

            Noi tratteremo qui delle varie relazioni, che le preposizioni possono esprimere da sé medesime con senso significativo, riserbandoci a parlare nel cap[o] 1 /161/ della quarta parte dei casi in cui non hanno che il senso indicativo, e in cui la relazione è significata o dall’attributo contenuto nel verbo, o da un aggettivo.

            IN. La preposizione in significa propriamente la relazione di esistenza in un luogo, o in un tempo, o in uno stato determinato, come Gesù Cristo è nato in Betlemme nell’anno quattro mille dopo la creazione del mondo, mentre questo era tutto in piena pace, cioè ‘in uno stato di piena pace’. E perché le varie passioni diversamente modificano lo stato dell’animo nostro, perciò si dice essere in collera, in giubbilo, in afflizione, cioè ‘nello stato di collera, di giubbilo, di afflizione’. Similmente perché le vesti sono come il luogo contiguo al nostro corpo, si dice ancora essere in toga, in farsetto ecc.

A. La preposizione a significa anch’essa la relazione di esistenza, ma in una maniera, meno determinata, sicché si comprendono anche i

 

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 luoghi, e i tempi vicini. Laonde io sono in Parma per esempio vuol dire ch’io sono propriamente dentro alle mura di Parma: ma il /162/ tale è a Roma significa, ch’egli si trova o dentro Roma, o ne’ suoi contorni. Così nel mezzo dì significa quel momento preciso, che divide il giorno in due parti eguali: e a mezzo dì non determina quel momento precisamente, ma indica o quel momento stesso, o un tempo ad esso vicino. Così pure essere al mezzo, al sommo, all’imo voglion dire ‘verso il mezzo, il sommo, o l’imo’.

            Questa preposizione serve ancora ad esprimere varie di quelle modificazioni, che può avere l’esistenza di un oggetto. Quindi si dice una nave a vela, o a remi, un orologio a molla, o a pendolo, una veste a fiori, o a liste, all’orientale, o all’oltramontana. E si dice pure stare a capo chino, a mani giunte, a occhi chiusi, star bene, o male ad arnese, o a danari. S’adopera anche qualche volta per esprimere simiglianza: ma vi si sottintende l’aggettivo simile, come nel Boccaccio gior[nata] 9, nov[ella] 5: «Cotesti tuoi denti fatti a bischeri», cioè ‘simili ai bischeri’.

            Tanto l’a, quanto l’in indicano coi verbi di moto a luogo il termine, /163/ a cui il moto è diretto: ma andare a casa vuol dir ‘verso casa’, e in casa significa ‘dentro la casa’. Invece di a in alcuni casi s’adopera da, e ciò accade principalmente quando il termine, a cui il moto è diretto, è un nome personale, un pronome, o un nome proprio, come nel Boccaccio gior[nata] 2, nov[ella] 10: «Vi menerò da lei».

            L’a a rincontro qualche volta si usa in vece della preposizione da, come nel Boccaccio gior[nata] 2, nov[ella] 6: «Amenduni li fece pigliare a tre suoi servidori»; e gior[nata] 3, nov[ella] 10: «udendo a molti commendare la cristiana fede»; e ciò si fa appunto quando in una proposizione vi sono i verbi fare, udire, vedere, seguiti da un infinito, che benché espresso attivamente viene a prendere una significazione

 

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 passiva. Infatti li fece pigliare è lo stesso, che fece, che fosser pigliati; e udendo a molti commendare è lo stesso, che udendo essere commendata da molti.

            Qualche volta l’a si adopera anche invece della preposizione con, come nel Boccaccio medesimo: «Nutricato a latte /164/ d’asina». Nel Boccaccio si trova pure usata invece di per, come gior[nata] 10, nov[ella] 8: «l’avrebbe egli a sé amata piuttosto, che a te»; ma questa è un’imitazione del dativo, che adoperavasi dai Latini nel medesimo senso, a cui ora si sostituisce comunemente la preposizione per.

            CON esprime la relazione di compagnia; e perché gli stromenti, de’ quali ci serviamo nelle nostre operazioni ci sono in esse come compagni, perciò si dice ancora lavorar colla lima, col pennello, collo scarpello ecc.

            Medesimamente fare una cosa con piacere, o con dolore, con facilità, o con difficoltà, con destrezza, con buon garbo ecc., significa, che il piacere, il dolore ecc., ci sono come compagni nell’azione.

            Coi nomi personali il con si può incorporare in una sola parola, e dire meco, teco, seco, nosco, vosco, (benché i due ultimi sono piuttosto del verso), e si può anche tuttavia replicare il con dicendo con meco, con teco ecc.

            SENZA esprime la privazione di compagnia, e di stromento, e s’adopera o /165/ sola, o colla preposizione di, come senza voi, e senza di voi, sottintendendo la compagnia di voi. S’adopera anche in significato di oltre, come nel Boccaccio gior[nata] 5, nov[ella] 9: «Signor mio, senza le vostre parole, m’hanno gli effetti assai dimostrato della vostra benivolenza». Ma è chiaro, che si sottintende senza mentovare, o annoverare le vostre parole tra le dimostrazioni di benivolenza, cioè anche lasciando queste da parte.

 

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            PER ha varj significati. Esprime primieramente l’esistenza di un oggetto non fissa, ma variabile in un certo spazio, come essere per l’Europa, essere per l’oceano, cioè ora in un luogo, ora in un altro dell’Europa, o dell’oceano; e s’adopera anche per accennar varj luoghi, in cui avvenga una cosa medesima, come nel Boccaccio intr[oduzione]: «Per le sparte ville, e per gli campi, e per gli loro colti, e per le case di dì, e di notte morieno».

            Significa la cagione, che ci muove a fare una cosa, e il fine, per cui si fa, come tacer per vergogna, lavorar per guadagno. /166/ Dinota il mezzo di avere qualche cosa, come egli ha ciò ottenuto per l’intercessione, per l’opera, per le preghiere vostre, cioè ‘per mezzo dell’intercessione’ ecc.

            Si dice guidar per mano, prendere per un braccio, tirar pe’ capegli, affine di indicare in che parte sopra di un altro tali azioni si esercitino.

            S’usa come il pro dei Latini per significare ‘a favore’, ‘a nome’, ‘in vece’. Come io parlerò per voi, che vuol dire tanto ‘a favor vostro’, come ‘a vostro nome’, e ‘in vostra vece’.

            Significa distribuzione, come tanto per giorno, tanto per testa ecc.

            Significa l’essere in procinto di far qualche cosa, come sta per partire, per morire, per affogare ecc.

            Esprime durazione, o continuazione, come correre per un miglio; faticare per tutto un giorno.

            Accenna il mezzo, o il canto dell’origine, e della discendenza di uno, come egli per padre discende dalla tale famiglia, per madre dalla tal altra.

/167/ S’adopera in vece della preposizione da, specialmente coi passivi, come quello, che per me si può fare.

            Equivale a come, e a proporzione, per esempio tener per fermo, creder per vero, cioè ‘come fermo’, ‘come vero’: il tale per giovine è

 

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 assai prudente, o per l’età sua è assai grande, cioè ‘a proporzione dell’esser giovine, o della sua età’.

            Ha forza talvolta di benché, e di non ostante che: come per molto pregare, o per molto che pregasse, o per molto pregar che facesse, non l’ottenne, cioè ‘benché molto pregasse’, o ‘non ostante che molto pregasse’.

            Gli si sottintende spesso amore, intercessione, opera, servigio, timore, riguardo, come il fo per voi, altrimenti io nol farei, cioè ‘per amor vostro’, ‘in grazia vostra’, ‘per vostro riguardo’; per me è cosa troppo faticosa, cioè ‘rispetto a me’, ‘per riguardo a me’; pel castigo se ne trattiene, cioè ‘per timor del castigo’. E s’adopera nelle preghiere, e nei giuramenti per esprimer l’oggetto in grazia di cui la persona pregata si debba movere; ovvero l’oggetto, che si chiama per testimonio, e malle/168/vadore della verità di ciò, che si giura.

            DA significa dipendenza di una cosa da un’altra, e s’accompagna col nome da cui la cosa dipende, o ne dipenda come da principio, ond’esce, e deriva, o come da cagione, ond’è prodotta. Perciò si dice Cino da Pistoja, Rafaello da Urbino, per significare, che essi hanno tratto la loro origine da Pistoja, e da Urbino: perciò in tutte le proposizioni di senso passivo il soggetto, da cui l’azione sopra l’oggetto deriva, o è prodotta, s’unisce con questa preposizione; come Cartagine fu fabbricata da Didone, e distrutta da Scipione: perciò finalmente tutti i verbi o transitivi, o intransitivi, che dinotano origine, o dipendenza di qualunque maniera, come nascere, scaturire, provenire ecc., da questa preposizione vogliono accompagnato il nome, da cui viene l’origine, o la dipendenza: ma la preposizione in questi due ultimi casi non ha che il senso indicativo, e noi ne parleremo più ampiamente nel cap[o] 1 della quarta par[te]. Con questo senso medesimo, ove sia qualche verbo, o qual/169/che aggettivo, che esprima separazione, dissomiglianza, partenza, allontanamento, ella s’adopera per indicare il secondo termine di tali relazioni, e di ciò pure tratteremo distintamente al luogo medesimo.

            Ma con senso significativo oltre alla dipendenza questa preposizione esprime altresì attitudine, abilità, convenevolezza, necessità,

 

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 importanza, come egli non è terreno da viti, cioè ‘acconcio alle viti’, egli è uomo da ciò, cioè ‘abile a ciò fare’, egli opera da uomo onesto, cioè ‘come ad uomo onesto conviene’; non era da farne tanto schiamazzo, cioè ‘non si dovea, non importava, non era mestieri farne tanto schiamazzo’. Così si dice esser da bene, esser da poco, da molto, da più, da meno, da troppo, da nulla, da tanto, cioè ‘esser atto a poco, a molto’ ecc. Nelle asserzioni si dice da galantuomo, da cavaliere, da uomo onesto, cioè ‘sulla fede di galantuomo’ ecc. Si dice pure vi è da cena, da desinare, da dormire, cioè quanto si richiede alla cena, al desinare, al dormire.

/170/ S’adopera parlandosi d’un numero dubbioso nel significato di ‘circa’, come vi eran da venti persone, sono da dieci giorni.

            Coi nomi personali significa una, o più persone sole, senza altrui compagnia, come egli sta da sé. E in questo caso vi s’aggiunge anche il per, come egli sta da per sé.

            Io sono passato da casa vostra vuol dire ‘innanzi alla casa vostra’, son passato da Bologna, da Modena, vuol dire ‘per Bologna’, ‘per Modena’.

            Quelle espressioni de’ poeti dalle bionde chiome, dagli occhi neri, ecc., significan ‘avente le chiome bionde’, e ‘gli occhi neri’.

            Da giovane, da vecchio significan ‘mentre uno è, o era giovane, o vecchio’.

            INFRA, INTRA, FRA, e TRA esprimono l’esistenza di una cosa in mezzo ad una, o più altre. Quindi si dice stare fra ’l timore, e la speme, cioè ‘in mezzo a questi due affetti’; dir fra sé, o fra suo cuore, cioè ‘dentro di sé’, ‘dentro al suo cuore’; incontrare uno tra via, cioè ‘per la via’, o ‘in mezzo alla via’, /171/ innoltrarsi fra ’l mare , fra ’l bosco, fra l’isola, cioè ‘dentro’, o ‘in mezzo al mare, al bosco, all’isola’; v’ha uno fra gli altri, cioè ‘in mezzo agli altri’, ‘nel numero degli altri’; tra questo e quello non so qual sia il migliore, cioè ‘io sto sospeso in mezzo all’una, e all’altra delle due cose, e non so decidere qual sia la migliore’. Verrò fra tre giorni, cioè ‘dentro allo spazio di tre giorni’. Qualche volta si aggiunge anche la preposizione di, come fra di noi, cioè ‘nel mezzo’, o ‘nel numero di noi’.

 

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            Nelle enumerazioni ha lo stesso significato che parte, parte, come nel Boccaccio gior[nata] 8, nov[ella] 6: «Ragunata adunque una buona brigata tra di giovani fiorentini, che per la villa erano, e di lavoratori disse Bruno ecc.», cioè ‘parte di giovani fiorentini, e parte di lavoratori’.

            DI. Un nome accompagnato dalla preposizione di, siccome abbiamo già detto nei capi 5, e 6 della prima parte, equivale al genitivo dei Latini, e come questo serve ad esprimere qualche qualificazione, o determinazione di un sostan/172/tivo universale in quel modo, che si esprimerebbe con un aggettivo; così diffatti tanto vale il dire la guerra di Troja, i consoli di Roma, il mar di Toscana, l’orazioni di Cicerone, le colonne di marmo, come la guerra trojana, i consoli romani, il mar toscano, l’orazioni ciceroniane, le colonne marmoree.

            Fuori di quest’uso la preposizione di, non ne ha nessun altro, né può servir per sé stessa ad esprimere alcuna relazione particolare. Egli è ben vero che molte volte si adopera ellitticamente, e sembra corrispondere al significato di varie altre preposizioni come a, da, in, per, con, tra; ma queste preposizioni sempre vi si sottintendono insieme con un sostantivo, a cui il di si riferisce. Infatti aver invidia di uno significa ‘alla fortuna di uno’; partir di Parma vale ‘dalla città di Parma’; esser nato del tal anno vuol dire ‘nel corso del tal anno’; morir di tant’anni significa ‘nell’età di tanti anni’; esser di guardia, o di servigio corrisponde a ‘essere nello stato o nella occupazione di guardia’, o ‘di servigio’; es/173/ser di noja, o di piacere vuol dire ‘esser cagione di noja’, o ‘di piacere’; lagrimar d’allegrezza è lo stesso, che ‘per cagione di allegrezza’; ferir di saetta, vuol dire ‘con un colpo di saetta’; uno, alcuno, ciascuno, ognuno, niuno, chi, quale, qualunque, il primo, il secondo ecc. di voi, o di noi, significa ‘tra ’l numero di voi’, o ‘di noi’.

            Le voci tanto, quanto, alquanto, poco, molto, più, meno, assai, guari, troppo si pongono spesse volte assolutamente, e il sostantivo, con cui dovrebbero accordarsi si accompagna colla preposizione di,

 

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 ma vi si sottintende sempre un altro sostantivo; così ho tanto, quanto ecc., più, meno ecc., di tempo, equivale a ‘tanto, quanto, più, meno spazio di tempo’. Quando il più, e meno servono a formare i comparativi, alla preposizione di si sottintende manifestamente a paragone, o a confronto; onde il tale è più, o men grande di me, significa ‘a confronto’, o ‘a paragone di me’.

            Anche con tutti i verbi transitivi, o intransitivi, che diconsi reggere un ge/174/nitivo dopo di sé, cioè un nome preceduto dalla preposizione di, a lei sempre si sottintende un sostantivo universale, come altrove vedremo.

            Questa preposizione talvolta si tace, come a casa il medico, a porta S. Gallo, la Dio mercé, e come abbiam già notato nel capo ultimo della prima parte usarsi frequentemente innanzi ai pronomi costui, costei, costoro, colui, colei, coloro, cui, e altrui.

            Unita cogli aggettivi, o coi sostantivi, ella serve a formare moltissimi de’ modi avverbiali, come di necessità, di forza, di subito, di nuovo, di nascosto ecc. che significano ‘necessariamente’, ‘forzatamente’, ‘subitamente’, ‘nuovamente’, ‘nascostamente’.

            Le riferite fin qui sono le sole vere preposizioni, che noi abbiamo. Da alcuni gramatici si pongono in questo numero moltissime altre voci, come dentro, entro, fuora, fuori, e in verso fuore, sopra, su , sotto, presso, appresso, vicino, lungi, lontano, discosto, rasente, lungo, verso, inverso, fino, infino, sino, /175/ insino, circa, oltre, avanti, o davanti, innanzi, dinanzi, anzi, prima, o pria, dietro, dopo, contro, contra, giusta, giusto, secondo, eccetto, salvo, fuori, infuori, quanto. Ma tra queste alcune son aggettivi, come vicino, lontano, discosto, eccetto, salvo; altre sono avverbj, equivalendo ad una preposizione, e ad un nome, come dentro, fuori, sopra, sotto, ecc.

            Essi le chiamano avverbj, quando non reggono alcun nome, e quando reggono un nome le chiamano preposizioni. Ma i nomi non sono mai retti da loro; son retti sempre da una vera preposizione sovvente espressa, e talora sottintesa. Diffatti, dentro, entro, sopra, sotto, appresso, presso, vicino, verso, inverso, circa, avanti, davanti, anzi, innanzi, dinanzi, dietro, dopo, contro, contra sono seguiti ordinariamente dalle preposizioni di, o a, come dentro della, o alla casa, sopra

 

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 del colle, o al colle. Fuora, fuori, prima dalla preposizione di, come fuori di città, prima di giorno. Lungi, e lontano dalle preposizioni di, /176/ da, e talvolta anche a, come lungi di qui, lungi da Roma, lungi ai rumori. Fino, infino, sino, insino dalle preposizioni da, o a secondo che il verbo esprime avvicinamento, o allontanamento da qualche termine, come è giunto fino a Napoli; è venuto fin dall’America. Oltre, lungo, rasente, e quanto dalla preposizione a, come oltre a ciò, oltre a tutto il resto; quanto a me, quanto all’ufficio mio; e nel Boccaccio gior[nata] 7, in fine: «lungo al pelaghetto»; e in Franco Sacchetti nov[ella] 129: «rasente a quella pentola». Se eccetto, e salvo non si accompagnano mai con alcuna preposizione, egli è perché sono aggettivi, che uniti coi sostantivi formano quello, che dai gramatici, si chiama ablativo assoluto, sicché tutti vennero, per esempio, salvo, o eccetto un solo è lo stesso, che ‘eccettuato un solo’, cioè ‘essendone eccettuato un solo’.

 

 

/177/CAPO III

Delle congiunzioni

 

Le congiunzioni, come abbiam detto, servono ad unire le proposizioni una coll’altra, ossia ad indicare le relazioni, o connessioni, che queste aver possono fra di loro. Or le proposizioni altre sono assolute, altre relative. Le prime son quelle, che stanno da sé nel discorso, e non dipendono da niun’altra. Elle contengono sempre un verbo di modo assoluto, o dimostrativo, come la luna non influisce sui vegetabili; le stelle non hanno alcun influsso su gli uomini. Le relative son quelle, che ad un’altra proposizione si riferiscono; e in questo numero entrano ancor le incidenti, le quali, come abbiamo veduto nel capo
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 ultimo della prima parte, non istan mai da sé, ma sempre si riferiscono ad un nome, di cui esprimono qualche qualificazione alla maniera che fan gli aggettivi, e formano una parte della proposizion principale, in cui cadono.

/178/ Delle proposizioni relative alcune dipendono da una assoluta, e chiamare si possono col solo nome di dipendenti, altre dipendono scambievolmente l’una dall’altra, e si possono dire subordinate. Così dicendo non sono venuto a trovarvi, perché le mie brighe non me l’hanno permesso, la prima proposizione è assoluta, la seconda dipendente; ma dicendo se le mie brighe me lo avessero permesso, sarei venuto ben volentieri a trovarvi, sono amendue subordinate, perché dipendono amendue scambievolmente una dall’altra, e una senza dell’altra non può far senso compiuto.

            Quando in due, o più proposizioni successive, siano elleno assolute, o dipendenti, o subordinate, o incidenti, è comune il soggetto, o il verbo, o l’attributo, o qualche altra parte, ciò che v’ha di comune può tralasciarsi. Così in queste proposizioni: Cicerone fu filosofo, Cicerone fu oratore, Cicerone fu anche uno de’ migliori poeti dell’età sua, comuni sono il soggetto, ed il verbo: potremo dunque formarne una sola proposi/179/zione lasciando la ripetizione del soggetto e del verbo, e unendo insieme i tre attributi col dire Cicerone fu filosofo, oratore, ed anche uno de’ migliori poeti dell’età sua.

            La congiunzione e si chiama copulativa perché serve a congiungere quelle proposizioni che fra di loro convengono, lasciando ciò, che hanno di comune. Qualche volta però non fa l’ufficio di congiunzione, ma serve, principalmente ne’ sensi interrogativi, a dar maggior forza al discorso, come: «E fino a quando vorrai tu pure, o Catilina, abusarti della nostra sofferenza?».

            Le voci anzi, di più, inoltre, oltracciò, oltreché, parimente, similmente, medesimamente, senzaché, altresì, anche, ancora, pure, puranche, puranco, anco, eziandio, che per sé sono avverbj, o modi avverbiali si adopran anche per esprimere aggiungimento di qualche

 

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 cosa alle già dette, e allora chiamansi congiunzioni aggiuntive. Notisi che il pure in significato d’ancora non si può mettere al principio della proposizione, ma deve /180/essere preceduto da qualche altra parola, come egli pure vi fu, non pure egli vi fu, che significherebbe ‘nondimeno’.

            , nemmeno, neppure, neanche, nemmanco s’appellano congiunzioni negative, perché servon sempre ad unire le proposizioni negative. Anticamente il si usò qualche volta anche in significato di ‘o’, o di ‘e’, come nel Petrarca canz[one] 40:

 

            Anzi la voce al mio nome rischiari,

            Se gli occhi suoi ti fur dolci, né cari.

 

            O, ovvero, oppure, ossia, o veramente si chiamano disgiuntive, perché separano le proposizioni una dall’altra, dichiarando di varie cose una sola doversi ammettere, o una sola esser vera. Perciò si adoprano quando di più cose si propone a sceglierne alcuna, come prendetevi questo, o quello a piacer vostro; si usano in quelle argomentazioni, che dai dialettici si chiaman dilemmi, come conviene o vincere, o morire; servono ad esprimere i nostri dubbj su la verità delle cose, e la nostra irrisoluzione su la loro scelta, ma in questi casi la prima /181/ proposizione vuol essere preceduta dal se, e la seconda dall’o, che corrispondono all’utrum, an dei Latini, come non so se ciò sia vero, o falso; non so se mi scelga questo, o quello. Alcune volte lascian d’essere disgiuntive, e si usan anzi per esprimere che due termini han lo stesso significato, come la filosofia, ossia l’amore della sapienza. In questo senso l’ossia è quel che s’adopera più di frequente.

            Il  si replica ordinariamente innanzi a tutte le voci, a cui conviene la medesima negazione, come non vi furono né l’uno, né l’altro. Il replicar nel medesimo modo l’o, e l’e suol dare al discorso un non so che di maggior forza, ed energia. Infatti conviene vincere, o morire ha assai meno di nerbo, che conviene o vincere, o morire; e il dire fu egli
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 famoso e per pietà, e per dottrina dà maggior vigore all’asserzione, che il dire semplicemente fu egli famoso per pietà, e per dottrina. In vece dei due e, al medesimo uso s’adoprano le altre seguenti congiunzioni: , sì; sì, che; , /182/ o così, come; tanto, quanto ecc., come: sì per la sua pietà, che o come per la sua dottrina, sì per l’azioni gloriose, che ha fatto, sì per gli scritti dottissimi, che ne ha lasciato, egli è meritamente celebrato da tutti.

            Quando le voci, che insieme debbonsi unire son più di due l’e, e l’o non si danno per lo più che all’ultima; quantunque il ripeterle innanzi a tutte suol qualche volta accrescere maggior vaghezza al discorso; così il Casa nell’orazione a Carlo V: «Al vostro altissimo grado si conviene, che ciò che procede da voi, sia non solamente lecito, e conceduto, ed approvato, ma magnanimo insieme, e commendato, ed ammirato».

            Cioè, vale a dire, cioè a dire sono congiunzioni, che s’usano quando s’hanno a dichiarare le cose dette, e perciò chiamansi dichiarative.

            Appresso, dopo, indi, quindi, quinci, poi, poscia, di poi sono avverbj, come abbiam detto, che indicano la successione di una cosa ad un’altra, o di un tempo ad un altro, ma entrano /183/ anch’essi nel numero delle congiunzioni, perché uniscono le preposizioni, con cui sì fatte successioni si sogliono esprimere.

            Finalmente, e per ultimo si adoprano quando dopo l’enumerazione di varie cose hassi a riferir l’ultima; e in somma quando le cose esposte precedentemente si voglion mettere in fine in un sol punto di vista, racchiudendole tutte in una sola proposizione; così dopo enumerate le delizie di qualche luogo potremo dire: in somma pare, che la natura, e l’arte gareggino nell’abbellirlo.

            Eccetto, salvo, trattone, toltone, fuorché, fuori di esprimono le

 

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 eccezioni come nell’esempio, di sopra arrecato: tutti v’erano eccetto, salvo, trattone, toltone, fuori di un solo. Se la proposizione è negativa, l’eccezione si indica col che, se non, o se non se, come non mancava che egli solo, se non egli solo, se non se egli solo. Quando l’eccezione si deve esporre in una proposizione distinta, le congiunzioni sono eccettoché, salvoché, se non che. Per esempio egli potea chiamarsi felice appieno; se non che un pensiero tal/184/volta lo amareggiava, ed era ecc.; a tutto si arrese, salvoché, o eccettoché non volle ecc.

            Le congiunzioni fin qui riferite valgono a connettere principalmente le proposizioni assolute. Quanto alle dipendenti, elle posson dipendere da una assoluta o come ragioni, o come conseguenze. Imperocché alcune volte si propone innanzi ciò, che hassi a provare, e quindi si soggiungono le ragioni, altre volte da una proposizione o evidente per sé, o già abbastanza provata si trae una conseguenza. Nel primo caso s’adoprano le congiunzioni perché, poiché, posciaché, imperocché, imperciocché, perciocché, perocché, conciossiaché, conciossiacosaché, che (sottintendendovi perciò), avvegnaché, mercecché, mentre, stanteché, concioffosseché, concioffossecosaché: ma le due ultime or son maniere affettate, avvegnaché, si usa piuttosto in senso di ‘quantunque’, e mercecché, mentre, stanteché, non son di buon uso.

            Nel secondo caso si adoprano le congiunzioni dunque, adunque, il perché, /185/ per il che, perché, però, perciò, per questo, onde, laonde, pertanto, per la qual cosa, quindi, imperò. Ma imperò, e perché sono andate in disuso; per il che è più approvato, che per lo che, e adunque ama di esser posto non al principio della proposizione, ma dopo qualche parola.

            Dimanieraché, dimodoché, sicché, cosicché, talché, tantoché, intantoché servono anch’esse ad indicare una conseguenza, che si trae dalla proposizion precedente. Ma l’indican in una maniera più particolare. Perciocché mostrano tale essere la premessa, che la conseguenza ne viene necessariamente. Ciò si scopre più di leggieri quando queste congiunzioni si scompongono mettendo di maniera, di modo, sì, così, ecc. nella prima proposizione, e il che nella seconda, nel qual
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 caso le due proposizioni diventano subordinate; come: egli è un uomo così onesto, e sincero, d’un cuor sì nobile, e generoso, sì manieroso, e piacevole ecc., che non può non essere da tutti apprezzato, ed amato.

/186/ L’ufficio della congiunzione ma è quel di mostrare la contrarietà, che passa fra due proposizioni; come gli empi posson parere felici talvolta, ma non già esserlo veramente. Queste proposizioni così esposte sono assolute amendue: ma se nella prima si pone un bene, o bensì, dicendo posson parere bensì, o possono ben parere felici, ma non già esserlo veramente, diventano subordinate. La contrarietà delle due proposizioni apparisce vie più quando nella prima si nega una delle due cose, ponendovi il non, o non già, e si afferma la contraria nella seconda, come ei si mostra riconciliato col suo nemico, non perché abbia deposto l’odio veramente, ma perché aspetta l’occasione di poterlo sfogare con più sicurezza. Anche in questo caso le due proposizioni sono subordinate; e tali sono puranco quando il ma è correlativo di non solo: ma allora in vece di significare contrarietà, significa anzi accrescimento alle cose precedenti, come il suo nome è celebre non solo in Italia, ma in tutta l’Europa.

/187/ In vece, in luogo, in cambio esprimono anch’esse contrarietà, ed hanno l’anzi per correlativo, come: l’acquisto continuo di nuove ricchezze in vece di saziar finalmente l’ingorde brame di un avaro, le accende anzi sempre più.

            La contrarietà fra le cose espresse da due proposizioni è spesse volte apparente soltanto. Or ella in tal caso suole accennarsi nella prima proposizione premettendovi le congiunzioni quantunque, sebbene, benché, comeché, avvegnaché, contuttoché, ancorché, e si leva nella seconda colle congiunzioni pure, nondimeno, tuttavia, tuttavolta, contuttociò, ciò non ostante, ciò non di meno, ciò non pertanto, ciò nulla ostante, non pertanto, però; come: sebbene paja a prima vista la via della virtù esser aspra, e disastrosa; pure chi vi si incammina la trova ben presto amena, e dilettevole. Queste proposizioni come si vede sono anch’esse amendue subordinate, e la prima di loro vuol sempre il verbo al soggiuntivo, perché non fa che accennare la contrarietà, che tosto deve levarsi. Quando /188/ però il

 

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 quantunque, e il benché non hanno per correlativi, il pure, nondimeno ecc. mandano il verbo piuttosto al dimostrativo, che al soggiuntivo, perché esprimono allora l’esistenza di una vera contrarietà; come voi potreste nel tale affare regolarvi in questo, o in quest’altro modo. Quantunque io temo, che ad ogni modo e’ non vi possa riuscir bene.

            Subordinate son pure le proposizioni condizionali, quando contengono il soggiuntivo amendue; come se gli uomini si lasciassero trasportar meno a’ lor desiderj disordinati, sarebbero più felici. Ma spesso la cosa che dee avvenire posta la condizione s’esprime in una maniera assoluta; come verrò da voi, se potrò; vengo, se il mi permettete. E in questi casi invece del se s’adoprano eziandio le congiunzioni purché, postoché, datoché, quando, dove, le quali voglion sempre il soggiuntivo; come verrò purché possa, quando possa, ove possa ecc.

            Due proposizioni subordinate esprimon talvolta l’elezion di una cosa in confronto d’un’altra, o la preferenza di /189/ una cosa ad un’altra. La proposizione in cui si contiene la cosa, che si preferisce ha allora le congiunzioni piuttosto, più presto, meglio, prima, anzi, innanzi, e l’altra ha per correlativo il che, o di quello che, e il verbo all’infinito, come qualunque cosa si deve soffrire piuttosto che mai commettere un’indegna azione.

            Due proposizioni subordinate altre volte esprimono la simiglianza, che passa fra due cose, e allora la prima proposizione ha le congiunzioni siccome, come, (non già comeché, che non ha altro significato, che quel di ‘quantunque’) in quel modo che, in quella maniera che, in quella guisa che, e la seconda ha per correlative le congiunzioni così, nello stesso modo, nella stessa maniera ecc.

            Siccome accenna spesse volte una proposizione certa, o probabile, e così una conseguenza, che se ne trae; e le due proposizioni contengono allora quella specie d’argomentazione, cha dai dialettici chiamasi entimema. Per esempio, siccome non v’ha oggetto più amabile /190/ dell’Autore supremo del nostro essere, così sopra d’ogni cosa egli deve per noi amarsi; che ridotto alla forma dialettica sarebbe: Non v’ha oggetto più amabile dell’Autore supremo del nostro essere.
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 Dunque egli deve da noi amarsi sopra ogni cosa.

            Finalmente con due proposizioni distinte noi abbiamo talvolta ad esprimere la successione di due cose avvenute una prima, e l’altra dopo. Ora di queste due o vogliamo considerare principalmente la cosa avvenuta innanzi, e le congiunzioni allora sono avantiché, primaché, innanziché, anziché: o principalmente la cosa avvenuta dopo, e le congiunzioni sono poiché, dappoiché, dacché, dopoché. Così diremo: Annibale fu sempre vittorioso contro i Romani primaché si abbandonasse alle delizie di Capua; Annibale dai Romani fu vinto, dopoché le delizie di Capua lo snervarono. Ma queste proposizioni si posson disporre eziandio in un modo contrario, dicendo: primaché Annibale si abbandonasse alle delizie di Capua fu sempre vittorioso contro i Ro/191/mani. Dopoché le delizie di Capua lo snervarono dai Romani fu vinto. In questo caso nelle prime in vece di primaché si abbandonasse può dirsi ancora prima di abbandonarsi; nelle seconde io ho detto dopoché lo snervarono usando il perfetto indeterminato, ma è più regolare però l’usare il trapassato perfetto, dicendo dopoché l’ebbero snervato, poiché indica un’azione seguita innanzi ad un tempo di già passato e compiuto, qual è fu vinto. Anche in vece di dopoché può dirsi dopo di mettendo il verbo all’infinito, ma bisogna che questo sia retto da quel medesimo nome, che regge il verbo della seconda proposizione: e però in quest’esempio convien cangiarlo d’attivo in passivo dicendo: dopo d’essere stato snervato dalle delizie di Capua, Annibale dai Romani fu vinto. In cambio di poiché, dappoiché, dacché, dopoché si usan anche allorché, quando, e come; e questi vogliono costantemente il trapassato perfetto, come allorché fu snervato dalle delizie di Capua ecc.

/192/ Se la successione delle due cose è stata prossima l’una all’altra, si adopera tostoché; subito che; appena, che; come prima, così. Per esempio, subito che, o tostoché lo vide, corse ad abbracciarlo; o appena lo vide, che tosto corse ad abbracciarlo; o come prima lo vide, così corse subito ad abbracciarlo. Appena, e come prima star possono anche senza i correlativi che, e così, dicendo appena, o come prima lo vide corse ad abbracciarlo.

 

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            Queste successioni spesso riguardano un tempo futuro. In tal caso primaché, avantiché, innanziché richiedono un soggiuntivo, dovendo egli accennare semplicemente la cosa, che dee succedere all’altra, come priaché venghiate sarà tutto pronto. Poiché, dopoché ecc. vogliono un futuro perfetto, dovendo egli esprimere l’avvenimento di una cosa innanzi ad un’altra, come dopoché avrò sbrigato gli affari, che ho per le mani, verrò a passare qualche giorno con voi. Tostoché, subito che, come prima ammettono e ’l futuro perfetto, e l’imperfetto, secondo che si vuole considerare o come finita la cosa, che deve /193/ precedere, o come contemporanea. Per esempio: tostoché verrà gli dirò quel che m’avete commesso; e subito che sarà giunto ve ne farò avvisato. Appena vuole ordinariamente il futuro perfetto, come appena fu giunto. Allorché, quando, come se corrispondono a ‘dopoché’ richiedono il futuro perfetto, come quando avrò finito, verrò; se ad ‘in quel tempo che’ l’imperfetto, accennando allora due cose, che seguir debbono nel medesimo tempo, come quando verrete troverete tutto disposto.

 

 

CAPO IV

Dell’interposto

 

Gli interposti non sono per la più parte, che un’imitazione delle grida naturali, e quindi è, che assai più vivamente esprimono gli affetti dell’animo, che non farebbero le proposizioni a cui essi equivalgono. In vece degli interposti s’adoperano spesse volte alcuni nomi, verbi, e avverbj usati ellitticamente, che noi insieme con loro qui /194/ andremo enumerando, scorrendo pei varj affetti, che gli uni, e gli altri valgono a significare.

            ALLEGREZZA. Oh, a cui se si unisce un nome personale, o un pronome

 

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 dee porsi all’accusativo, come oh me avventuroso! oh lui beato!, non già oh io avventuroso, oh egli beato. Viva, evviva, bene, buono.

            DOLORE. Ah, oh, ahi, ohi, e unendovi il primo nome personale ahimè, ohimè. Invece dell’accusativo ammetton essi eziandio il genitivo, e il dativo, come ahi meschino di me! ahi misero a me!. Quando v’han gli aggettivi beato, misero ecc., esprimenti la felicità, o la sciagura, che in noi cagionano l’allegrezza, o ’l dolore, gli interposti sovvente si ommettono, come me misero! felici voi! ecc. Lasso, che equivale a ‘misero’ si usa ancora senza aggiugnervi il nome personale, o il pronome, come Lasso! che deggio io fare? Lasso! a che stato l’iniqua fortuna lo ha ridotto! cioè ‘lasso me’, ‘lasso lui’.

/195/ IRA, e DISPREZZO. Doh, oh, puh, guarda, guata, ve’, oibò, via.

            MINACCIA. Guai, e richiede il dativo, come guai a te, guai a voi.

            MARAVIGLIA. Oh, doh, puh, poffare, viva ’l cielo, Dio buono.

            DESIDERIO, e PREGHIERA. Deh, oh, oh se, così, pure; come oh se potessi; pur mi fosse lecito; così la fortuna mi secondasse.

            TIMORE. Oh, oh Dio, ohimè, sta. Questo s’adopera per esprimere l’aspettazione di qualunque cosa, che credasi dover avvenire, ma più d’ordinario quando non si vorrebbe, ch’ella avvenisse; come sta ch’ei mi coglie, sta ch’ei mi gabba, cioè ‘sta a vedere’.

            Oltre a questi ve n’hanno alcuni, i quali non esprimono niun affetto, ma che si collocan tuttavia fra gli interposti, perché equivalgono anch’essi ad un’intera proposizione. Tali son quelli:

            - di affermazione, e approvazione: , bene, buono, sibbene, maisì;

            - di negazione, e di rimprovero: no, non già, mainò, eh via, oibò;

/196/ - per chiamare: eh, olà, oh oh;

            - per far animo: su, via, alto;

            - per far tacere, o star cheto: , zitto, piano, cheto;

            - per indicare: ecco, eccoti;

            - per interrogare: ebbene? come? che?

 

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/197/PARTE IV

DELLA SINTASSI

 

Se favellando non avessimo che ad accennare separatamente quando una, e quando un’altra delle nostre idee, basterebbe il sapere i termini, con cui elle si esprimono, e nulla più. Ma noi abbiamo bisogno altresì di fare intendere le varie combinazioni, che delle idee formiamo entro di noi. Quindi è necessario saper ancora come ad esprimere queste combinazioni debbansi le parole, che sono i segni dell’idee, accordare, ed ordinare fra loro, nel che consiste la sintassi, nome greco, che significa ordine, e connession di più cose. Dopo quello adunque, che abbiamo detto finora separatamente di ogni parte del discorso, parleremo ora: 1. della maniera con cui si debbon fra loro accordare, che abbraccia e ciò, che noi chiamiam concordanza, e ciò che i Francesi dicon régime; 2. dell’ordine, con cui si deb/198/bon disporre, ossia della costruzione; 3. delle alterazioni, che nell’una, e nell’altra delle due cose precedenti sono permesse per grazia, e proprietà di lingua, cioè delle figure; 4. delle voci diverse, che esprimono una medesima idea, ossia dei sinonimi; 5. delle voci, che esprimono diverse idee.

 

 

CAPO I

Della maniera, con cui le parti del discorso

si debbono accordare fra loro

 

Le parti del discorso altre sono soggette a variazione di desinenza, come i nomi, i pronomi, i verbi, e i participj, altre sono invariabili, come le preposizioni, gli avverbj, le congiunzioni, e gli interposti. Queste medesime variazioni altre sono assolute, ed altre relative. Assolute fra noi sono tutte le variazioni di desinenza nei sostantivi, o

 

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 significhin esse il genere, o significhin il numero, perciocché io non dico piuttosto colombo, che colomba, o colombi, o colombe, perché questo nome si riferisca /199/ nel discorso ad altre parole, ma perché voglio parlare di un oggetto solo di questa specie, e d’un maschio.

            Assolute similmente sono nei verbi le variazioni che significan tempo, perché si cangiano non secondo le altre parole, a cui s’accompagnano nel discorso, ma secondo l’idea, che noi abbiamo d’un tempo o presente, o passato, o futuro. All’opposto relative sono negli aggettivi, e per conseguenza anche negli articoli, nei pronomi, nei participj, nei nomi verbali, e nei nomi di titolo, di dignità, di professione (che uniti ad un altro sostantivo fanno anch’essi l’ufficio di aggettivi) le variazioni e di genere, e di numero, perché si riferiscono sempre al genere, ed al numero del lor sostantivo; relative sono nei verbi le variazioni di numero, e di persona, perché sempre si riferiscono al soggetto della proposizione; siccome pure quelle de’ modi relativi, perché dipendono sempre nel discorso da un altro verbo.

            Or le regole della sintassi per ciò che riguarda la concordanza fra le parti /200/ del discorso debbonsi aggirar sopra quelle parti, che son soggette a variazione di desinenza, e fermarsi unicamente su le variazioni relative. Vedremo adunque in primo luogo, come debbansi accordare gli aggettivi coi loro sostantivi, e i verbi co’ loro soggetti.

            Quanto ai modi relativi de’ verbi, avendo già mostrato abbastanza il loro uso nel capo terzo della seconda parte, e altrove qui non faremo, che replicar questo solo, doversi adoperare il modo assoluto quando si afferma assolutamente, e senza dipendenza da niun altro verbo l’esistenza di qualche proprietà in qualche soggetto; e i modi relativi quando il verbo dipende da un altro o espresso, o sottinteso, e non afferma assolutamente l’esistenza di una proprietà in un soggetto, ma l’accenna soltanto.

            Ma oltreciò noi abbiamo veduto, che molti verbi contengono un attributo relativo ad uno, o a più oggetti. Or è da vedere come i nomi di questi oggetti si debban congiungere coi verbi, a cui si riferiscono, nel che consistono /201/ le regole del régime, che noi mostreremo in secondo luogo.

 

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ARTICOLO I

Del modo con cui si debbono accordare gli aggettivi coi sostantivi,

e i verbi co’ loro soggetti

 

Cominciando adunque dagli aggettivi, siccome questi o servono a richiamare l’idea d’un sostantivo già nominato, come i pronomi, o a determinarla, come questo, quello ecc., o ad esprimere qualche sua qualificazione, come fan tutti gli altri aggettivi, i participj, i nomi verbali, e i nomi di titolo, di dignità, di professione; così debbon sempre avere quella medesima determinazione di genere, e di numero, che ha il lor sostantivo. Quindi si dirà il re Nino, e la regina Semiramide; l’esercito vincitore, e l’arme vincitrici; Ercole pugnò con Anteo, e lo soffocò, Ercole pugnò coll’idra di Lerna, e la uccise.

            Quindi è pure, che l’attributo della proposizione, o sia egli un semplice /202/ aggettivo, o sia un participio dee accordarsi sempre col soggetto; e perciò diffatti nei verbi passivi, e negli intransitivi, che si costruiscon coll’essere essendo il participio passato l’attributo della proposizione, egli sempre col soggetto s’accorda, come abbiamo veduto. All’opposto nei verbi transitivi che ai loro passati si costruiscono col verbo avere l’attributo della proposizione è il participio avente; e il participio passato del verbo proprio non fa che modificare il suo oggetto; infatti io aveva amato Pietro, è lo stesso che io era avente Pietro amato: per questo coll’oggetto ei deve accordarsi, e quando ciò non si voglia, si deve dargli la terminazione del maschile accordandolo col nome universale oggetto che si sottintende.

            Molte volte in una proposizione in cui v’abbiano due soggetti del numero singolare, il verbo e l’attributo si mettono al plurale: e in tal caso se dei due nomi uno è maschile, e l’altro femminile, l’attributo vuol essere maschile, come un uomo, e una donna son morti, /203/ non morte; se i soggetti sono plurali amendue, o un singolare, e l’altro plurale, l’attributo ama tuttavia di essere piuttosto maschile, che femminile; ma convien procurare, che il soggetto maschile sia il più

 

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vicino all’attributo, o accompagnare il nome femminile colla preposizione con, onde si dirà meglio molte case, e molti tempj rimasero incendiati, o molti tempj con molte case rimasero incendiati, che molti tempj, e molte case rimasero incendiati, o incendiate.

            Talvolta accade di dovere con varj sostantivi di diverso genere, e di diverso numero accompagnare un solo aggettivo, che non sia l’attributo. Si deve dare in tal caso ad ogni sostantivo l’articolo proprio, se lo richiede; l’aggettivo si dee mettere dopo dei sostantivi, ed accordare coll’ultimo di essi; e questo vuol essere, ove si possa, piuttosto maschile, che femminile, e plurale anziché singolare. Quindi non si dirà i gloriosi trionfi, e vittorie, ma i trionfi, e le vittorie gloriose, o piuttosto le vittorie, e i trionfi gloriosi, e replicando l’ag/204/gettivo, o mettendone a ciascuno un diverso si direbbe ancor meglio le gloriose vittorie, e i gloriosi trionfi; o le insigni vittorie, e i gloriosi trionfi.

            Siccome quando a più sostantivi s’aggiunge in fine un solo aggettivo, si suppon d’ordinario, ch’egli si riferisca a tutti quanti, così bisogna osservare, che egli a tutti convenga: laonde non potrò dire le battaglie, e le vittorie riportate, perché riportate non può convenire a battaglie. Fa d’uopo adunque o aggiugnere anche a battaglie una qualificazione che sia adattata, come le battaglie sostenute, e le vittorie riportate, o mettere l’aggettivo riportate innanzi al sostantivo, sicché s’intenda, che a lui solo si applica, come le battaglie, e le riportate vittorie, o aggiugnervi dopo qualche altro sostantivo, sicché riportate non resti in fine, come le battaglie, le vittorie riportate, i trionfi ecc.

            Quando più sostantivi, che si succedono, sono del medesimo genere e del medesimo numero può bastare il dare l’articolo al primo soltanto; anzi se que/205/sto ha un aggettivo, che convenga anche agli altri, l’articolo son si dee ripetere, altrimenti sembrerà, che l’aggettivo convenga al primo solo; o ripetendo l’articolo si deve ripetere ancor l’aggettivo. Si dirà adunque la vostra saviezza, e prudenza, o la vostra saviezza, e la vostra prudenza, non la vostra saviezza, e la prudenza senz’altro. Fuori di questo caso però suona meglio d’ordinario il ripeter l’articolo ad ogni sostantivo, massimamente quando ei sia congiunto con qualche preposizione. E perciò si dirà meglio: andò vagando
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 per la pianura, e per la collina, o per la pianura, e la collina, che per la pianura, e collina.

            Le variazioni di numero, e di persona nei verbi si sono introdotte per esprimere più determinatamente il soggetto in cui si trova la proprietà, che da loro si afferma, e nel capo primo della seconda parte abbiamo veduto il vantaggio, che ne deriva. Devono adunque i verbi accordarsi sempre col soggetto delle proposizione in persona, ed in nume/206/ro; e se in una medesima proposizione la proprietà affermata dal verbo conviene a più nomi, che è quanto dire se vi sono più nomi, che servono di soggetto nella proposizione, ancorché tutti siano singolari, il verbo suol mettersi al plurale; e se questi nomi son di diverse persone s’accorda piuttosto colla prima, che colla seconda, e colla seconda anziché colla terza. Perciò quel passo di Cicerone a Terenzia: «si tu, et Tullia valetis, ego et Cicero valemus», si tradurrà: se tu, e Tullia siete sane, io e (il figlio) Cicerone siam sani.

            I nostri antichi imitando i Latini ad un nome collettivo singolare hanno spesso unito un verbo plurale, come il Boccaccio gior[nata] 2, n[ovella] 6: «Il popolo a furore corso alla prigione, e uccise le guardie lui n’avevano tratto fuori». I moderni non l’usano se non più con il più, la più parte, la maggior parte, un buon numero, una gran truppa, e simili seguiti da un genitivo; come il più, o la più parte degli uomini secondano più le passioni, che la ragione.

/207/ Quando un soggetto singolare è seguito da un altro sostantivo, che abbia la preposizione di compagnia, il verbo può mettersi al plurale, convenendo allora la proprietà da lui espressa ad amendue, come nel Boccaccio gior[nata] 10, n[ovella] 6: «Il re co’ suoi compagni rimontati a cavallo al reale ostiere se ne tornarono».

            Quanto all’uso, che si è introdotto nella più parte delle lingue moderne di adoperare parlando ad un solo la seconda persona del plurale,

 

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 o la terza del singolare, come se si parlasse a molti, o ad una persona diversa da quella, che ascolta, abbiam già notato nel capo dei pronomi, che parlando ad uno in terza persona, siccome si finge di parlare alla signoria di lui, così il pronome deve sempre essere femminile. Ora osserveremo di più, che nei tempi passati anche il participio deve essere femminile, quando accordasi col soggetto signoria; e però si deve dire per esempio, so che ella si è degnata, e non degnato. Nel progresso di un discorso, o d’una lettera diretta ad un uomo il mettere gli /208/ aggettivi a lui riferiti nel femminile sembra produrre talvolta della oscurità, e della incoerenza. Quindi è che alcuni sogliono metterli in vece al maschile. Ma l’uniformità, che nel discorso dee tenersi ovunque si può, par che richieda piuttosto di continuare col femminile tuttavia, e per togliere ogni incoerenza, ed oscurità, basta aggiugnervi il sostantivo persona, dicendo so che ella è troppo savia, o una persona troppo savia, piuttosto che troppo savio; o volendo pur dargli la terminazione maschile, conviene aggiugnervi anche un sostantivo maschile, come uomo, personaggio, od altro simile. Per questo medesimo amore di uniformità non è da niuno dei migliori imitato il Caro, che nelle sue lettere si vede spesso frammischiare il voi, e il V[ostra] S[ignoria] parlando alla stessa persona.

 

 

/209/ARTICOLO II

Del modo, con cui i nomi si debbon congiungere

coi verbi, da cui son retti

 

Prima di tutto conviene qui ricordarsi della distinzione, che noi abbiam fatto dei verbi in transitivi, e intransitivi, chiamando transitivi quelli, che contengono un attributo relativo a qualche oggetto, come amare, vedere, e intransitivi quelli, il cui attributo non fa che modificare il soggetto della proposizione, come vivere, correre. Or tutti i verbi intransitivi, non richieggono per sé stessi altra compagnia, che quella del soggetto, e dell’attributo, come egli vive felice, egli corre frettoloso, nel che deve anche osservarsi, che felice, e frettoloso non
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 sono propriamente gli attributi, ma sono modificazioni degli attributi vivente, e corrente, le quali modificazioni potrebbersi esprimere invece con degli avverbj, dicendo vive felicemente, corre frettolosamente.

/210/ Che se alcuni verbi intransitivi si veggon talvolta accompagnati da un altro nome alla maniera dei transitivi, questo nome non è già retto dal verbo, ma da una preposizione sottintesa, così vivere lungo tempo significa ‘per lungo tempo’, vivere una vita stentata, significa ‘in una vita stentata’, correre lungo tratto significa ‘per lungo tratto’.

            All’opposto i verbi transitivi contenendo un attributo relativo possono oltre al soggetto avere la compagnia di un altro sostantivo, che esprima l’oggetto, ossia il secondo termine della relazione. Questo secondo termine in vece di essere indicato da una preposizione, era indicato dai Latini col dargli la terminazione dell’accusativo, come Achilles Hectorem interfecit; e da noi si indica col metterlo dopo del verbo, come Achille uccise Ettore.

            Ma non è sempre necessario il considerare ne’ verbi transitivi il significato dell’attributo come relativo a qualche oggetto; egli si può considerare talvolta come un semplice aggettivo, che modi/211/fica il suo soggetto. Quindi è che posso dire senz’altro io amo, io leggo, io scrivo, esprimendo semplicemente l’occupazione, o l’azione in cui sono, senza esprimere oggetto alcuno, su cui ella cada.

            Quando l’oggetto relativo è espresso, noi abbiamo veduto, che il verbo si può rovesciare d’attivo in passivo. Or il soggetto, da cui viene l’azione si accompagna allora colla preposizione da, per esprimere la dipendenza, che la azione ha da lui, o colla preposizione per, affin di mostrare, ch’egli è la causa efficiente dell’azione, come esser condotto da alcuno, o per alcuno.

            Ma anche ne’ verbi passivi non sempre si considera l’oggetto, sopra cui cade l’azione, o relazione espressa dall’attributo. Si considera talvolta semplicemente l’esistenza d’una azione, o relazione, come dicendo si legge, si scrive; e talvolta si considera insieme il soggetto da cui viene l’azione, ma non l’oggetto sopra di cui ella va a terminare, come da molti si legge, o si scrive. I ver/212/bi adoperati in questo

 

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 modo si chiamano impersonali di voce passiva, perché non s’usano che nella terza persona del singolare, denominazione impropria per altro, perché la terza è una persona come le altre. A questa maniera si possono usare anche i verbi intransitivi, come si va, si viene, e si può aggiugnervi anche il soggetto, come nel Dante:

 

            Per me si va nella città dolente.

           

Mi si permetta qui una piccola digressione sopra un uso particolar de’ Francesi. In vece del nostro si per formare gli impersonali di voce passiva essi adoperano on, o l’on; ma con questa differenza, che il verbo, che segue all’on presso loro deve esser sempre di terza persona singolare, benché egli regga dopo di sé un oggetto del maggior numero; laddove presso di noi quando il verbo preceduto dal si ha un oggetto, con esso deve accordarsi. Quindi ove dice il signor Du Marsais «On tombe encore dans un autre inconvénient, c’est, que l’on regarde les sciences comme autant de pays différens, où l’on ne /213/ fait voyager les enfans, que successivement» noi dobbiamo tradurre: «si cade ancora in un altro inconveniente, ed è che le scienze si riguardano come tanti paesi diversi, in cui i fanciulli non si fan viaggiare che successivamente».

            La ragione di quest’uso presso i Francesi si è, che il loro «on (come dice il medesimo Du Marsais) è una sincope della parola uomo, è l’uomo in generale, e in un senso indeterminato, e per questo si dice egualmente on, o l’on secondo, che meglio conviene all’armonia di ciascuna frase particolare; o piuttosto (segue egli) una tal maniera di parlare, è derivata da questo, che i nostri padri, come si vede negli antichi manoscritti, dicevano un dit (‘uno dice’) e pronunciavano quest’un all’italiana oun (cioè coll’u toscano, che in francese si scrive ou) onde è venuto on». Sicché on tombe equivale a ‘l’uom cade’; l’on

 

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 regarde les sciences ‘l’uom riguarda le scienze’; l’on ne fait voyager les enfans ‘l’uom non fa viaggiare i fan/214/ciulli’. Ad alcuni questa spiegazione del signor Du Marsais parrà forse un po’ troppo sottile: ma io lascio a’ Francesi il deciderne.

            All’opposto in italiano il si non fa che accennare il passivo, e perciò se il verbo non ha oggetto si mette alla terza persona del singolare sottintendendovi un oggetto indeterminato; ma se ha un oggetto espresso, con esso deve accordarsi.

            Da quest’uso, che fanno i Francesi dell’on, e dall’aver essi un’altra parola diversa per esprimere il nome personale di terza persona che è se, hanno un vantaggio sopra di noi, che è di poter fare impersonali anche i verbi, che alcuni chiamano neutri passivi, come addormentarsi, ‘s’endormir’; risvegliarsi, ‘se réveiller’ ecc. Quindi volendo esprimere indeterminatamente l’addormentarsi, o lo svegliarsi essi diranno: on s’endort, on se réveille; laddove noi non potremo già dire si si addormenta, si si sveglia. Convien, che noi prendiamo un diverso giro di frase; e quanto al primo potremo /215/ dire si prende sonno; ma quanto al secondo è necessario aggiugnervi qualche cosa, come si comincia a svegliarsi, si torna a svegliarsi secondo che il senso richiede; e dove dice il succitato signor Du Marsais «on rit à Florence de la maniere dont un François prononce le latin, ou l’italien, et l’on se moque à Paris de la prononciation du Florentin» noi tradurremo: «si ride a Firenze della maniera, con cui un Francese pronuncia il latino, o l’italiano, e si beffa – o si motteggia – a Parigi la pronuncia del fiorentino».

            Ora tornando a noi; vi sono de’ verbi transitivi, il cui attributo si riferisce a più d’un oggetto. I verbi dare, concedere, promettere per esempio fan subito pensare qual cosa, e a chi. Il primo oggetto, che è

 

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 la cosa, che si dà, abbiam veduto, che si indica senza premettervi alcuna preposizione; ma il secondo che è quello, a cui l’azione di dare è diretta, convien, per distinguerlo, che sia indicato da qualche preposizione. A tal fine si è scelta la preposizione a. /216/ Quindi tutti i verbi, che esprimono un’azione diretta a qualche oggetto possono reggere due nomi, uno esprimente l’oggetto dell’azione, e l’altro l’oggetto, a cui questa è indirizzata, de’ quali il primo si pone senza preposizione, e il secondo colla preposizione a, che ha allora non il senso significativo, ma l’indicativo soltanto.

            I verbi ascrivere, e attribuire oltre alla cosa, che si ascrive, o attribuisce, e l’oggetto a cui si ascrive, o attribuisce, possono aver anche un altro nome, che significhi il modo, con cui si ascrive, o attribuisce, e questo pure si accompagna colla preposizione a: come il perdonare l’ingiurie non si deve ascrivere a vergogna, e ad infamia ad un uomo onesto, ma a gloria, e ad onore. I verbi dare, lasciare, appigionare, vendere, comprare, e pagare oltre alla cosa che si vende, o si paga ecc., e la persona a cui si vende, o si paga, richiedono qualche volta, che si esprima anche il prezzo. Or se questo è indeterminato, si unisce colla preposizione a, come vendere, o /217/ comprare a caro prezzo, o a buon mercato; se è determinato coi verbi dare, lasciare, appigionare, e comprare s’unisce pure colla preposizione a, come gliela lasciò, gliela diede a venti scudi, a venti zecchini; col verbo vendere vuole la preposizione per, o espressa, o sottintesa; come vendere una cosa per mille lire, o mille lire; il verbo pagare vuol qualche volta la preposizione con, come con dieci lire è pagata abbastanza; ma per lo più si sopprime, come pagare una cosa dieci, venti, trenta scudi. Egli è però chiaro, che in questi casi le preposizioni succennate hanno tutte il senso significativo, esprimendo per sé medesime la relazione di condizione, o di mezzo con cui una cosa o si vende, o si compra ecc., e che però i nomi di prezzo non son retti punto dal verbo.

            I verbi, che da alcuni si chiaman neutri passivi, come darsi, applicarsi, arrendersi, avvezzarsi ecc., ma che noi abbiam già mostrato essere per la più parte di lor natura transitivi, avendo per primo oggetto relativo il nome persona/218/le, che gli accompagna, possono avere

 

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anch’essi un altro oggetto, a cui sia diretta la relazione espressa dall’attributo, e questo oggetto si deve anch’egli indicare colla preposizione a, come darsi, applicarsi, arrendersi, avvezzarsi ad una cosa, cioè dare, applicare ecc. sé ad una cosa.

            E perché vi sono alcuni verbi intransitivi per sé stessi, ma il cui attributo ha un senso relativo di direzione a qualche oggetto, questo oggetto pure si indica colla medesima preposizione, come convenire, appartenere, accondiscendere, giovare, piacere ad alcuno.

            Coi verbi servire, ubbidire, soddisfare, compiere, adempiere si può considerare l’oggetto o come quello in cui l’azione finisce, o come quello, a cui è diretta; e perciò si dice tanto servire, ubbidire, soddisfare alcuno, come ad alcuno; compiere, adempiere il suo dovere, come al suo dovere.

            Ogni qualvolta adunque un verbo, o transitivo, o intransitivo ch’ei sia, abbia un senso relativo esprimente dire/219/zione a qualche cosa, il termine di questa direzione si indicherà sempre dalla preposizione a, la quale non avrà allora che il senso indicativo, essendo la relazione già espressa dal verbo; e il nome preceduto da questa preposizione per conseguenza sarà retto dal verbo, ossia dall’attributo del verbo, non dalla preposizione medesima.

            Ma molti verbi in vece di esprimere la relazione di direzione a qualche cosa, esprimon all’incontro quella di allontanamento, o separazione, e quella di origine, o dipendenza da essa. Or siccome il termine a cui una cosa è diretta si indica colla preposizione a, così quello, da cui dipende, o deriva, o da cui vien tolta, e divisa, si indica colla preposizione da. Quindi un nome preceduto da questa preposizione aver possono i verbi transitivi separare, dividere, staccare, levare ecc., e gli intransitivi nascere, derivare, venire, discendere ecc.

            Togliere, rubare, involare, chiedere, domandare, e simili dovrebbero anch’essi aver sempre il secondo oggetto accompa/220/gnato da questa preposizione, come lo hanno diffatti qualche volta; ma per lo più egli si unisce colla preposizione a, uso per altro, che poco toglie alla regolarità della lingua, non avendo sì l’una, che l’altra preposizione in questi casi che il senso indicativo, ed essendo conseguentemente
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 per sé stesso indifferente, che il secondo termine d’una relazione già espressa da altre parole sia accennata piuttosto con una, che con un’altra preposizione.

            Gli intransitivi nascere, venire, uscire, partire, fuggire, guarire, e qualche altro invece della preposizione da ammettono la preposizione di; ma come abbiam già avvertito si sottintende sempre un nome universale retto dalla prima preposizione, del quale la seconda non fa che indicare doversi ristringere il significato: così venire, o partir di Roma, significa ‘dalla città di Roma’.

            V’hanno moltissimi verbi transitivi, che per sé non significano che una sola azione, o relazione, e perciò non reggono, che un solo nome; ma con /221/ cui tuttavia è sovvente necessario esprimere il modo, la materia, lo stromento, o il motivo, per cui, o con cui esiste l’azione, o relazione da loro espressa. Ora a tal fine qualche volta si adoperan le preposizioni con, o per di cui è proprio il significare le relazioni di materia, o stromento, e motivo; come accusar uno per delitto di furto, punir uno con pena di morte, ornare una cosa con fregi d’oro, o d’argento ecc. Ma il più delle volte queste preposizioni coi nomi universali, che da loro son retti si sopprimono, e si dice soltanto accusare uno di furto, punir uno di morte, ornare d’oro, o d’argento una cosa. Egli è chiaro però, che questi genitivi non sono retti dai verbi, ma dai nomi universali sottintesi.

            Lo stesso avviene in molti verbi intransitivi. Morir di fame per esempio significa ‘per cagione di fame’; vivere di limosine significa ‘col mezzo delle limosine’. Dalle preposizioni pertanto, e dai sostantivi sottintesi, non da verbi sono retti anche questi nomi.

/222/ Quanto alle altre preposizioni in, con, senza, per, fra, tra avendo sempre un senso significativo sono esse sempre, che reggono i nomi, a’ quali precedono, né può mai dirsi, che questi siano retti da alcuno verbo.

            Per ridurre adunque alla sua vera semplicità questa parte, che da alcuni è stata avviluppata, e confusa a segno da voler introdurre anche nella nostra lingua una faraggine d’ordini di verbi attivi, passivi, neutri, neutri passivi, e che so io, come s’è fatto nella latina non so

se per

 

 

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 rischiarare o per confondere la mente de’ poveri fanciulli; noi diremo, che i soli verbi, che reggan dei nomi accompagnati da qualche preposizione sono: 1. quelli il cui attributo ha un senso relativo di direzione a qualche cosa, co’ quali il termine a cui il senso è diretto deve accompagnarsi colla preposizione a; 2. quelli il cui attributo esprime origine, dipendenza, allontanamento, o separazione da qualche cosa, co’ quali l’oggetto, da cui viene l’origine, la dipendenza ecc. deve essere pre/223/ceduto dalla preposizione da. Tutti gli altri per sé stessi non reggono, che un oggetto senza preposizione se son transitivi, e non richiedono, che il soggetto, e l’attributo o implicito, o espresso, se sono intransitivi. E perciò quando occorra di dover loro aggiugnere qualche nome con qualche preposizione essi per sé medesimi saranno sempre indifferenti ad ammettere qualunque preposizione ella sia, e dovrassi riguardare soltanto alla relazione, che si vorrà esprimere, per potere scegliere la preposizione conveniente da premettere al nome: osservando soltanto, che quando la relazione debba esser del modo, della materia, del mezzo, dello stromento, o del motivo per cui esiste, o si fa una cosa, invece d’essere significata colle preposizioni con, o per amerà qualche volta piuttosto la preposizione di usata ellitticamente, come poc’anzi abbiamo spiegato.

 

 

 

/224/CAPO II

Dell’ordine con cui le parti del discorso

si debbon disporre, ossia della costruzione

 

Quando agli altri per via delle parole presentiamo le nostre idee secondo l’ordine naturale la costruzione si chiama semplice, e quando vi ha qualche rovesciamento, o perturbazione di quest’ordine, si dice inversa. Ma non poco hanno fra loro conteso ai nostri tempi varj filosofi per fissare qual debba essere quest’ordine naturale. A me pare che il vero ordine naturale debba esser quello di far nascere in chi ci ascolta l’idee degli oggetti, delle loro qualità, e delle loro relazioni con quella medesima successione con cui le acquisterebbono da sé

 

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 medesimi osservandoli co’ proprj sensi.

            Or presentandosi a noi qualche oggetto, egli è ben vero, che le sue qualità sono quelle, che ci avvisano della sua presenza, non potendo noi negli og/225/getti veder, né sentire, che le qualità solamente. Egli è vero per conseguenza che le idee delle qualità sono le prime, che si affacciano all’animo nostro, e che egli non può, se non dall’esame di queste conoscer l’oggetto in cui sono. Ma quest’esame attuale è necessario da principio in un fanciullo quando comincia ad acquistar dell’idee, e a riporle nella sua memoria. Egli non può riporvi l’idea composta di un oggetto, se non ha prima disaminato quali siano l’idee semplici, che la compongono. Molto meno vi può riporre l’idea universale di una classe d’oggetti, se non ha bene osservato in varj oggetti particolari quali siano le qualità, che in lor coesistono. Ma chi ha già nella sua mente ragunato un certo numero d’idee composte, e universali, chi a queste idee ha già fissato dei nomi, chi le ha dentro di sé già avute, e considerate più d’una volta, quando alcuna di esse lo avvisa della presenza di un oggetto, all’oggetto corre subito col pensiero, né si ferma a considerarne le qualità, se non dopo saper già /226/ prima, ch’egli ha presente un oggetto. E chi è diffatti, che vedendo, o toccando un’estensione solida, e figurata si trattenga a considerare l’estensione, la solidità, la figura senza che abbia prima l’idea, che quel che vede, o che tocca è un corpo? E se vedrò un albero, un cavallo, un uomo, il primo pensiero, che io formerò, non sarà quello, che l’oggetto a me presente è un albero, un uomo, un cavallo?

            Al presentarsi per tanto di un oggetto qualunque siasi alla nostra mente, la prima idea su cui ella si ferma si è l’idea composta dell’oggetto medesimo. Dopo ciò si trattiene, se le aggrada, ad analizzare dirò così questa idea, e ad esaminare partitamente l’idee semplici che la compongono; considera l’estensione, la figura, il colore, e le altre qualità a parte a parte, o sopra tutte fermandosi, o sopra alcune soltanto, secondo, che più le piace: e dove al primo presentarsi, che queste

 

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 fecero tutte insieme, occupata a pensar all’oggetto, che le annunziavano, ella non ebbe di lo/227/ro, che un’idea confusa, esaminandole distintamente, ne acquista un’idea chiara, e distinta. Si innoltra poi finalmente a paragonare l’esistenza, o le qualità dell’oggetto, che esamina, cogli altri oggetti, e viene così acquistando l’idee ancora delle sue relazioni.

            L’ordine adunque con cui si succedon l’idee nell’animo nostro, quando osserviamo un oggetto da noi medesimi è questo: la prima idea, che acquistiamo è quella dell’oggetto in complesso; acquistiamo appresso l’idee distinte delle sue qualità; a cui seguono finalmente l’idee delle sue relazioni cogli altri oggetti.

            Or non sarà egli questo medesimo l’ordine più naturale, che avrà a tenere chiunque voglia in noi far nascere le stesse idee colle parole? Dovrà egli adunque mettere in primo luogo un sostantivo, che esprima il soggetto principale di cui si parla, e se questo avrà bisogno di qualche qualificazione, che lo determini, v’aggiugnerà uno, o più aggettivi, un genitivo, una proposizione /228/ incidente secondo l’opportunità; dovrà esprimere in appresso il nome della qualità, ch’ei vuol farci sapere trovarsi, o non trovarsi in quel soggetto, e per indicare ch’ella vi si trova, o no, dovrà frapporvi di mezzo il verbo o solo, o accompagnato dalla negazione (1); finalmente se la qualità significata dall’attributo sarà relativa ad altri oggetti, dovransi dopo esprimere i loro nomi, e le loro qualificazioni se essi ne avranno.

            Quanto agli avverbj se sono di affermazione, o d’esistenza, il loro proprio luogo sarò dopo il verbo essere /229/ o espresso, o contenuto in un altro; se sono di quantità, o di qualità dopo l’attributo. Quando una proposizione sia dipendente, o subordinata, o debba essere per

 

1 Dico dovrà frapporlo di mezzo, perché ivi dee collocarsi, ciò che serve di unione o di legamento fra due cose, come è il verbo fra il soggetto, e l’attributo. Oltreché mettendo il nome della qualità subito appresso al soggetto sembrar potrebbe sovvente non l’attributo, ma un semplice aggettivo esprimente una qualificazione del sostantivo. Infatti dicendo: Cesare il vincitore fu in tutte le guerre par che si parli di un qualche Cesare soprannomato il vincitore, che siasi trovato in tutte le guerre, non già che si asserisca che Giulio Cesare fu il vincitore in tutte le guerre che fece (N.d.A.).

 

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 qualunque modo congiunta con un’altra, si comincierà dalla congiunzione. Le preposizioni, e gli articoli si porran sempre immediatamente innanzi ai nomi, che essi determinano, e di cui esprimono, o indicano la relazione. Gli interposti non han luogo fisso, solamente siccome esprimono gli affetti dell’animo, così dovran collocarsi presso a quelle parole, che indican la cagione de’ nostri affetti. Riguardo ai gerundj, e ai participj, essendo essi aggettivi, si debbono come gli altri metter dopo de’ lor sostantivi.

            Vi ha però rispetto a questi un’osservazione da fare, ed è che spesse volte essi s’adoprano assolutamente, e corrispondono all’ablativo assoluto dei Latini. Or in tal caso i participj presenti si posson mettere e prima, e dopo, massimamente quando sono accompagnati dai nomi personali, e dai pronomi, come /230/ me presente, e presente me; ma i participj passati, e i gerundj amano di star sempre innanzi ai sostantivi, di che non può darsi altra ragione, che l’uso; perché diffatti i Francesi ordinariamente li metton dopo, dicendo per esempio: le tems étant venu, laddove noi diciamo essendo venuto il tempo; e i Latini ponevano tutti i lor participj indifferentemente e prima, e dopo; come Augusto imperante, e imperante Augusto.

            Questo è il modo con cui disporre si debbono le parti del discorso per far nascere nell’altrui mente l’idee con quel medesimo ordine, col quale da noi s’acquistano. Dico col quale da noi s’acquistano, non già col quale in noi si risvegliano, dopo che già acquistate le abbiamo, poiché di questo non può fissarsi alcun ordine certo. Vedendo dei fiori per esempio, in uno si risveglierà l’idea di qualche pittore, a cui ne abbia veduto dipingere, in un altro quella dei fiori, che colla seta, e colla cera artificiosamente si fanno, in un altro quella di un giardino, in cui n’abbia osser/231/vato di rari, e singolari, in altri altre cose diversissime. Ciò dipende dalle varie congiunzioni d’idee, che si formano nella nostra mente al mirare un oggetto in una, o in un’altra circostanza, le quali congiunzioni d’idee fanno, che risvegliandosi una si risveglino ancora l’altre.

            Ora nel primo l’idea dei fiori presenti risveglia quella del pittore, e della proprietà ch’egli ha di dipingerli. L’ordine adunque delle sue

 

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 idee in quell’atto è: fiori, pittore, dipingere. Ma non è già questo l’ordine ch’egli deve tenere per farle nascere in me naturalmente. S’io vedessi attualmente un pittore a dipinger dei fiori, la prima idea che nascerebbe in me sarebbe quella del pittore, appresso dell’atto in cui sta di dipingere; quella dei fiori in me non può nascere se non dopo, ch’io abbia veduto dal suo lavoro uscirne un fiore. L’ordine dunque è questo: pittore, dipingere, fiori; e quest’ordine stesso deve tenere chi voglia eccitare in me naturalmente queste idee colle parole, dicen/232/do per esempio: il tal pittore dipinge fiori.

            Quest’ordine però non è così necessario, che non si possa talor variarlo. La lingua latina anzi amava moltissimo l’uso dell’inversioni; e ciò perché le diverse desinenze dei nomi presso i Latini facevano agevolmente distinguere le loro diverse relazioni, onde senza pregiudizio della chiarezza se ne poteva in varie maniere trasporre l’ordine. Nelle lingue che non han casi, come la nostra, quest’uso non può essere così largamente permesso. E diffatti se invece di dire Augusto vinse Antonio, dicessi Antonio vinse Augusto, il senso sarebbe affatto contrario; e se dicessi vinse Augusto Antonio, o Augusto Antonio vinse, da chi non sapesse la storia, appena si potrebbe più intendere chi sia stato né il vincitore, né il vinto. Qualora adunque così il soggetto, come l’oggetto siano del medesimo numero, e il significato del verbo possa convenire egualmente e all’uno, e all’altro, la chiarezza richiede assolutamente, che si conservi l’ordi/233/ne naturale, e si ponga il soggetto dinanzi al verbo, l’oggetto dopo. All’opposto quando i due nomi siano di diverso numero, o che il significato del verbo non possa applicarsi che al soggetto soltanto, si può allora nella nostra lingua eziandio liberamente usare l’inversione; onde si può dire egualmente vinse Alessandro i Persiani, e passò Cesare il Rubicone, come Alessandro vinse i Persiani, e Cesare passò il Rubicone. Anzi l’inversione in tal caso serve a levare la noja, che nasce necessariamente da una costruzione sempre uniforme.

 

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            Sopra tutto le inversioni usar si debbono nel parlare appassionato; perciocché uno che sia agitato da qualche passione non può aver campo di analizzar freddamente le sue idee, e metter prima il soggetto, poi il verbo, indi l’attributo ecc.: egli nomina prima quello che più gli preme, e che è la cagione del suo turbamento, sia egli il soggetto, o l’oggetto del verbo, o qualunque altro termine.

/234/ Ma qualunque costruzione s’adoperi, o semplice, o inversa, convien badare: 1. di non lasciare giammai alcun termine isolato, un aggettivo per esempio senza sostantivo, un verbo senza soggetto, un soggetto, o un oggetto senza verbo, una proposizione incidente senza nome a cui si riferisca, una proposizione dipendente, o subordinata senza la sua compagna ecc., salvo solamente allorché queste cose apertamente si sottintendano; 2. che tutte le parti del discorso siano bene, e esattamente accordate fra loro secondo le regole, che n’abbiam dato.

            Quanto alla collocazione delle parole, siccome la nostra lingua ama moltissimo l’armonia, e un’armonia non uniforme, ma variata; così l’orecchio si è quello, che ne deve diriggere, in modo però, che non si perda giammai di vista la chiarezza, che importa più di tutt’altro.

            L’armonia per dirne pur qualche cosa primieramente nasce [1.] dal sapere ben temperar le vocali di suono più grave, /235/ e più aperto che sono l’a, l’e, e l’o con quelle di suono più debole, e più ristretto, che sono l’i, e l’u, e le consonanti di spirito forte, che sono, sempre crescendo, la m, la n, il t, il p, la f, la s, il gh-, il ch- seguiti dall’e, e dall’i, o il g-, e il c-, seguiti dall’a, o, e u, la r, e la z, con quelle di spirito tenue, che sono il b, il d, la l, e il g-, e c- seguiti dall’e, e dall’i; 2. dal sapere ben moderare la gravità delle parole, che han molte consonanti, colla piacevolezza di quelle, che ne han poche; 3. dal ben disporre, e distribuire gli accenti, frammischiando accortamente le parole piane alle tronche, e alle sdrucciole, e le parole lunghe alle corte; 4. dal variar la costruzione acconciamente, nel che dee tenersi una via di mezzo fra la costante uniformità de’ Francesi, e le molte trasposizioni dei Latini imitate spesso soverchiamente dal

 

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 Boccaccio, e da’ suoi imitatori, e dagli imitatori di questi.

/236/ Ma non ogni maniera di discorso richiede la medesima armonia. In un discorso famigliare, in un dialogo, in una lettera, in una narrazione si vuole un’armonia piacevole; tale cioè, che non si truovi mai cosa che intoppi, o che disgusti, e che non generi tuttavia sazietà, né fastidio. In un grave ragionamento l’armonia vuol essere più sonora, e più maestosa; quindi l’uso delle trasposizioni gli si concede un po’ più largamente; e come i pensieri debbon essere più sublimi, e il parlare più forte, e più sostenuto, così anche le parole si vuol che siano più eleganti, e più gravi, e le figure più spiritose, e vivaci.

            Ma qui continuando noi entreremmo in ciò, che ai retori s’appartiene. Finirem dunque coll’avvertire soltanto di ben guardarsi da tutti gli estremi, sicché mentre si cerca il grave, e il magnifico, non si vada nell’ampolloso, e mentre si desidera il naturale, e il piacevole non si cada nel basso, e nell’insipido. Sopra tutto poi, che e nell’uno, e nell’altro l’amore soverchio dell’ele/237/ganza non porti all’oscurità, od alla affettazione, che sono i difetti da doversi schivare con più attenzione, l’uno perché il più pregiudicevole, l’altro perché il più nojoso.

 

 

CAPO III

Delle alterazioni, che nelle cose precedenti

per grazia, e proprietà di lingua sono permesse,

ossia delle figure gramaticali

 

Siccome dell’altre cose suol avvenire, che inventate da principio per bisogno, si volgono poscia ancora al comodo, ed al piacere, così è avvenuto pur delle lingue. Dopo che si fu stabilito quanto era necessario per manifestare altrui i proprj pensieri, si è voluta nel discorso ancora la brevità, e l’eleganza. A questo fine si sono introdotte nelle

 

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 regole alcune alterazioni, che si chiaman figure, le quali sono cinque principalmente: 1. l’ellissi, ossia difetto, per cui si tralascia qualche parte del discorso, /238/ che facilmente si possa sottintendere; 2. il pleonasmo, ovvero abbondanza, per cui se n’aggiunge qualcuna non necessaria, od anche superflua per dare al discorso maggior pienezza, ed ornamento; 3. la sillessi, ossia concezione per cui qualche parte del discorso non si accorda come dovrebbe coll’altre; 4. l’enallage, o permutazione, per cui una parte all’altra si sostituisce; 5. l’iperbato, o rovesciamento, per cui si turba l’ordine loro naturale. Noi parleremo brevemente di tutte e cinque.

 

 

Dell’ellissi

 

Molte delle maniere ellittiche della nostra lingua già si sono da noi a’ luoghi opportuni accennate, come è 1. il sopprimere nelle proposizioni, che si succedono ora il soggetto, ora il verbo, or altra cosa, che abbiano di comune, per esempio egli è un principe giusto, e pio, invece di egli è un principe giusto, egli è un principe pio; 2. il sopprimere innanzi alla preposizione di il /239/ sostantivo universale, come era di giorno, era di notte, in vece di era in tempo di giorno, o di notte; 3. il sopprimere i  nomi personali quando sono il soggetto della proposizione, come vivo, vivete invece di io vivo, voi vivete. Ma queste ellissi sono passate cotanto in uso, che niuno più vi pon mente, e si riguardano generalmente come maniere piuttosto comuni, che figurate. Alcun’altre noi qui ne accenneremo di assai più particolare osservazione.

            Ellissi del sostantivo. Cader da alto, scender dal basso sottintendendo luogo. Levarsi, tacendo del letto. Esser da molto, o da poco, cioè merito, o pregio. Durar molto, poco, troppo, cioè tempo.

            Ellissi del verbo finito. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 6: «Maraviglia, che se’ stato una volta savio», cioè ‘maraviglia è’. Via

 

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 di qua, cioè ‘va via’; qua, cioè ‘vieni qua’; bene, cioè ‘va bene’; volentieri, cioè ‘il farò volentieri’.

            Ellissi del verbo infinito. Egli giunse fin là, ma più avanti non poté, o non seppe, o non volle; si supplisca andare, /240/ o fare. Andare, o mandare per una persona, o per una cosa, maniera usitatissima dai toscani, sottintendendo per chiamarla o per prenderla.

            Ellissi del participio. Misero! a che son io? cioè ridotto.

            Ellissi della preposizione. Dar mangiare, o bere usato spesso dal Boccaccio per ‘dare a mangiare’, o ‘a bere’. La Dio mercé, ove si sottintende ‘per la mercé di Dio’. Vi ha similmente la soppressione della preposizione per quando si usa che invece di perché, della preposizione in quando egli si usa in vece di in cui, come nel tempo che egli vivea. Coi pronomi costui, costei, costoro abbiam già notato come spesso si sopprima la preposizione di, e coi pronomi cui, e altrui anche la preposizione a.

            Ellissi dell’interposto. Misero me! lasso me! beato lui! sottintendendo oh, o ahi.

            Ellissi della congiunzione. Il che quando equivale all’ut dei Latini spesse volte si ommette, specialmente dopo i verbi temere, dubitare, e parere, come /241/ dubitava, o temeva non gli avvenisse alcun male; parmi non sia ancor tempo. Le congiunzioni pure, e così si ommetton anch’esse quando sono correlative di quantunque, e siccome, ove la proposizione precedente sia breve, e però facilmente vi si possano sottintendere, come quantunque fosse circondato da ogni parte, se ne fuggì; siccome temeva di qualche mala ventura, non volle restare. Si sopprime non di rado anche perciò, come il tempo minaccia, convien affrettarci. L’e, e l’o si taciono spessissimo spezialmente quando più aggettivi si debbano unire al medesimo sostantivo, nel qual caso la congiunzione non si dà per lo più, che all’ultimo, come nel capo delle congiunzioni abbiam già detto.

 

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            In molti de’ neutri passivi s’usa l’ellissi de’ nomi personali, come affondare per ‘affondarsi’. Gio[vanni] Villani: «E più galee delle sue affondarono in mare». Agghiacciare per ‘agghiacciarsi’. Petrarca: «Agghiaccio, ed ardo». Aggravare per ‘aggravarsi’, ‘peggiorar nella malattia’. Bocc[accio]: «E là portato non migliorava, ma quasi più /242/ forte aggravava». Ammalare per ammalarsi. Gio[vanni] Villani: «Avvenne che il detto patriarca ammalò a morte». Annegare per ‘annegarsi’. Gio[vanni] Villani: «Il qual Tiberio annegò nel fiume d’Albula». Annighittire per ‘annighittirsi’. Passavanti: «Non lo lasciano annighittire». Impoverire per ‘impoverirsi’. Bocc[accio]: «Tre giovani impoveriscono». Infermare per ‘infermarsi’. Bocc[accio]: «La reina di Francia infermò gravemente». Prosperare per ‘prosperarsi’, ‘aver prosperità’. Bocc[accio]: «La quale egli potea vedere sempre prosperare». Sbigottire invece di ‘sbigottirsi’. Bocc[accio]: «La donna senza sbigottir punto con voce piacevole rispose».

 

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Del pleonasmo

 

A questa figura riduconsi le particelle espletive, o i ripieni, de’ quali alcuni s’adoprano per dar maggior forza al discorso, e diconsi d’evidenza, altri si usano per semplice ornamento. I primi sono:

/243/ ECCO. Boccaccio g[iornata] 8, n[ovella] 7: «Ecco io non so ora dir di no». Similmente «ecco la cosa è riuscita tutto al contrario». «Ecco io sono ora per te ridotto a mal termine».

            BENE. «V’andrò sì bene». «Or bene, che n’avverrà?». «Voi sapete bene – o troppo bene – quello, che avete a fare». «Gli involò ben cento doppie». «Ben presto se ne fuggì».

            BELLO. Boccaccio: «Per belle scritte di loro mano s’obbligarono l’uno all’altro». «Le portò cinquecento be’ fiorini d’oro». «Chi facesse le macini bell’e fatte legare in anella».

            PURE. «Il dirò pure». «Egli è pur desso». «Pur finalmente – o pur una volta – l’ho giunto». «Deh pur fosse così».

            GIÀ. «Già Dio non voglia che ecc.». «Se già non fosse che ecc.», in vece di cui s’adopera anche se pure, se mai non fosse.

 

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 «Rispose: non già». «Il fece non già per amore; ma per interesse». «Non vi fu giammai».

            MAI. Mai sempre per sempre. Maisì, mainò, per sì, no. «Vi sarebbe egli /244/ mai qui alcuno?». «È egli mai possibile?». «Quando mai si trovò, che ecc.?».

            MICA, e PUNTO. Boccaccio: «Una ne dirò non mica d’uomo di poco affare». «Tedaldo non è punto morto».

            TUTTO. Stavasi «tutto timido», «tutto confuso». Bocc[accio]: «Tutto si raccapricciò». «Il giovane tutto solo». «Tutto a piè fattosi loro incontro, ridendo disse». «Il letto con tutto messer Torello fu tolto via».

            UNO. Boccaccio: «Se i miei argomenti frivoli già tenete, quest’uno solo, ed ultimo a tutti gli altri dia supplimento». Petrarca:

 

E caramente accolse a sé quell’una.

 

            ORA. Bocc[accio]: «Or che non vai là dove sei aspettato?». «Deh or t’avessono essi affogato, come essi ti gittaron là, dove tu sei degno d’esser gittato».

 

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ALTRIMENTI. «Io non so altrimenti chi egli sia». «Egli non volle fare altrimenti».

            I nomi personali spesso si replican due volte. «Io il so bene io quel che farò». «Tu il vedrai bene tu, come ne sarai concio», e così degli altri.

/245/ Quelli, che s’usan per semplice ornamento, sono EGLI, EI, E’, ELLA e per accorciamento GLI, LA, come abbiam già notato nel capo ultimo della prima parte.

            MI, TI, SI ,CI, VI, NE o soli o uniti con LA, come: «Io mi credo, che niuno qui v’abbia». «Ei se la vive assai lietamente». «Non so se v’abbiate conosciuto un certo tale». «Tu di qua te n’andrai ben tosto», e simili.

            ESSO con lui, lei, loro, noi, voi come essolui, essolei, essoloro ecc.

            CON innanzi a meco, teco, seco, che già lo contengono. Il Boccaccio disse anche g[iornata] 3, n[ovella] 10: «con esso teco».

            , che qualche volta si adopera invece di anche, come il Boccaccio g[iornata] 6, n[ovella] 9: «Oltre a quello che egli fu ottimo filosofo morale, sì fu egli leggiadrissimo, e costumato»; qualche volta per certamente, come lo stesso g[iornata] 4, n[ovella] 8: «Pognamo, che altro male non ne seguisse, sì ne seguirebbe, che mai in pace, né in riposo con lui viver potrei»; e qualche volta per semplice ripieno, come lo stes/246/so pure g[iornata] 9, n[ovella] 9: «Se ti piace, sì ti piaccia; se non, sì te ne sta».

            NON è pure sovvente un pleonasmo specialmente coi nomi niente, e niuno, e dopo il verbo temere, quando si teme che avvenga una cosa,

 

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 che non si vorrebbe, come: «cominciò a temere, che il fatto non andasse a riuscir male»; e nel Bocc[accio] g[iornata] 7, n[ovella] 9: «Io temo forte, che Lidia con consiglio, e voler di lui questo non faccia per dovermi tentare».

            Anche il dovermi in questo esempio è un pleonasmo, essendo il senso: ‘questo non faccia per tentarmi’. E simili pleonasmi s’usano di frequente sì col verbo dovere, come coi verbi andare, e venire, come nel Boccaccio: «Richiese i cherici di là entro, che ad Abraam dovessero dare il battesimo», cioè ‘dessero’. «Tutto il venne considerando», cioè ‘lo considerò’. «Gli venne trovato un buon uomo», cioè ‘trovò’. «A me medesimo incresce andarmi tanto fra tante miserie ravvolgendo», cioè ‘ravvolgermi’. «Vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire», cioè ‘fuggono’. Spesso però il ver/247/bo andare congiunto al gerundio d’un altro verbo significa il frequentativo; così spesso la medesima cosa gli andò dicendo, equivale a dictitavit.

            I Francesi si valgono assai opportunamente del verbo andare per significare un futuro prossimo, come je m’en vais vous dire comme cela est arrivé; e del verbo venire per significare un passato prossimo come ce que je viens de vous dire. Al secondo noi suppliamo cogli avverbj testé, or ora; come quel che v’ho detto or ora: ma al primo non abbiamo espressione corrispondente, perciocché vi dirò ora, mi farò ora a dirvi, che potrebbero usarsi in cambio, non equivalgono appieno al je m’en vais vous dire.

 

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Della sillessi

 

Questa non è molto in uso. S’adopera tuttavia col verbo avere, come: «assai pochi vi ha, che nol veggano». Essolei, essoloro, esso noi, esso voi sono pure altrettante sillessi. Nei parti/248/cipj usati assolutamente si dice qualche volta trovato una spada invece di trovata, gettato più dardi invece di gettati: ma queste maniere si debbon riferire piuttosto all’ellissi, sottintendendosi ‘avendo trovato’, ‘avendo gettato’.

 

Dell’enallage

 

La sostituzione di una parte dell’orazione ad un’altra è di un uso assai più frequente, come dell’aggettivo invece dell’avverbio: «chiaro conosco» per chiaramente; «ti dico aperto» per apertamente; «temo forte» per fortemente; «dolce parla, dolce ride, dolce sospira» per dolcemente.

            Del participio per l’infinito. Boccaccio nov[ella] ultima: «Fece venire sue lettere contraffatte da Roma, e fece veduto a’ suoi sudditi ecc.» per fece vedere.

            Dell’infinito invece del soggiuntivo. Bocc[accio] g[iornata] 5, n[ovella] 10: «Qui ha questa cena, e non saria chi mangiarla» invece di chi la mangiasse: ma è da usarsi di rado.

 

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/249/ Dell’imperfetto del soggiuntivo per lo trapassato. Boccaccio: «Alzò questi la spada, e ferito l’avrebbe, se non fosse uno, che stava ritto innanzi, che lo tenne per lo braccio», cioè se non fosse stato.

 

 

Dell’iperbato

 

Da’ gramatici si distinguono cinque forme d’iperbato; l’anastrofe, cioè trasposizione, che è il porre avanti una parola, che si dovrebbe por dopo, come la pur dirò, invece di la dirò pure; la vi ho data invece di ve l’ho data; la tmesi, che è il dividere una parola frapponendone qualcun’altra, come acciò dunque che veggiate ecc., in vece di acciocché dunque; la parentesi, che è l’interrompere una proposizione, mettendone di mezzo un’altra o per rischiarare qualche parte della proposizion principale, o per avvertire alcuna cosa che si giudichi necessaria, o per dare maggior forza al discorso, come nel Boc[caccio]: «Io opposi le forze mie (come Iddio sa) quanto potei». Le parentesi debbono esser corte, per/250/ché non rompano l’ordine della proposizione principale; e quando la necessità pur richieda, che vengan lunge, si debbon ripetere le parole precedenti alla parentesi per ripigliare il filo della principale proposizione. Le altre due maniere di iperbato, che sono la sinchisi, cioè ‘confusione di costruzione’, e l’anacoluthon, cioè ‘inconseguenza’, che è il mettere una voce isolata, e senza corrispondenza, sono anzi difetti, che figure, o proprietà di linguaggio, e si debbono però schifare.

            Resta ad osservare riguardo alle figure in genere, che siccome esse a rigore sono altrettante irregolarità, così debbonsi usar parcamente. Chi ne fa un abuso soverchio oltre al cadere nella affettazione, dee

 

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 introdurre necessariamente ne’ suoi discorsi dell’oscurità, e della confusione.

 

 

/251/CAPO IV

Delle voci diverse, che servono ad esprimere una medesima idea, ossia de’ sinonimi: e con questa occasione

dei veri vantaggi di una lingua

 

La copia de’ sinonimi in una lingua può esser utile per una parte in quanto a chi ben la possiede porge maggiore facilità di scriverla, e giova alla varietà, uno de’ principali fonti dell’eleganza; ma è pregiudicevole per l’altra in quanto la rende più vaga, e men precisa. La vera ricchezza di una lingua consiste nell’avere abbondanza di termini significanti diverse idee, esprimenti cioè i loro diversi gradi, le loro diverse collezioni più, o men generali, i loro rapporti scambievoli ecc.

            Io vorrei che formar si potessero come varj alberi, in cui il tronco contenesse una parola significante un’idea complessa formata di molte unioni di idee semplici; ciascuna unione d’idee semplici avesse le sue parole corrispondenti, /252/ e formasse le radici maggiori del tronco; e ogni radice maggiore fosse poi divisa in varie barbe minori contenenti i nomi dell’idee semplici, dalla cui unione risultano di mano in mano le più composte.

            Che se non vi fossero altre voci primitive se non quelle, che esprimono l’idee semplici, e colla composizione di queste si potessero esprimere l’idee composte, quanto non sarebbe la lingua ancor più comoda, e più vantaggiosa? Quanta facilità nell’apprenderla, quanta brevità nell’esprimersi, quanta precisione nel determinare le proprie idee e nel risvegliarle in altrui? Quante definizioni, e dichiarazioni di termini, che non sarebbero più necessarie?

            Ma questo ottenere non si potrebbe che in una lingua formata da filosofi a bella posta, nella quale infinite cose v’avrebbero ancora ad osservare. Converrebbe a cagion d’esempio, che nei nomi degli animali soltanto si facesse la distinzione de’ due generi maschile, e femminile,

 

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 che le cose inanimate /253/ si ponessero in un terzo genere, e che i nomi di un genere stesso avessero una stessa terminazione nel numero del meno, un’altra medesima in quello del più. Quanto ai casi non vi dovrebb’essere altra distinzione, che quella del nominativo, e dell’accusativo per distinguere agevolmente il soggetto della proposizione dall’oggetto relativo del verbo, e questa distinzione potrebbe indicarsi con un affisso, o con un prefisso costante senza introdurre novelle varietà di terminazioni. Nei verbi basterebbe una sola conjugazione con un segno costante per distinguere i passivi dagli attivi, e dagli intransitivi, e in questa conjugazione oltre alle determinazioni di numero, e di persona io vorrei anche tutte quelle de’ tempi, e de’ modi realmente diversi, de’ quali riguardo ai primi a noi manca il futuro prossimo, che i Greci avevano, benché ne’ passivi soltanto, e riguardo ai secondi l’ottativo, che essi pure avevano, e che non lascia d’essere di qualche uso. Quanto alla maniera di determinare queste va/254/rie modificazioni de’ verbi, all’uso degli Inglesi di adoperare costantemente la desinenza dell’infinito, e premettere continuamente i nomi personali per indicare i numeri e le persone, e varj prefissi per indicare i modi e i tempi, preferirei quello delle diverse terminazioni, sì per evitare la soverchia uniformità e ripetizione de’ medesimi termini, come per rendere più breve, e più chiaro il discorso. In questo io non so nemmeno approvare il lor uso di non variare gli aggettivi né per generi, né per numeri; tanto più, che servendosi essi non poco delle trasposizioni, principalmente nelle poesie, non si scorge sovvente a prima vista a qual sostantivo un aggettivo appartenga. Nei pronomi però sono essi più regolari degli altri, usandone uno costantemente pei maschi, un altro per le femmine, e un terzo per tutte le cose inanimate. Le medesime determinazioni di tempo esser dovrebbero ancora ne’ participj, come lo avevano i Greci. Gli articoli abbiam veduto di quanto vantaggio siano per determinare il si/255/gnificato de’ nomi; ma l’uso ne deve esser costante, e regolare. Tale deve esser pure quello delle preposizioni, degli avverbj, delle congiunzioni, e degli interposti; non fare, che una voce medesima abbia significati diversi, né che ve n’abbiano molte esprimenti una stessa idea.

 

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            Di questi vantaggi le lingue o morte o viventi, che abbiamo, non godono se non in parte. L’ebraica, per esempio ha quello di trarre da poche radici, e semplicissime per la maggior parte tutta la varietà de’ suoi termini; di poter con un verbo medesimo leggiermente diversificato esprimere sette sensi, come amare, esser amato, amar grandemente, esser amato grandemente, far amare, esser fatto amare, amar sé stesso. Oltre alle variazioni dei numeri, e delle persone gli Ebrei avevan nei verbi anche quella dei generi, utile spesse volte per accennare determinatamente il soggetto della proposizione. Ma scarseggiavan di troppo nei modi, e nei tempi non avendo rispetto ai primi che l’indicativo, l’imperativo, e l’infinito, e riguardo ai /256/ secondi avendo soltanto il passato, il futuro, e il presente, che però si confonde col participio, e non ha distinzion di persone. Oltre ciò nel futuro la seconda persona maschile del singolare, e la terza femminile hanno una medesima desinenza, come una stessa n’han pure la seconda, e la terza femminile del plurale. Riguardo ai nomi avevan anch’essi oltre al singolare, e al plurale il numero duale, come i Greci, il quale è per altro di pochissima utilità, avevan l’articolo, non avevano casi, e quanto alle desinenze de’ generi, e de’ numeri avevan la stessa irregolarità delle nostre lingue, sebbene forse minore, poiché sì i maschili, che i femminili avevan quasi tutti nel plurale una terminazione costante.

            Nella lingua greca utilissima era la composizione delle parole. Perciocché quante idee complesse per lei non si esprimevano con un sol termine? Ci avvantaggiavan ne’ verbi d’un modo, e d’un tempo veramente significanti, come poc’anzi abbiam detto; avevano tutti i tempi ne’ participj ancora. Nei nomi /257/ avevan gli articoli, e i casi, avevan tre generi, maschile, femminile, e neutro, tre numeri singolare, duale, e plurale, i quali numeri avevano ancora ne’ verbi. Ma perché poi dieci declinazioni nei nomi; perché ne’ verbi trentasei conjugazioni: tredici degli attivi, tredici de’ passivi, e dieci de’ medj, ossia comuni, verbi già difettosissimi per sé stessi, siccome quelli, che hanno con una medesima desinenza il significato or attivo, or passivo? Non vi dovrebbero essere nelle lingue altre variazioni di desinenza, se non

 

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 quelle, che son necessarie per esprimere più brevemente, e più chiaramente i diversi significati, o assoluti, o relativi d’una medesima voce. I Greci all’opposto dopo aver già introdotto tante conjugazioni de’ verbi attivi e passivi, dove una sola bastar potea, han voluto introdurre per confondere ne’ medesimi verbi i due significati attivo, e passivo dieci altre conjugazioni. Non v’hanno che i verbi, che chiamano circonflessi, in cui il passivo, e ’l medio hanno una medesima desinenza. E ben poteano far lo /258/ stesso ancora cogli altri, siccome han fatto i Latini, che hanno anch’essi il difetto de’ verbi comuni, e deponenti; ma almeno non han per essi introdotte nuove desinenze. S’aggiunga che ne’ verbi han un tempo inutile, che è l’aoristo secondo, avendo egli il medesimo significato del primo, che è corrispondente per lo più al nostro perfetto indeterminato. E l’unione de’ cinque dialetti, quanto non ha accresciuto la moltiplicità già eccessiva delle inflessioni de’ nomi, e de’ verbi? Quanti sinonimi inutili non ha poi introdotto? Alcuni ammirano in tutto questo la somma abbondanza della lingua greca; ma non so se le lingue che amano l’esattezza abbiano molto ad invidiarle questo vantaggio, come all’incontro le debbono invidiare gli altri veri vantaggi sovraccennati.

            Quanto alla lingua latina cominciando dai casi, che a lei sono comuni colla greca, essi certamente e per la brevità, e per la chiarezza, e per la precisione non lasciano d’essere utilissimi. Si osservi però, che trattone il genitivo, /259/ che ha un significato corrispondente alla nostra preposizione di, gli altri casi presso di loro non hanno alcun senso significativo, ma hanno l’indicativo soltanto. Il nominativo indica il soggetto della proposizione, l’accusativo l’oggetto relativo del verbo; il dativo si accompagna sempre o con un verbo, o con un aggettivo per indicare semplicemente il secondo termine delle relazioni da loro espresse, se non che equivale qualche volta alla preposizione pro; l’ablativo è sempre retto da una preposizione o espressa, o sottintesa; del vocativo non parlo, che non ha una terminazione propria se non nel singolare della seconda declinazione. Le relazioni adunque, che non sono espresse dai verbi, né dagli aggettivi, dovevansi esprimere ancor dai Latini per via delle preposizioni; ed è ben chiaro, che i

 

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 nomi preceduti da queste non importa che abbiano una desinenza piuttosto, che un’altra. Tuttavia la distinzione almeno del nominativo, e dell’accusativo era certo utilissima, come già abbiamo notato: dell’ablativo al contra/260/rio avrebber potuto anch’essi comodamente far senza alla maniera de’ Greci, unendo le preposizioni ai casi che di già avevano senza introdurre una nuova terminazione superflua.

            Ma oltreciò quanta irregolarità e negli uni, e negli altri non v’ha in questa parte? Per parlare dei Latini soltanto, perché anch’essi stabilire cinque declinazioni ove una sola potea bastare, e poi confondere nella prima il genitivo, e dativo singolare col nominativo plurale, come musæ (non dico anche il nominativo coll’ablativo singolare, perché voglio supporre, che essendo l’-a finale dell’uno breve, e dell’altro lungo il distinguessero abbastanza colla pronunzia); nella seconda il dativo coll’ablativo singolare, come domino; nella terza quanto al singolare in molti il nominativo col genitivo, come hostis; in altri il dativo coll’ablativo, come navi; e quanto al plurale in tutti il nominativo coll’accusativo, come menses; nella quarta il nominativo, e genitivo singolare col nominativo, e accusativo plurale, come sensus; nella /261/ quinta il nominativo singolare col nominativo, e accusativo plurale; e il genitivo singolare col dativo, come dies, e diei; in tutte il dativo coll’ablativo plurale, e il vocativo tanto singolare, come plurale col nominativo (eccetto solo il singolare della seconda); e nei neutri oltreciò il nominativo tanto singolar, che plurale coll’accusativo? Han voluto moltiplicare le desinenze ove non v’ha bisogno, e han poi mancato di distinguere quelle, che realmente dovevan esser distinte.

            Riguardo ai generi giacché i Greci, e i Latini avevano introdotto anche il neutro, perché metter poi nel maschile, e nel femminile la maggior parte delle cose inanimate, che al neutro dovevano tutte appartenere?

            La mancanza dell’articolo è un difetto della lingua latina, che rende in essa assai meno determinato il significato dei nomi, che nella ebraica, nella greca, e nelle lingue moderne.

            Nei verbi avevano i Latini quattro conjugazioni attive, e quattro passive, laddove noi ci contentiamo di tre /262/ sole attive, formando

 

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 tutti i passivi col verbo essere. Mancavan eglino del perfetto indeterminato, e del soggiuntivo condizionale. Avevano maggior copia di verbi irregolari. Lascio, per non ripetere quel che ho detto di sopra, l’irregolarità de’ verbi comuni, e dei deponenti.

            Dei participj avevano più di noi il futuro, ma non potevano usare nei loro neutri il passato dicendo ventus per esempio, o itus, come noi diciamo venuto, e andato.

            Nelle preposizioni eran più regolari di noi perciocché le diverse relazioni che noi siam forzati ad esprimere confusamente colle due preposizioni da, e per eran da loro distintamente significate colle preposizioni diverse a, ex, de; e per, ob, præ, pro; la relazione di stromento era distinta da quella di compagnia col sopprimere, come facevano per lo più la preposizione cum; e così si dica d’alcune altre.

            Quanto agli avverbj, alle congiunzioni, e agli interposti presso a poco siamo eguali.

/263/ Le regole del régime erano nella lingua greca, e nella latina assai più avviluppate, che non son nella nostra a cagione del grand’uso ch’essi facevano dell’ellissi; quantunque alcuni gramatici son poi concorsi ad avvilupparle molto di più, che non l’erano naturalmente.

            Quanto alla copia de’ termini significanti, le lingue moderne hanno tutti quelli di più, che esprimono le nuove idee dagli uomini acquistate a misura che le loro cognizioni colle nuove scoperte si sono andate accrescendo. Ma se riguardiamo all’idee, che comuni erano ancor fra gli antichi, la lingua greca, e la latina han tuttavia molti termini esprimentissimi, che le moderne non hanno addottato, e a cui non ne hanno sostituito di altri corrispondenti. Egli sarebbe desiderabile, che tutti usassero la libertà degli Inglesi di arricchire la propria lingua con quello, che v’ha di meglio nell’altre. Quante nuove espressioni cavare non potrebbero gli uni dagli altri, e adattandole al genio /264/ della propria lingua renderla più feconda, più significante, più chiara, schivando le lunghe circonlocuzioni, che son necessarie molte volte per rendere quelle medesime idee, che da altri s’esprimono con una sola parola?

            Non sono però da tollerare coloro che non sanno introdur che sinonimi.

 

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 Perché infatti usare un latinismo, o un francesismo ove abbiamo in italiano già altri termini corrispondenti? È egli forse sì scarso il numero de’ sinonimi fra di noi, che sia mestieri l’accrescerlo di vantaggio?

            Sarebbe anzi all’opposto cosa degna dell’opera d’un filosofo il cercar di ristringerlo. Né intendo io già per questo, che s’abbiano a sbandir dall’Italia le voci, che già vi sono. Basterebbe soltanto esaminarle maturamente, e ben determinarne il significato, osservando quelle che esprimono un’idea più o men generale, più o men composta, penetrando a distinguere le loro minime differenze, i loro gradi diversi, i loro diversi usi, separando quelle che sono pro/265/prie da quelle che son figurate, le primitive dalle derivate, le semplici dalle composte ecc.

            Io non so se si potrebbe scoprire in tutti i termini un significato diverso; so ben che moltissimi di que’ che pajon sinonimi, e che si usano come tali comunemente, si vedrebbero aver un senso realmente distinto; e questa determinazione renderebbe la nostra lingua assai più precisa, ch’ella non è.

 

 

CAPO V

Delle voci, che esprimono più idee diverse

 

Se è a parlar rigorosamente una superfluità pregiudicevole in una lingua l’aver più voci esprimenti una stessa idea, egli è un difetto assai più pregiudicevole l’esprimere diverse idee con una voce medesima, specialmente quando siano idee affatto disparate, e che non abbian tra loro niuna simiglianza, o relazione. Io non so tuttavia, se da questo difetto vi sia alcuna lingua, che /266/ vada esente. La nostra certo non l’è, in cui moltissime sono le voci, che hanno diversi sensi. Siccome però i sinonimi molto contribuiscono alla varietà, e all’eleganza, così fanno ancor queste voci, quando siano ben usate. Noi andremo qui enumerandone le principali cominciando dai verbi in cui ve n’ha maggior numero.

 

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            ACCATTARE oltre al significato di ‘mendicare’ ha quello ancora di ‘prendere in prestanza’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 2, nel tit[olo]: «Accattato da lei un mortajo il rimanda».

            ADAGIARE si adopera per ‘fornire uno di qualche cosa’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 8: «Gli ebbe di tutto ciò, che bisognò loro, e di piacere era, fatti adagiare».

            AGGIUGNERE si usa invece di ‘giugnere’. Bocc[accio] g[iornata] 10, n[ovella] 3: «Quando aggiugnerò io alla liberalità delle gran cose di Natan?».

            AMAR MEGLIO s’adopera per ‘voler piuttosto’. Bocc[accio] n[ovella] 1: «Io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni, che ecc.».

/267/ ANDARNE la vita, andarne la testa significa ‘essere stabilita per un delitto la pena di morte’. Bocc[accio] g[iornata] 7, n[ovella] 8: «Come fostù sì folle, che tu confessassi quello, che tu non facesti giammai, andandone la vita?».

            APPORRE si usa per ‘incolpar uno a torto’. Bocc[accio] g[iornata] 7, n[ovella] 8: «Il marito poteva per altra cagione essere crucciato con lei, e ora apporle questo per iscusa di sé».

            APPORSI vale ‘indovinare’. Malmantile cant[are] 2, ott[ava] 75:

 

E venne immaginandosi, e s’appose,

Ch’ella fosse sua moglie, ei suo marito.

 

            ATTENERSI si usa per ‘appartenere’. Ambra Furt[o], att[o] 2,

 

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 sc[ena] 7: «L’eredità s’attenerà a me». Per ‘esser parente’. Salviati Spin[a] att[o] 1, sc[ena] 4: «Erede d’uno, che non t’attiene quasi nulla». Per ‘tenersi, stare ad una cosa’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 10: «Attenendosene Salabaetto alla sua semplice promessione».

            AVERE s’adopera per ‘riputare’. Bocc[accio] n[ovella] 1: «Gli diede la sua benedizione avendolo per santissimo uomo». Per ‘ottenere’, e ‘procacciare’. Nov[elle] Ant[iche] 54: «Ebbe /268/ un cavallo, e da’ suo’ fanti il fece vivo scorticare». Per ‘ritenere’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 4: «Disse alla buona femmina, che più di cassa non aveva bisogno, ma che se le piacesse un sacco gli donasse, e avessesi quella». Per ‘intendere’, o ‘sapere’. Bocc[accio] g[iornata] 4, n[ovella] 9: «Donna io ho avuto da lui, che egli non ci può essere qui domane».

            AVVENIRSI, si usa per ‘abbattersi’. Bocc[accio] g[iornata] 9, n[ovella] 3: «Ovunque con persona a parlar s’avveniva». Per ‘convenire’, ‘star bene’. Guido Giudice p[agina] 271: «Oh come s’avvenne al savio uomo d’esser cauto!». E per ‘avere attitudine’, e ‘avvenenza nell’operare’. Firenzuola Dial[ogo delle] bel[lezze delle] don[ne]

 

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p[agina] 318: «Se ella va, ha grazia ecc. finalmente e’ se le avviene ogni cosa maravigliosamente».

            AVVISARSI per ‘accorgersi’. Franco Sacchetti nov[ella] 78: «Gentiluomo, avvisiti tu di nessuno, che queste cose ti faccia?». Per ‘deliberare’. Bocc[accio] n[ovella] 3: «S’avvisò di fargli una forza da qualche ragion colorata». E per ‘credere’, o ‘esser di parere’, nel qual senso s’adopera anche avvisare, o esser d’avviso.

/269/ CONDURRE per ‘indurre’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 6: «Con la maggior fatica del mondo a prendergli, ed a mangiare la condusse».

            CONFORTARSI per ‘concepir fiducia’. Bocc[accio] g[iornata] 3, n[ovella] 9: «Come costei l’ebbe veduto così incontanente si confortò di doverlo guerire».

            CONOSCERSI, per ‘intendersi’, ‘aver perizia’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 2: «Per quello che mi dice Bolietto, che sai, che si conosce così bene di questi panni sbiavati».

            CONSENTIRE per ‘accordare’, ‘permettere’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 8: «Prima soffrirebbe di essere squartato che tal cosa né in sé, né in altrui consentisse».

            CONTENDERE per ‘vietare’, ‘impedire’. Gio[vanni] Villani lib[ro] 8, cap[itolo] 40: «Contesono loro il passo».

            CRESCERE per ‘accrescere’. Gio[vanni] Villani lib[ro] 1, cap[itolo]

 

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48: «E crebbono assai la città di Pisa». E per ‘allevare’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 8: «Come figliuola cresciuta m’avete».

            DOMANDARE per ‘interrogare’, e ‘richiedere di alcuna persona’. Bocc[accio] g[iornata] 2, /270/ n[ovella] 3: «Alessandro domandò l’oste là dove esso potesse dormire». E g[iornata] 1, n[ovella] 1: «Se ne andarono ad una religione di frati, e domandarono alcuno santo, o savio uomo».

            ESSERE a una persona, o a un luogo vale ‘andare’, o ‘arrivare’. Bocc[accio] g[iornata] 5, n[ovella] 5: «I parenti dell’una parte, e dell’altra furono a lui, e con dolci parole il pregarono».

            FARE si usa per risvegliar l’idea di qualunque verbo precedente. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 6: «Così lei poppavano, come la madre avrebber fatto», cioè poppato. Trattandosi di tempo, significa il termine di una quantità di esso determinata. Cecchi Sti[a]va, att[o] 5, sc[ena] 6: «Fa’ tu a memoria, che or fan sedici anni, ch’e’ mi fu tolto?». Così sul far del giorno, sul far della notte significan ‘nel cominciare del giorno’, o ‘della notte’. Far forza vale ‘importare’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 8: «Disse il Zeppa: “Egli è ora di desinare di questa pezza”. Spinelloccio disse: “Non fa forza, io ho altresì a parlar seco d’un mio fatto”». In questo senso s’adopera anche il solo fare. Bocc[accio] g[iornata] 5, n[ovella] 4: «Che vi fa egli, /271/ perché ella sopra quel veron si dorma?».

 

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            FARSI si usa per ‘innoltrarsi’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 4: «Fattasi alquanto per lo mare». E per ‘affacciarsi’. Bocc[accio] g[iornata] 3, n[ovella] 3: «Né posso farmi né ad uscio, né a finestra». Fatti con Dio, vale ‘resta’ o ‘vanne con Dio’ modo di salutare, o di licenziare. Bocc[accio] g[iornata] 7, n[ovella] 10: «Meuccio fatti con Dio, ch’io non posso più stare teco».

            FRAMMETTERSI, inframmettersi, trammettersi, intrammettersi vagliono ‘esser mediatore’, e ‘ingerirsi’. Tratt[ato della] Piet[à]: «L’uomo non si frammetta di giudicare ciò, che a lui non appartiene».

            GIOVARE si usa alla maniera latina per ‘piacere’. Bocc[accio] g[iornata] 5, n[ovella] 5: «Poiché Filostrato ragionando in Romagna è entrato, a me per quella similmente gioverà d’andare alquanto spaziandomi».

            MENARE smanie, menar orgoglio, significa ‘smaniare’, ‘insuperbire’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 2: «Ne invaghì sì forte, ch’egli ne menava smanie». Carlo Dati Prose fioren[tine] part[e] 1, vol[ume] 4, oraz[ione] 9: «Desiderabile è la nobiltà, ancorché di lei sola alcun non debba menar orgoglio». Menar la vita significa ‘vivere’.

/272/ METTERE si usa in senso intransitivo per ‘isboccare’. Gio[vanni] Villani lib[ro] 11, cap[itolo] 1: «Per l’aggiunta di più fiumi, che di sotto a Firenze mettono in Arno».

            MONTARE per ‘importare’; e s’adoperan nel medesimo senso anche levare, e rilevare. Gio[vanni] Villani lib[ro] 10, cap[itolo] 86:

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 «Assalivano l’oste ma poco levava, sì aveva Castruccio afforzato il campo». Dante Par[adiso], can[to] 30:

 

La legge natural nulla rileva.

 

Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 9: «Tu diresti, e io direi, e alla fine niente monterebbe».

            MORIRE si usa ne’ passati per ‘uccidere’. Bocc[accio] g[iornata] 9, n[ovella] 5: «Ohimè! ella m’ha morto».

            MOSTRARE si adopera con significato intransitivo per ‘sembrare’, o ‘apparire’. Bocc[accio] Introd[uzione]: «Non è perciò così da correre, come mostra, che voi vogliate fare».

            MUOVERE per ‘andare’. Petr[arca] canz[one] 5:

 

Or muovi non smarrir l’altre compagne.

 

            PARTIRE per ‘allontanare’. Bocc[accio] g[iornata] 3, n[ovella] 9: «Egli aveva l’anello caro, né mai da sé il partiva». E per ‘dividere’. Petr[arca]:

 

il bel paese

Che Appennin parte, il mar circonda, e l’Alpe.

 

/273/ PENARE per ‘aver difficoltà a fare alcuna cosa’. Bocc[accio]

 

 

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 g[iornata] 2, n[ovella] 5: «Mentre, ch’io penerò a uscir dell’arca, egli se n’andranno pe’ fatti loro».

            PICCARSI, per ‘offendersi di qualche cosa’. Malmantile can[tare] 7, ott[ava] 59:

 

Non ti piccar di ciò.

 

E per ‘pretendere di saper bene in essa riuscire’. Salvini discor[so] 1, pag[ina] 3: «Allo stesso Socrate era fatta qualche domanda delle cose naturali, e divine ecc. delle quali il medesimo filosofo non si piccava».

            PORRE, o porsi in cuore si usano per ‘deliberare’. Franco Sacchetti Opere diverse pag[ina] 123: «Tra loro hanno posto d’uccidermi». Bocc[accio] g[iornata] 7, n[ovella] 5: «Io mi posi in cuore di darti quello, che tu andrai cercando».

            PORTARE per ‘esigere’, o ‘richiedere’. Bocc[accio] g[iornata] 10, n[ovella] 6: «Secondo che la stagione portava». Portare in pace val sopportare. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 7: «Portatelo in pace».

            PRENDERE, per ‘intraprendere’, o ‘incominciare’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 7: «Lasciatami prestamente presero a fuggire».

 

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/274/ RECARE, per ‘indurre’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 9: «Io mi crederei in brieve spazio di tempo recarla a quello, che io ho già dell’altre recate».

            RECARSI posto assolutamente vale ‘offendersi’. Gio[vanni] Villani lib[ro] 6, cap[itolo] 68: «E recaronsi, che gli Aretini avessero loro rotta la pace».

            RICHIAMARSI s’adopera per ‘dolersi’. Boccaccio g[iornata] 8, n[ovella] 5: «Io son venuto a richiamarmi di lui d’una valigia la quale egli m’ha imbolata».

            RICOVERARE vale ‘rifugiarsi’. Boccaccio g[iornata] 7, n[ovella] 4: «Come vide correre al pozzo, così ricoverò in casa, e serrossi dentro». S’adopera anche per ‘ricuperare’.

            RICORDARE si usa per ‘nominare’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 9: «Perché ricordavate voi, o Dio, o i santi?». Vale anche ‘avvisare’, o ‘ammonire’.

            RIMANERSI s’adopera per ‘cessare’. Bocc[accio] g[iornata] 7, n[ovella] 1, tit[olo]: «Vanno ad incantare con una orazione, ed il picchiar si rimane».

            RIPOSARSI vale lo stesso. Bocc[accio] g[iornata] 10, n[ovella] 3, principio: «Riposandosene già /275/ il ragionare delle donne comandò il re a Filostrato, che procedesse».

            RIPIGLIARE, e riprendere valgono ‘rimproverare’. Bocc[accio] g[iornata] 3, n[ovella] 3: «A voi sta bene di così fatte cose non che gli amici, ma gli strani ripigliare».

            RITRARRE s’adopera per ‘distorre’. Petr[arca] canz[one] 48:

 

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Da mille atti inonesti l’ho ritratto.

 

Ritrarre da uno vale ‘somigliarlo’. Franco Sacchetti Rime p[agina] 18:

 

Da quella antica madre non ritrai,

Ch’al mondo dimostrò la sua potenza.

 

            ROMPERE usato assolutamente vale ‘far naufragio’. Dante Convit[o], f[oglio] 205: «Laddove dovreste riposare per lo impeto del vento rompete, e perdete voi medesimi».

            RUBARE si usa per ‘ispogliare’. Boccaccio g[iornata] 5, n[ovella] 4: «Molto ben sapeva la cui casa stata fosse quella, che Guidotto aveva rubata».

            SENTIRE s’adopera per ‘conoscere’. Petr[arca] canz[one] 41:

 

Quel che tu vali, e puoi,

Credo che il senta ogni gentil persona.

 

E Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 9: «Non ti sento di così grosso ingegno». E per ‘aver qualità’. /276/ Bocc[accio] g[iornata] 9, n[ovella] 10, principio: «Io il qual sento dello scemo anzi che no, più vi debbo esser caro». In questo senso si usa anche avere, come egli ha dello scemo, egli ha del pazzo. E tenere. Bocc[accio] g[iornata] 7, n[ovella] 1: «tenendo egli del semplice». Sentire avanti vale ‘saper

 

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 molto’. Bocc[accio] n[ovella] 3: «Tu se’ savissimo, e nelle cose di Dio senti molto avanti».

            SOPRASTARE si usa per ‘indugiare’. Bocc[accio] g[iornata] 6, principio: «Delle sette volte le sei soprastanno tre, o quattro anni di più, che non debbono, a maritarle».

            SOSTENERE per ‘comportare’, o ‘permettere’. Boccaccio g[iornata] 2, n[ovella] 6: «Vollele far la debita riverenza; ma ella nol sostenne».

            SPERARE per ‘aspettare’. Boccac[cio] g[iornata] 5, n[ovella] 3: «Del quale sapeva, che non si doveva sperare altro, che male».

            STAR BENE ad alcuno val ‘convenire’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 4: «Io non son fanciulla, alla quale questi innamoramenti stiano oggi mai bene». Stare si usa anche per ‘consistere’. Passavanti p[agina] 35: «In que/277/sto sta la dignità, e l’eccellenza della Vergine Maria sopra gli altri santi».

            STARSI vale ‘intertenersi’. Bocc[accio] g[iornata] 1, n[ovella] 4: «Per ciò statti pianamente fino alla mia tornata». E ‘astenersi dal far qualche cosa’. Bocc[accio] g[iornata] 3, n[ovella] 5: «Si è meglio fare, e pentere, che starsi, e pentersi».

            TENERE si usa per ‘pigliare’, ma solo nell’imperativo. Bocc[accio] g[iornata] 7, n[ovella] 2: «Te’ (cioè ‘tieni’) questo lume buon uomo»; e g[iornata] 8, n[ovella] 1: «Madonna tenete questi denari». Per ‘giudicare’. Bocc[accio] g[iornata] 3, n[ovella] 6: «Corrado

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 avendo costui udito si maravigliò, e di grand’animo il tenne».

            TENERSI per ‘trattenersi’. Bocc[accio] g[iornata] 1, n[ovella] 3: «Di Firenze usciti non si tennero, sì (cioè ‘finché non’) furono in Inghilterra».

            TENER uscio, porta, entrata, e simili s’adoperan per ‘vietare’. Bocc[accio] g[iornata] 7, n[ovella] 5: «E quale uscio ti fu mai in casa tua tenuto?».

            TENER favella vale ‘restar di parlare con alcuno per isdegno’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 2: «La Belcolore venne in iscrezio col sere, e tennegli favella infino a vendemmia».

/278/ TENER credenza vale ‘tener segreto’. Bocc[accio] g[iornata] 3, n[ovella] 1: «Se io credessi, che tu mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero, che io ho avuto più volte».

            TOCCARE per ‘commovere’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 8: «Questo ragionamento con gran piacere toccò l’animo dello abate».

            TOGLIERE per ‘prendere’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 2: «Togli quel mortajo, e riportalo alla Belcolore».

            TORNARE per ‘riporre’. Bocc[accio] g[iornata] 3, n[ovella] 8: «Tacitamente il tornarono nell’avello». Tornar bene vale ‘esser di utile’, o ‘di piacere’. Tornare si usa anche per ‘ridondare’. Bocc[accio] g[iornata] 4, n[ovella] 3: «Ogni vizio può in grandissima noja tornare di colui, che l’usa».

 

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            TRAPASSARE per ‘morire’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 7: «Il quale non istette guari che trapassò».

            TRARRE si trova usato per ‘accorrere’. Bocc[accio] g[iornata] 9, n[ovella] 5: «Quasi al rumor venendo colà trassero».

            VALERE per ‘giovare’. Boccaccio g[iornata] 6, princip[io]: «La regina le aveva ben sei volte imposto silenzio, ma niente valea». E per ‘meritare’. Boccac[cio] g[iornata] 1, /279/ n[ovella] 10: «Ch’io ami, questo non deve essere maraviglia ad alcuno savio, e specialmente voi, perciocché voi il valete».

            VARIARE s’adopera in significato intransitivo per ‘essere differente’. Boccac[cio] g[iornata] 1, n[ovella] 5: «Quantunque in vestimenti, e in onori alquanto dall’altre variino».

            VENIRE per ‘divenire’. Bocc[accio] Ninf[ale] fiesol[ano]: «E crescendo Proneo venne sì bello della persona, che ecc.». E per ‘uscirne odore’. Bocc[accio] g[iornata] 4, n[ovella] 10: «Dianzi io imbiancai miei veli col solfo ecc. sì che ancor ne viene». E per ‘riuscire’. Bocc[accio] introd[uzione]: «Tante più viene lor piacevole, quanto maggiore è stata del salire, e dello smontare la gravezza».

            VOLERE si usa per ‘dovere’. Bocc[accio] n[ovella] 1: «Questi lombardi cani non ci si vogliono più sostenere»; cioè non ci si debbono. E ‘esser per essere’. Gio[vanni] Villani lib[ro] 12, cap[itolo] 100: «Per

 

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 trattato de’ Tarlati usciti d’Arezzo volle essere tradito, e tolto a’ Fiorentini il castello di Laterino», cioè fu per essere.

            USARE s’adopera per ‘frequentare’. Bocc[accio] g[iornata] 3, n[ovella] 4: «Usava molto la chiesa»; /280/ e n[ovella] 1: «A chiesa non usava giammai». S’adopera anche per ‘conversare’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 9: «Quanto più uso con voi, più mi parete savio».

            Riguardo ai nomi io non ne accennerò che alcuni per non dilungarmi soverchiamente.

            BELLA, e VECCHIA aggiunti a paura significan ‘grande’. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 2: «Per bella paura si rappatumò con lui». Pulci Morgan[te], c[antare] 5, ott[ava] 48:

 

E fece a tutti una vecchia paura.

 

            SOLENNE è usato dal Boccaccio per ‘grande’, ‘eccellente’, ‘straordinario’; e da lui si aggiunge a dono, convito, uomo, giucatore, bevitore, vino ecc.

            FATTO s’adopera per ‘uomo’, ‘personaggio’, ‘cosa’ ecc. Bocc[accio] n[ovella] 7: «Qualche gran fatto deve esser costui, che ribaldo mi pare».

 

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            PECCATO per ‘male’ in genere, ‘danno’, ‘disordine’, Bocc[accio] n[ovella] ult[ima]: «Gran peccato fu che a costui ben n’avvenisse».

            PEZZA significa ‘spazio di tempo’. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 5: «Egli è gran pezza, che a te venuta sarei». Ed anche il tempo /281/ presente. Bocc[accio] g[iornata] 8, n[ovella] 8: «Egli è ora di desinare di questa pezza».

            PEZZO vale lo stesso. Bocc[accio] g[iornata] 2, n[ovella] 2: «Io mi veniva a star teco un pezzo».

            Quanto alle preposizioni, agli avverbi, alle congiunzioni, e agl’interposti già abbiam dimostrato a’ loro luoghi bastantemente i significati diversi, in cui si sogliono adoperare.

 

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/282/PARTE V

DELLA ORTOGRAFIA

 

 

CAPO I

Dell’alfabeto italiano

 

L’alfabeto italiano è simile al latino, se non che non ammette le tre lettere k, x, y, e loro si sostituiscono invece nelle parole derivate dal latino, e dal greco le tre altre c, s, i; come da kalendæ, exemplum, gyrus calende, esempio, giro. La x però si conserva in alcuni pochi latinismi, come ex professo, ex proposito, ex abrupto, e nel nome Xanto, fiume notissimo ne’ poemi d’Omero, e di Virgilio, per distinguerlo da santo.

            Il ph similmente non si usa da noi, e s’adopera invece la f, come da philosophus, filosofo.

            La h non si premette che alle voci ho, hai, ha, hanno del dimostrativo presente di avere per distinguerle dall’o /283/ disgiuntivo, dall’ai preposizione unita all’articolo, dall’a preposizione semplice, e dal nome anno. Alcuni in vece di ho, ha scrivono ò, à, ma la più parte gli scrivon anzi colla h, che coll’accento. Gli interposti ah, ahi, ahimè, oh, ohi, ohimè, eh, deh, doh, uh siccome si pronunciano coll’aspirazione, così richiedono la h.

            Ella si soggiugne pure alle lettere c, e g, quando fan sillaba colle vocali e, ed i, e debbonsi pronunciare con un suono aspro, come è quello di ricchi, e ricche; avendo ce, ci, ge, gi senza la h un suono più tenue, quale è quello di cera, cima, genere, giro. Innanzi alle altre vocali la c, e la g, hanno un suono aspro per sé, e perciò la h è inutile, né si scrive per esempio charità, ma carità. Anzi quando innanzi all’a, o, u, si debbon esse pronunciare con un suono tenue, conviene

 

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 frapporvi un -i-; quindi assai diverso è il suono di veggio, e veggo, di braccio, e bracco.

            Il t innanzi all’-i- seguita da altra vocale non ha il suono della z come /284/ nelle parole latine, e perciò in italiano si deve scrivere grazia, ambizione, non gratia, ambitione. V’han molte parole, che si scrivono indifferentemente colla z, e col c, come uffizio, benefizio, indizio, giudizio, spezie, delizie, e ufficio, beneficio, indicio, giudicio, specie, delicie.

            I plurali de’ nomi maschili, che nel singolare finiscono in -io, invece di essere scritti con due i, si scrivono con un j come da giudizio, ozio, ufficio, giudizj, ozj, ufficj. Ciò non può farsi coi verbi, e però si scrive ringrazii, annunzii, non ringrazj, annunzj. Nei nomi pure sono eccettuati tutti quelli, in cui la voce si posa sull’i di -io come Dio, pio, restio, natio, mormorio ecc., che al plurale si scrivono con due i, cioè Dii, pii, restii, natii, mormorii ecc. Quelli all’incontro in cui nel singolare l’-io si pronuncia con un suono solo, si pronunciano, e si scrivono nel plurale con un solo i, come da raggio, occhio, figlio, raggi, occhi, figli.

            Alla j consonante, che dovrebbe piuttosto chiamarsi je, nelle parole deri/285/vate dal latino, si sostituisce generalmente in italiano la g, come da major maggiore, da jacere giacere.

            Convien ben distinguere l’u vocale dal v consonante, che meglio potrebbe chiamarsi ve. Quando fa suono da sé egli è vocale, quando non può far suono se non appoggiato ad un’altra vocale egli è consonante, e il suo suono è quasi simile a quello della f, e del b. Infatti col b si scambia sovvente dicendosi egualmente servare, e serbare, nervo, e nerbo. Anche dalla sola maniera di pronunciarlo si può agevolmente distinguere quand’egli è consonante, e quando è vocale. Perciocché l’u vocale si pronuncia rotolando i labbri senza batterli un contro l’altro; e all’opposto il v si pronuncia battendo i denti superiori sul labbro inferiore. La parola uva ne può essere un chiaro esempio.

Dopo il q, e il g l’u è sempre vocale, ed ha un suono sfuggito, come in questo, quello, guerra, guadagno ecc. Notisi che nelle parole acqua, tacque, nacque, nocque, giacque, piacque, acqui/286/sto, e in

 

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 tutte quelle che da esse derivano innanzi al q si deve porre un c. L’u ha il medesimo suono sfuggito innanzi alla vocale o quando con lei fa dittongo, come uomo, figliuolo, cuore, buono, scuola. Convien però osservare che l’u non ha luogo se non quando la voce si posa sopra dell’o che lo segue; quindi bontà, scolare, e simili non si scrivon coll’u, battendo in queste parole la voce su d’altra vocale. S’eccettuin nuovamente, buonamente, suonare, giuocare, e alcune altre poche voci, in cui l’u si scrive tuttavia.

            Innanzi a b, e p la n si cangia in m, come Giampiero, Giambattista. Lo stesso si fa ancora in tiemmi per ‘tienmi’. La m all’opposto si cambia sovvente in n quando è innanzi ad un’altra n, come andianne per ‘andiamne’. La n seguita dal g spesse volte si trasporta innanzi; come giugnere, piagnere, vegna ecc. per giungere, piangere, venga.

            I nomi proprj si scrivon tutti colla prima lettera majuscola, come Pietro, Parma, Italia, Tevere ecc. Ciò si fa ancora al /287/ principio di ogni periodo, e in poesia al principio d’ogni verso.

 

 

 

 

 

CAPO II

Dell’accento

 

L’accento si sovrappone all’ultima vocale di quelle parole, che son di più sillabe, che finiscono in vocale, e in cui su di questa vocale, si appoggia la voce, come pietà, bontà, perché, però ecc.

            Nei monosillabi non si pone, se non quando contengono un dittongo, cioè due vocali pronunciate unitamente, come già, ciò, può, più ecc., e quando hanno due diversi significati, per distinguere i quali in uno si aggiugne l’accento, nell’altro si ommette; così è, e  verbi,  nome in significato di ‘giorno’, e imperativo del verbo dire,  nome personale,  interposto affermativo, e avverbio in significato di ‘così’, , e  avverbj,  congiunzione negativa hanno l’accento; e al contrario e e se congiunzioni, da e di preposizioni, si e ne nomi personali, /288/ la, e li articoli non l’hanno. Tutti gli altri monosillabi, che hanno un solo senso si scrivono senza accento; e da molti senza accento si

 

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 suole scrivere anche il se così quand’è nome personale, come quando è congiunzione.

            Qualche volta l’accento si pone anche su la penultima vocale, come in balìa per distinguerlo da balia ‘nutrice’, in gìa verbo per distinguerlo da già avverbio, e in umìle, simìle, oceàno ecc. quando in poesia l’accento del verso si fa cadere sulla loro penultima sillaba. Da molti però simili accenti si sogliono ommettere.

            Un uso utilissimo, che si potrebbe introdurre riguardo agli accenti sarebbe quello di contrassegnarne in tutte le parole sdrucciole, e bisdrucciole o intere, o tronche la vocale, su cui si posa la voce, scrivendo per esempio lìbero, lìberano, lìberan, ùtile, ùtil ecc. Con questo si verrebbe a determinare chiaramente, e invariabilmente la pronuncia di tutte le parole. Perciocché la pronuncia di quelle, che finiscono in vocale accentata, come pietà già è fissa dall’accento, /289/ che vi si pone; quella delle sdrucciole o intere, o tronche, come ùtile e ùtil lo sarebbe dall’accento, che nuovamente vi si ponesse; e quella delle piane o intere, o tronche come amare, e amar lo diverrebbe dal non avere niun accento. Né per le sdrucciole sarebbe necessario d’introdurre un accento nuovo diverso da quello, che già si usa nelle parole accentate in ultimo. Poiché l’accento presso di noi non ha la forza, che aveva presso de’ Greci. Appo loro l’accento significava alzamento, o abbassamento di voce; e perciò essi ne avevano tre distinti: l’acuto (´), il grave (`), e il circonflesso (˜). Ma presso noi egli non serve che ad accennar la vocale, su cui si deve posar la voce: e quindi un solo sarebbe bastante. Quest’uso riuscirebbe di un grandissimo comodo per gli stranieri, i quali durano molta pena ad imparare quale delle nostre parole si abbia a pronunciar breve, e qual lunga; d’un grandissimo comodo pei fanciulli, che comincian a leggere; e d’un comodo non picciolo anche per noi, massi/290/mamente per determinare la pronuncia o breve, o lunga de’ nomi proprj, molti de’ quali per la mancanza appunto di un segno, che li distingua, restan affatto indeterminati. Né un tal uso, dovendosi contrassegnar solamente le parole sdrucciole, e quelle che terminan in vocale accentata, importerebbe gran briga a chi scrive; perciocché queste rispetto alle piane sono in

 

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 picciolissimo numero. Io mi proverò di darne un esempio scrivendo a questa maniera il capo seguente.

            Ma giacché siamo entrati a parlar degli usi, che introdur si dovrebbono nella nostra lingua circa all’ortografia; ve n’ha un altro, che sarebbe ancora più necessario, ed è quello di distinguere con qualche segno quando l’o, e l’e si debbono pronunciare aperte, e quando strette. A tal fine o si potrebbero istituire due nuove lettere, a cagion d’esempio l’epsilon (ε), e l’omega (ω) de’ Greci, come voleva il Trissino; o basterebbe anche il supplirvi cogli accenti alla maniera de’ Francesi. Il secondo modo sarebbe più comodo per /291/ due riguardi: 1. perché le lettere greche par che non bene s’accordino con quelle del nostro alfabeto; 2. perché un accento solo (´) basterebbe e per l’o, e per l’e, e basterebbe anche l’usarlo soltanto quando queste vocali si debbono pronunciare aperte, ommettendolo quando s’hanno a pronunciar chiuse. In tal caso noi avremmo nella nostra lingua due accenti, l’uno de’ quali (`) servirebbe a determinare le pose della voce, l’altro (´) a distinguere le vocali aperte dalle strette (1): e la nostra ortografia non lascerebbe più nulla a desiderere né agli stranieri, né a noi medesimi.

 

 

CAPO III

Dell’apostrofo

 

L’apóstrofo si mette quando l’última vocale di una parola si elide per l’incontro d’un’altra parola, che /292/ per vocale cominci. Nell’artícolo gli l’i non si puó elídere, se la parola seguente non

 

 

1 O si potrebbe anche meglio per le pose della voce usare l’accento (´), che dicesi acuto, e per le vocali aperte l’accento (`), che si chiama grave: quando poi la posa della voce cade sopra d’una vocale aperta, per indicare e l’una, e l’altra cosa adoperar si potrebbe l’accento circonflesso de’ Francesi (^).(N.d.A.)

 

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 comíncia similmente per i. Quindi si scriverá bene gl’italiani, gl’indiani; ma non gl’anni, gl’editti, gl’orsi, gl’uómini, perché gl’ avrebbe quel suono aspro, che ha nelle parole latine gládius, gleba, glória, gluten.

            Similmente -ce, -ci, -ge, -gi, non si póssono apostrofare, se non innanzi all’e, e all’i; onde lo scrívere piagg’amene, dolc’amico è errore; anzi queste síllabe si sógliono per lo piú scrívere intere anche innanzi all’e, e all’i, come piagge erbose, dolce incontro ecc.

            Le vocali accentate non póssono elídersi se non nei composti di che, come perché, benché ecc.

            Gli antichi usáron talvolta di elídere la prima vocale della parola seguente incámbio dell’última della parola precedente, come invece di all’incontro allo ’ncontro.

            Nelle parole che si tróncano anche innanzi a consonante (di cui verremo ora a parlare) l’apóstrofo non è necessário.

 

 

/293/CAPO IV

Del troncamento delle parole

 

Innanzi a voce che cominci per consonante si posson troncare ommettendo l’ultima vocale, i nomi singolari che finiscono in -e, o in -o, e che avanti a queste vocali hanno una delle consonanti liquide l, n, r non preceduta da altra consonante, come fedel servo, pien popolo, leggier vento. Ve n’han però alcuni, che non si troncano, come chiaro, raro, nero, oscuro, duro ecc.

I nomi terminati in -a non si troncano mai, ed è errore il dire come si fa da molti una sol volta, una sol cosa incambio di una sola volta, una sola cosa. S’eccettui suora, di cui si fa suor, ma solamente quando s’usa a modo di aggettivo, come suor Maria, suor Cecilia.

            Terminati in -e, o in -o si posson troncare, come abbiam detto, quando abbiano le consonanti liquide l, n, r, purché queste però sian semplici, e non precedute da altra consonante /294/ diversa; quindi non si dirà ingan per inganno, fer per ferro, ladr per ladro ecc.

 

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 S’eccettuin capello, bello, quello e alcuni altri terminati in -llo, che si posson troncare tuttavia come capel biondo, bel viso, quel campo. Anzi bello, e quello innanzi a consonante, che non sia s impura, o z, aman piuttosto di esser troncati, che interi; perciò bello viso, quello campo ecc. non sono del miglior uso. Circa a quello abbiamo già avvertito altrove, che il suo plurale è quegli quand’è seguito da vocale, da s impura, o da z. Or lo stesso è ancor di bello: e però si dirà begli occhi, begli spiriti, non belli occhi, bei spiriti.

            I nomi plurali regolarmente non si troncano benché ai poeti qualche volta sie permesso in grazia del verso.

            Nei verbi si troncano gli infiniti, le prime, e terze persone plurali del presente, dell’imperfetto, e del futuro dimostrativo, e la terza, ma non la prima del perfetto indeterminato, come amar, amiam, amavam, amerem, aman, amavan, ameran, amaron. Si troncan /295/ pure la prima, e la terza plurale del presente del soggiuntivo, e la terza dell’imperfetto, e del soggiuntivo condizionale, come amiam, amin, amasser, amerebber, o amerebbon. In alcuni pochi si tronca anche la terza singolare del presente dimostrativo, come suol, vuol, duol, cal, val, ecc. nel verbo essere anche la prima, cioè son: negli altri la prima non può mai troncarsi, e fu rimproverato perciò nel Tasso quel verso:

 

Amico hai vinto, io ti perdon, perdona.

 

Tra gli avverbj si troncano bene, male, fuori, ora, e i suoi composti allora, talora, finora ecc. V’han delle parole in cui si tronca un’intera sillaba come vo’, me’, e’, ma’, qua’, be’, gran, san, ver; per voglio, meglio, e mezzo, egli, mali, quali, belli, grande, santo, e verso.

            Da’ poeti antichi si trovano qualche volta computate per una sillaba sola le due finali -ajo, -oja, come nel Dante:

           

Nello stato primajo non si rinselva;

 

 

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che dee pronunciarsi come se dicesse primai.

/296/ Notisi di passaggio, che questa terminazione in -ajo, e non già in -aro, aver debbono i nomi degli artisti, come librajo, ferrajo ecc., e i due mesi gennajo, e febbrajo. Tutti questi nomi poi terminati in -jo al plurale finiscono in -i semplice, come librai, ferrai ecc.

 

 

CAPO V

Dell’accrescimento delle parole

 

Quando ad una parola che termini per consonante segue una parola cominciata per s impura, si dee alla s premettere un i, come con istudio, con istento. L’articolo maschile innanzi a queste parole è lo, e gli, come lo studio, gli studj, non il studio, né li studj, come già abbiamo avvertito altrove.

            Alla preposizione a, ed alle congiunzioni e, o seguendo vocale si aggiugne ordinariamente una d, dicendo ad, ed, od. Si dice anche ned in vece di ; sur in vece di su; e negli antichi si trova pure, sed per se, ched per che.

/297/ I poeti alla terza persona singolare del perfetto indeterminato de’ verbi che han l’infinito in -ire aggiungon un -o, e dicono unio, finio, morio; lo stesso fan pure colle terze persone di que’ verbi terminati in -ere, che hanno il perfetto indeterminato in -é come batteo, feo, perdeo, e dicon anche fue per fu, die per e simili.

 

 

CAPO VI

Della divisione delle parole in fin di riga

 

Le parole devon sempre dividersi esattamente fra sillaba, e sillaba. Quindi allorché vi hanno due consonanti l’una dee porsi al fin della riga che termina, l’altra al principio della seguente; eccetto quando elle siano una muta, e una liquida, o che la prima di esse sia una s, che allora amendue s’appoggiano alla vocale seguente; e però contrasto

 

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 per esempio così dee dividersi con-tra-sto. Se v’ha un dittongo, non si può scio/298/gliere, né si può scrivere per esempio sci-o-gli-e-re; ma scio-glie-re. Le parole composte debbon dividersi nelle lor componenti, e però si deve scrivere mal-agevole, non ma-lagevole. Conviene ancor procurare di non terminare la riga con una consonante apostrofata (1); perciocché questa fa sempre sillaba colla prima vocale della parola seguente.

 

 

CAPO VII

Del raddoppiamento delle consonanti

 

Nelle parole radicali, che corte esser sogliono, la pronuncia facilmente fa intendere dove la consonante debba esser doppia, e dove semplice. Atto per esempio chi non conosce doversi scrivere con due t? Non così facilmente da chi non abbia appresa per tempo una buona pronuncia si può per questo comprendere nelle parole derivate, che sogliono esser più lunghe. Tengasi però la regola, di scriverle sempre come la loro radice; quindi siccome atto, così anche attività, /299/ atteggiamento, attualmente ecc. richiederanno due t. A questa regola tuttavia si sottraggono dubbio, che ha dubitare, mele, che dà mellifluo, piaccio, e taccio, che fuori di piaccia, taccia, piacciano, e tacciano han tutto il resto con un c solo.

            Nelle parole composte la consonante dee sempre raddoppiarsi quando la prima delle voci componenti termina per vocale accentata, come in acciocché, cosicché ecc., e quand’essa è uno dei monosillabi seguenti a-, e-, i-, o-, da-, fra-, ra-, co-, so-, su-, in-, come accorrere, eccedere, irrigare, ommettere, dabbene, frapporre, raccorre, commettere, soggiugnere, supporre, innondare. Tutto questo però quando la seconda delle voci componenti cominci per consonante. Che se ella comincia per vocale, come adoperare, che è composto di ad, e operare la consonante deve esser semplice: e ciò si fa pure quando essa comincia per s impura, come in ascrivere, sospirare ecc.

 

(1) Errore, che a noi è sfuggito nelle prime pagine (N.d.A.).

 

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Dopo i monosillabi de-, se-, re-, ri-, tra-, pre-, pro- la consonante ordinariamente non si raddoppia, come deridere, /300 /sedurre, relegare, riferire, tradurre, premettere, proporre. S’eccettuin rinnovare, rinnestare, rinnegare, trattenere, proffilare, provvedere colle voci, che da loro derivano.

            Di- fa sempre raddoppiare la f, come differire, difficile ecc., trattine difetto, e difendere, fa raddoppiare similmente la s, come dissimile, disserrare, dissetare ecc. Si noti però, che quando la seconda delle parole componenti comincia per vocale, in cambio di di- le si premette dis-, ma con una s sola, come disinganno, disobbligante ecc. Di tutte le altre consonanti il monosillabo di- non ne fa mai raddoppiare nessuna, perciò si scrive dibattere, dilapidare, diriggere ecc.

            Contra-, e sopra- vogliono anch’essi la consonante raddoppiata, come contraddire, contraffare, soprammodo, sovrapporre; oltra-, e oltre- la voglion semplice, come oltramontano, oltramarino, oltremodo. Altre- la raddoppia in altrettanto, e in altrettale, ma non in altresì.

/301/ La z mai non si raddoppia innanzi all’-i- seguita da altra vocale, trattone il nome pazzia.

            La g similmente deve sempre esser semplice innanzi alle lettere ‑ion‑, come ragione, cagionare, prigioniere ecc. Innanzi ad ‑io, e ‑ia semplicemente qualche volta ella è doppia, come in raggio, e reggia sostantivo, e qualche volta no, come in malvagio, e regia aggettivo. Egli è difficile il poter darne una regola precisa. Tuttavia si osservi che nelle parole derivate dal latino se il g è sostituito al d, o al j deve sempre esser doppio, come da modius, radius, Majus, major ecc. moggio, raggio, maggio, maggiore. Se è posto invece del t, della s, o del g latino, per ordinario è semplice, come da palatium, prætium, Ambrosius, collegium, naufragium; palagio, pregio, Ambrogio, collegio, naufragio. S’eccettuin legge, leggere, e pochi altri.

            La b, e la c innanzi ad -io, e -ia per lo più si raddoppiano, come abbia, gabbia, nebbia, caccia, laccio, goccia ecc. Sono eccettuati da questa regola bacio, /302/ e i suoi derivati, audacia, Libia, e Polibio.

 

 

            Egli è poi regola generale, che niuna consonante mai si raddoppia

 

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quand’è preceduta da altra consonante diversa: e però non si scriverà apparsso per esempio, ma apparso.

 

 

 

CAPO VIII

Dei punti, e delle virgole

 

L’uso dei punti, e delle virgole si è introdotto per indicare le pause del discorso, e distinguerne i sensi.

            Il punto fermo, o finale si mette alla fine di ogni periodo. Se questo non contiene alcuna ammirazione, né interrogazione si adopera un punto semplice; se v’ha interrogazione si scrive in questo modo (?) se ammirazione in quest’altro (!).

            I due punti si pongono fra un membro, e l’altro del periodo; e quando si debbono riferire le precise parole dette da alcuno.

/303/ Il punto, e virgola si mette fra le parti di un membro del periodo, ed anche fra i due membri stessi, quando siano brevi.

            La virgola serve a distinguere le proposizioni una dall’altra. E perciò siccome la congiunzione e si adopera per unire due proposizioni insieme, tralasciando quello, che in esse vi ha di comune (infatti Cicerone fu filosofo, ed oratore a cagion d’esempio vale lo stesso, come abbiamo veduto, che Cicerone fu filosofo, Cicerone fu oratore) così innanzi alla congiunzione e si pon sempre la virgola; il che si fa pure tra un aggettivo, e l’altro aggiunti allo stesso sostantivo, ancorché la congiunzione non vi sia, perché ella sempre si sottintende. Per la ragione medesima si pone la virgola avanti alle congiunzioni , o, se, ai relativi che, il quale ecc.

            Presentemente però si è da alcuni introdotto l’uso di ommetter la virgola innanzi alle congiunzioni, e al pronome relativo quando non fanno che congiungere una, o più qualificazioni ad un /304/ medesimo sostantivo: quindi essi scrivono Cicerone fu filosofo ed oratore senza virgola. Ognuno può in questo seguir l’uso, che più gli piace, e noi pure ci siamo serviti or dell’uno, or dell’altro modo secondo che ci è sembrato tornar più comodo.

 

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            Le parentesi si racchiudono tra due virgole, o tra due semilune.

            Quando hassi a riferire un lungo passo di qualche autore al principio, e al fine si mettono due virgole, le quali si aggiungono d’ordinario anche al principio di ogni riga.

 

FINE

 

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